La fregatura delle “primavere arabe”
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Analisi, gennaio 2016 - Il quotidiano algerino Reporters ha intervistato Ahmed Bensaada, in occasione dell'uscita del suo ultimo saggio “Arabesque$”, sul ruolo che hanno avuto gli Stati Uniti nelle "primavere arabe" (nella foto, Homs in rovina)
La fregatura delle “primavere arabe”
Ahmed Bensaada - intervista di Nordine Azzouz
Reporters: Sono passati cinque anni dalla cosiddetta “Primavera araba”. Il bilancio, con tutta evidenza, non è molto positivo, addirittura catastrofico per molti dei paesi coinvolti. Perché, secondo lei?
Ahmed Bensaada: “Non molto positivo” dice? Gli imponenti rivolgimenti che i benpensanti occidentali hanno precipitosamente ed erroneamente battezzato “primavera” hanno provocato solo caos, morte, odio, esilio e desolazione in molti paesi arabi. Bisognerebbe forse chiedere ai cittadini dei paesi arabi “primaverizzati” se la disastrosa situazione in cui si trovano attualmente possa definirsi primavera.
In proposito, i numeri sono eloquenti. Uno studio recente ha dimostrato che questa funesta stagione ha provocato, in soli cinque anni, più di 1,4 milioni di vittime (morti e feriti), cui occorre aggiungere più di 14 milioni di rifugiati. La “primavera” è costata ai paesi arabi più di 833 miliardi di dollari, di cui 461 in perdite di infrastrutture distrutte e siti storici devastati. D’altra parte la regione MENA (Middle East and Noth Africa – Medio Oriente e Africa del Nord) ha perso più di 103 milioni di turisti, una vera calamità per l’economia.
Homs in rovina
Nella prima edizione del mio libro “Arabesque américaine” (aprile 2011), ho denunciato l’ingerenza straniera in queste rivolte, e anche il carattere non spontaneo di questi movimenti. Certamente, prima di questi avvenimenti, i paesi arabi erano in una vera situazione di decrepitezza: assenza di alternanza politica, forte disoccupazione, democrazia embrionaria, bassi livelli di vita, diritti fondamentali violati, assenza di libertà di espressione, corruzione a tutti i livelli, favoritismi, fuga dei cervelli, ecc. Tutto ciò rappresenta un “terreno fertile” per la destabilizzazione. Nonostante, però, l’assoluta fondatezza delle rivendicazioni della piazza araba, ricerche approfondite hanno dimostrato che i giovani manifestanti e i cyber-attivisti arabi erano stati formati e finanziati da organizzazioni statunitensi specializzate nella “esportazione” della democrazia, come USAID, NED, Freedom House o l’Open Society del miliardario George Soros. E tutto ciò, già molti anni prima che Mohamed Bouazizi si immolasse col fuoco.
I manifestanti che hanno paralizzato le città arabe e che hanno sbullonato i vecchi autocrati arabi, seduti sulle loro poltrone di potere da decenni, rappresentano tuttavia una generazione piena di forza e di speranze.
Una gioventù istruita, che ha dimestichezza con le tecniche della resistenza non violenta e i suoi slogan efficaci. Le stesse tecniche teorizzate dal filosofo statunitense Gene Sharp e messe in pratica dagli attivisti serbi di Otpor durante le rivoluzioni colorate. Le stesse tecniche insegnate ai giovani manifestanti arabi dai fondatori di Otpor, nel loro centro CANVAS (Center for Applied Non Violent Action and Strategies), realizzato apposta per la formazione di dissidenti in erba.
Una gioventù ferrata nelle nuove tecnologie, i cui leader sono stati individuati, formati, messi in rete e sostenuti dai giganti statunitensi del Net, attraverso organizzazioni statunitensi come l’AYM (Alliance of Youth Movements).
Ma, proprio come gli attivisti delle rivoluzioni colorate, i cyber-dissidenti arabi sono preparati solo per decapitare i regimi. Essi sono infatti – probabilmente a loro insaputa – “incaricati” di favorire il crollo della vetta della piramide del potere. Non sanno assolutamente che cosa fare dopo, quando gli autocrati sono stati scacciati e il potere diventa vacante. Non hanno alcuna attitudine politica per guidare la transizione democratica che dovrebbe seguire la rivoluzione.
In un articolo sulle rivoluzioni colorate scritto nel 2007 dal giornalista Hernando Calvo Ospina ne Le Monde Diplomatique, si legge: “La distanza tra governanti e governati facilita il compito della NED e della sua rete di organizzazioni, che fabbricano migliaia di “dissidenti”, grazie ai dollari e alla pubblicità. Una volta ottenuto il cambiamento, la maggior parte di questi dissidenti, e delle loro organizzazioni, sparisce ingloriosamente dalla circolazione”.
Quindi, quando il ruolo assegnato ai cyber-attivisti si esaurisce, sono le forze politiche già attive ad occupare il vuoto creato dalla dissoluzione del vecchio establishment. Nel caso della Tunisia e dell’Egitto, sono stati i movimenti islamisti ad approfittare in un primo tempo della situazione, evidentemente aiutati dai loro alleati, come gli Stati Uniti, alcuni paesi occidentali ed arabi, e dalla Turchia, che doveva fungere da modello.
E’ evidente che questa “primavera” non ha niente a che vedere con gli slogan coraggiosamente scanditi dai giovani cyber-attivisti nella piazze arabe e che la democrazia è solo uno specchio per le allodole. Infatti, come ci si può non porre delle serie domande su questa “primavera”, quando si veda che gli unici paesi arabi che hanno subito questa stagione sono delle repubbliche? E’ un caso che nessuna monarchia araba sia stata toccata da questo tsunami “primaverile”, come se questi paesi fossero dei santuari della democrazia, della libertà e dei diritti dell’uomo? L’unico tentativo di sollevazione anti-monarchica, quello del Bahrein, è stato represso con violenza, con la collaborazione militare del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG), il silenzio complice dei media mainstream e la connivenza dei politici, al contrario tanto loquaci quando simili vicende hanno riguardato repubbliche arabe.
Questa “primavera” ha di mira la destabilizzazione di alcuni paesi arabi ben individuati in un quadro geopolitico ben più vasto, certamente quello del “Grande Medio Oriente”. Questa dottrina prevede il rimodellamento delle frontiere di una regione geografica che ospita paesi arabi ed altri paesi vicini, cancellando quelle ereditate dagli accordi di Sykes-Picot. Benché lanciato sotto la guida del presidente G.W.Bush e dei suoi falchi neoconservatori, questa teoria si ispira ad un progetto del 1982 di Odeon Yinon, un alto funzionario del ministero degli affari esteri israeliano. Il “Piano Yinon”, come lo si chiama, aveva in origine come obiettivo la “dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti e il rimodellamento della regione in piccole entità fragili, più malleabili e non in grado di scontrarsi con gli Israeliani”.
E lo smembramento purtroppo è in corso.
A proposito del "Piano Yinon"
In questo quadro, la Tunisia però resta un’eccezione. Come si spiega?
Certo, a paragone della Libia, della Siria o dello Yemen, la situazione in Tunisia può sembrare interessante. Ma, in termini assoluti, la Tunisia non rappresenta un modello di successo, come vogliono farci credere i media mainstream. E non è il Premio Nobel recentemente assegnato alla Tunisia che può cambiare qualcosa. Quando si osservi a chi è stato conferito negli ultimi anni, è lecito d’altronde chiedersi seriamente a cosa serva questo premio. E i Tunisini che, loro sì, da cinque anni vivono la “primaverizzazione” del loro paese ne sanno qualcosa. Commentando questo quinto anniversario, alcuni blogger non sono stati teneri. “Unico paese democratico del Maghreb + Premio Nobel, tutto il resto è peggio del periodo ZABA (Zine el-Abidine Ben Ali)”. O ancora, con una punta di umorismo: “Ingiustizia sociale, tortura, impunità, ce ne freghiamo di essere premio Nobel”.
In una recente intervista al Figaro, il mio amico tunisino, il filosofo Mezri Haddad, ha dichiarato: “Dovunque, anche nella Tunisia che viene presentata come il buon paradigma rivoluzionario e a cui è stato assegnato il premio Nobel della pace, senza la cancellazione del suo debito estero cresciuto vertiginosamente in meno di 5 anni e senza azioni di sostegno della sua economia oggi agonizzante, la ‘primavera araba’ ha distrutto piuttosto che costruire”. Per poi aggiungere: “Dal 2011, la Tunisia è diventato il primo paese esportatore di mano d’opera islamo-terrorista, come la Libia e la Siria. I rapporti delle Nazioni Uniti sono raccapriccianti per il Tunisino che è in me. L’autore dell’ultimo attentato suicida a Ziten, in Libia, è un tunisino, come quello che ha cercato di colpire la moschea di Valencia, o quello che si è fatto ammazzare dinanzi al commissariato del XVIII° arrondissement di Parigi”.
In effetti la Tunisia resta ancora, di gran lunga, il maggiore fornitore al mondo di jihadisti in Siria. Triste record per un paese che si vuole far passare per un’eccezione che giustifichi la narrazione “primaverile”.
E tutto ciò, senza contare gli assassinii politici, gli attentati terroristici ciechi che hanno provocato tanti lutti e le sordide storie del “jihad al-nikah” (il jihad delle giovani ragazze, consistente nell’andare a fare le prostitute dei mujaheddin in Siria, ndt), divulgate dai giovani tunisini radicalizzati.
E non basta il viaggio dell’equipe del (premio) Goncourt al Museo del Bardo, ancora segnato dalle stimmate dell’attentato del 18 marzo 2015 (riferimento alla decisione di celebrare la cerimonia di assegnazione del premio Goncourt 2015 al Museo del Bardo, ndt), che le attribuirà il marchio di paese che ha realizzato con successo la transizione democratica. Questa forzatura francese non riuscirà in alcun modo a cancellare il ricordo dell’errore del ministro francese Michèle Allot-Marie, che aveva proposto un aiuto francese alla polizia di Ben Ali per “risolvere i problemi di sicurezza”, dunque per porre fine all’impertinenza dei manifestanti che avevano invaso l’avenue Bourguiba, durante la primavera tunisina.
E questi manifestanti che sventolavano la propria giovinezza come la bandiera di un futuro radioso, cosa pensano adesso, dopo aver costretto il presidente Ben Ali alla fuga, dell’età di questi “dinosauri” politici che lo hanno sostituito? Giudicate voi: Moncef Marzouki (71 anni), Rached Ghannouchi (75 anni) e, soprattutto, l’attuale presidente, Beji Caid Essebsi (90 anni). Si può davvero credere che una rivolta intrinsecamente giovane, definita “facebookiana”, possa essere rappresentata da gerontocrati, da ex cacicchi di regimi odiati, da islamisti bellicosi o da quelli che confondono l’interesse del paese con quello, sovranazionale, della loro confraternita (I Fratelli Mussulmani, ndt)?
Potevano mai immaginare che sarebbe stata un giorno approvata una legge elettorale per riabilitare gli ex seguaci di quel Ben Ali, che hanno combattuto con accanimento? Avrebbero mai potuto immaginare che cinque anni – giorno più, giorno meno – dopo la fuga di Ben Ali, Ridha Yahyaoui, un giovane diplomato disoccupato tunisino, si sarebbe ucciso a Kasserine per protestare contro i favoritismi nelle assunzioni, lo stesso flagello che avevano denunciato e contro cui si erano battuti? E che i moti che sono seguiti a questo dramma sarebbero stati duramente repressi? Cosa c’è di positivo in questa “primavera” tunisina se, cinque anni dopo, Yahyaoui ha imitato Bouazizi per le medesime ragioni?
Manifestazioni e scontri con la polizia a Kasserine (gennaio 2016)
Quali differenze, o precisazioni, richiede secondo lei l’analisi della situazione attuale in paesi come la Siria o la Libia, quest’ultimo per noi tanto importante per la vicinanza geografica e storica (l’intervistatrice è algerina, ndt)?
La guerra civile che attualmente infuria in Siria ha curiose somiglianze con quella che la ha preceduta in Libia: a) l’epicentro iniziale della rivolta siriana non era nella capitale, ma in una regione di frontiera (contrariamente alla Tunisia e all’Egitto); b) una “nuova antica” bandiera ha visto la luce come stendardo degli insorti; c) la fase non violenta della rivolta è stata molto breve; d) il coinvolgimento militare straniero (diretto o indiretto) ha rapidamente trasformato le sommosse non violente in una sanguinosa guerra civile.
In effetti, quando la teoria di Gene Sharp non funziona e gli insegnamenti di CANVAS non si rivelano fruttuosi, come nel caso della Libia e della Siria, le manifestazioni si trasformano assai rapidamente in guerra civile. Questa metamorfosi si opera grazie ad una palese ingerenza straniera da parte degli stessi paesi prima citati, tramite NATO (il caso della Libia) o di coalizioni eteroclite (il caso della Siria).
Così i paesi occidentali (con l’aiuto dei loro alleati arabi e regionali) passano senza scrupoli da un approccio non violento alla Gene Sharp, ad una guerra aperta, sanguinosa e omicida, in cui il sangue arabo scorre a fiumi.
L’effimera fase sharpiana delle manifestazioni popolari è stata utilizzata sia per giustificare l’intervento militare della NATO in Libia, che quello della coalizione anti-Bachar in Siria. La risoluzione 1973, che ha permesso la distruzione della Libia, è stata giustificata dalla falsa accusa che le forze lealiste di Gheddafi avrebbero ucciso non meno di 6000 persone tra la popolazione civile. Molti paesi hanno ritenuto peraltro che gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e i loro alleati abbiano aggirato e forzato questa risoluzione, consentendo alla NATO di andare oltre il mandato ottenuto dal Consiglio di Sicurezza. Sono soprattutto la Russia e la Cina che, “memori della lezione della risoluzione 1973”, hanno poi opposto il loro veto a qualsiasi risoluzione ONU di condanna della Siria e del presidente Bachar el-Assad. Se così non fosse stato, le televisioni mainstream del mondo intero ci avrebbero mostrato le immagini del presidente Bachar, col cuore divorato o la testa strappata dai jihadisti specializzati in questo, che pullulano in Siria grazie all’attiva collaborazione degli Occidentali e dei loro alleati.
D’altronde l’analisi delle email della signora Hillary Clinton ha dimostrato che le motivazioni dell’eliminazione di Gheddafi non avevano niente a che vedere con una qualsiasi volontà di democratizzazione della Libia, ma avevano a che fare con interessi strategici, economici, politici e con un celebre tesoro in oro. Lo stesso è per il presidente siriano.
E’ anche interessante notare che le analisi serissime di alcuni specialisti statunitensi hanno dimostrato che la guerra in Libia non era necessaria, e che avrebbe potuto essere evitate se gli Stati Uniti l’avessero permesso e che l’amministrazione USA ha facilitato la fornitura di armi e l’appoggio militare ad alcuni ribelli legati ad Al Qaeda.
D’altra parte, il contrammiraglio statunitense Charles R. Kubic ha rivelato che Gheddafi era disposto ad andarsene, per permettere la formazione di un governo di transizione a due condizioni. La prima era di avere garanzie che una forza militare, anche dopo la sua partenza, sarebbe rimasta per contrastare Al Qaeda, e la seconda era un lasciapassare e l’abolizione delle sanzioni contro di lui, la sua famiglia e i suoi fedeli.
Nuovi documenti accusano Hillary Clinton nel dossier libico
Da parte sua, l’ex presidente finlandese (1994-2000) e premio Nobel per la pace 2008, Martti Ahtisaari ha riconosciuto di essere stato incaricato dal governo russo di trovare una soluzione pacifica al conflitto siriano, e questo fin dall’inizio del 2012.
Il piano di risoluzione del conflitto siriano, presentato ai rappresentanti delle cinque nazioni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, comprendeva tre punti; 1) non armare l’opposizione 2) organizzare un dialogo tra l’opposizione e Bachar el-Assad; 3) permettere a Bachar el-Assad di ritirarsi elegantemente.
Secondo Martti Ahtisaari, nessun seguito ha avuto la presentazione di questa proposta ai rappresentati statunitense, britannico e francese.
E’ chiaro dunque che l’obiettivo di questa “primavera” non ha nulla a che vedere con la democrazia e i diritti umani in Libia e in Siria (e dovunque nella regione MENA), ma era soltanto l’eliminazione fisica dei presidenti Gheddafi e Bachar el-Assad, a costo di distruggere questi due paesi e di liquidare migliaia di Arabi, a costo di finanziare degli jihadisti mangiatori di cuori e tagliatori di teste e offendersi quando essi rivolgono le loro armi contro i loro creatori.
In senso del tutto opposto, ciò che viene chiamata “primavera”, nel caso libico e siriano, è un esempio di scuola di guerra civile fomentata dall’estero col pretesto dei diritti dell’uomo.
Attualmente questi due paesi sono terre di instabilità politica e rifugio di terroristi di Daesh, apertamente finanziati da alcuni paesi occidentali, da paesi arabi e potenze regionali.
Nel quadro di questa forte turbolenza politica e di ingerenza straniera aggressiva, l’Algeria è stata uno dei bersagli di punta, e lo resta tuttora. Ricordiamo che anche dei giovani Algerini hanno partecipato ai corsi di formazione dei Serbi di CANVAS e che numerosi paesi hanno scommesso sulla “primaverizzazione” (violenta o meno) dell’Algeria. I pessimi ricordi del decennio nero e la inconsistenza della CNCD (Coordinamento nazionale per il cambiamento e la democrazia) hanno fatto sì che le cose andassero in un altro modo.
Attualmente la situazione libica è evidentemente assai preoccupante per la sicurezza e la stabilità dell’Algeria. Alcune stime indicano in 300 il numero delle milizie armate presenti in Libia e notano che esse sono saldamente collegate alle omologhe formazioni tunisine. Infatti, secondo un resoconto della Commissione affari esteri dell’Assemblea Nazionale Francese dello scorso novembre, “tutti i recenti attentati in Tunisia sono stati organizzati e pianificati dalla Libia”.
Così, e in senso contrario alle dichiarazioni bellicose e malintenzionate di Sarkozy – uno dei maggiori responsabili della distruzione della Libia – è piuttosto l’Algeria che dovrebbe attualmente lamentarsi della propria “collocazione geografica” confinante con la Tunisia e con la Libia. Ciò è tanto più vero, dal momento che la collaborazione tra Daesh e i movimenti terroristi del Sahel risulta sempre più evidente, ciò che dà ancor più filo da torcere all’Algeria nel mettere in sicurezza la propria regione meridionale.
Ne consegue dunque in modo evidente che, anche se l’Algeria non è stata direttamente toccata da questa lugubre stagione, la “primaverizzazione” dei suoi vicini le pone grandi sfide.
Le dichiarazioni incendiarie di Nicolas Sarkozy contro l'Algeria
Nel suo libro “Arabesque$”, di cui è appena uscita una nuova edizione riveduta e arricchita, lei avanza la tesi di un grande coinvolgimento e di una grande responsabilità degli Stati Uniti nelle “primavere arabe”, un impegno statunitense che lei assimila né più né meno che ad operazioni di destabilizzazione degli Stati e dei governi in carica nel mondo arabo. Fino a che punto, al di là della tesi, e in base a quali circostanze di fatto, lei continua a condividere tale analisi?
Quando la prima versione del mio libro intitolato “Arabesque américaine” venne pubblicata nell’aprile 2011, essa venne accolta con molto scetticismo, in quanto la tesi che vi si sosteneva si scontrava con l’euforia “primaverile” diffusa e introduceva una nota dissonante in un unanimismo estatico. Questa soddisfazione di fronte ad una “rivoluzione” araba immacolata, organizzata da una bella gioventù istruita e impetuosa, non doveva essere in alcun modo macchiata da accuse che, alla fine dei conti, non potevano che essere calunniose. Questa è la narrazione divulgata dai media mainstream e da molti specialisti “catodici”, di cui ancora residua qualche esemplare cocciuto.
Bisogna riconoscere che contraddire il romanticismo rivoluzionario portato al suo parossismo, solo qualche settimana dopo la caduta di Ben Ali e di Mubarak, era sintomo sicuro di una incosciente temerarietà.
Tuttavia la tesi sostenuta in questo libro – che contiene più di 260 riferimenti tutti facilmente verificabili – è stata meticolosamente elaborata attraverso l’analisi di molti libri, documenti ufficiali, rapporti, cabli WikiLeaks, ecc.
E’ chiaro che non sono stati gli Stati Uniti a provocare la “primavera” araba. Come già spiegato, la situazione politica e socioeconomica dei paesi arabi costituiva un terreno fertile alla dissidenza e alla rivolta. Però l’ingerenza statunitense in questo processo non è stata irrilevante, per niente. Il ruolo fondamentale svolto dalle organizzazioni specializzate nella “esportazione” della democrazia e nella maggior parte dei casi sovvenzionate dal governo USA, i corsi di formazione teorica e pratica alla resistenza non violenta dispensati da CANVAS, la costituzione di una “lega araba del Net”, capace di utilizzare le nuove tecnologie, l’elaborazione di strumenti di navigazione anonimi, distribuiti gratuitamente ai cyber-attivisti, la stretta collaborazione tra i cyber-dissidenti e le ambasciate statunitensi nei paesi arabi, l’importanza delle somme investite, l’impegno militare e le mosse diplomatiche di alto livello lo confermano. E siccome la politica estera degli Stati Uniti non è mai stata un modello di filantropia, occorre arrendersi all’evidenza che gli Statunitensi hanno fortemente influenzato il corso degli avvenimenti. Senza dimenticare che tutte queste attività sono state avviate anni prima dell’avvio della “primavera” araba.
Mano mano che il tempo passava, la natura perfida di queste “rivoluzioni” è diventata chiara, le lingue si sono sciolte e nuovi documenti sono comparsi. Non solo niente è venuto a smentire la mia tesi, ma essa è risultata straordinariamente confermata. E’ questo che ha reso necessaria una nuova versione del libro, intitolata “Arabesque$ - Inchiesta sul ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe”, pubblicata nel settembre 2015. Rispetto all’edizione precedente, la nuova contiene più di 600 riferimenti e il numero di pagine è quasi triplicato.
Tra i documenti espliciti, citiamo a titolo di esempio lo studio realizzato nel 2008 dalla RAND Corporation (Ufficio studi dell’esercito USA), che è stato utilizzato come base per la politica statunitense di “esportazione” della democrazia verso i paesi arabi, fondata sulla formazione, il sostegno e la messa in rete di attivisti provenienti da questi paesi.
Anche un altro documento merita di essere menzionato. E’ un rapporto del Dipartimento di Stato USA, redatto nel 2010 e ottenuto nel 2014, grazie alla legge sulla libertà di informazione. Questo rapporto spiega chiaramente “l’elaborata struttura dei programmi del Dipartimento di Stato miranti a creare organizzazioni della “società civile”, in particolare organizzazioni non governative (ONG), con l’obiettivo di modificare la politica interna dei paesi presi di mira, orientandola in modo da assecondare la politica estera degli Stati Uniti e i suoi obiettivi di sicurezza nazionale. Pur utilizzando un linguaggio prettamente diplomatico, il documento precisa che l’obiettivo è la promozione e il pilotaggio dei cambiamenti politici nei paesi presi di mira”.
Il coinvolgimento degli Stati Uniti nella “primavera araba” non è quindi una fantasia politica. Esso è apertamente riconosciuto dalla stessa amministrazione USA. E’ questo che viene spiegato, con molti dettagli, nel libro “Arabesque$”.
Presentazione di Michel Collon del libro “Arabesque$”
Condivide l’affermazione che “le primavere arabe sono finite”? Quali possibili scenari vede in Siria e soprattutto in Libia, paese nel quale stenta a trovarsi una soluzione politica e in relazione al quale si fanno, soprattutto in Europa, progetti di intervento militare?
Occorre anche dire che la “primavera” araba non è mai stata una primavera, viste le conseguenze disastrose che ha avuto per le popolazioni, né è stata intrinsecamente araba, dal momento che i movimenti di contestazione sono stati ampiamente infiltrati da organizzazioni straniere, soprattutto statunitensi.
Il processo di “primaverizzazione” del mondo aravo è giunto alla fine? Sicuramente sì, i popoli arabi non sono sciocchi. Gli esempi della selvaggia distruzione della Libia, della Siria e dello Yemen sono sufficienti a convincere anche i più riottosi-
Il mondo arabo ha imperativamente bisogno di grandi cambiamenti in molti settori della società: politico, socioeconomico, culturale, libertà di espressione, diritti umani, ecc. Ma questi cambiamenti si devono realizzare distruggendo i paesi e permettendo il risorgere di pratiche medioevali che seminano morte, odio e desolazione? Certamente no.
D’altra parte questi cambiamenti non devono in alcun modo essere funzionali ad agende straniere, e i paesi arabi non devono consentire che le loro terre diventino terreno di gioco delle potenze, su cui possano realizzare guerre “low cost”, nelle quali solo il sangue arabo viene versato.
E’ il caso della Siria, nella misura in cui questo paese è attualmente il teatro di scontro (diretto o indiretto) di molti belligeranti, ciascuno con la sua propria ambizione, diversa da quelle degli stessi Siriani.
Per quanto riguarda la Libia, qualsiasi nuovo intervento militare occidentale in questo paese rischia di avere delle conseguenze indesiderabili nel territorio algerino. E’ per questa ragione che l’Algeria è fermamente contraria a questa eventualità e compie ogni sforzo per trovare una soluzione politica a questo conflitto, per far sedere attorno ad uno stesso tavolo tutte le diverse fazioni in conflitto.
Perché è solo consentendo ai cittadini dello stesso paese di discutere insieme, in buona fede, tenendo conto dei loro interessi nazionali e non di quelli degli altri, che il mondo arabo riuscirà a uscire dalla situazione di profonda decadenza nella quale si è insabbiato.