Recensioni, novembre 2012 - Le "primavere arabe" sono oggetto di analisi non univoche. Per qualcuno, sono né più né meno che il prodotto di laboratori specializzati nella destabilizzazione dei governi non graditi alle Potenze occidentali. Per altri, sono una risposta a regimi dittatoriali oramai senza fiato. Ahmed Bensaada, ricercatore in Canada e collaboratore di Ossin, propende per una lettura che faccia una sintesi delle due tesi (nella foto, Ahmed Bensaada)





Reporters, 11 novembre 2012 (trad. Ossin)


Intervista a Ahmed Bensaada
Le “Primavere arabe” hanno inventato la guerra “low cost”
Nordine Azzouz


I rivolgimenti che da più di due anni scuotono molti paesi del mondo arabo sono oggetto di analisi non univoche. Per qualcuno, queste “rivoluzioni” sono né più né meno che il prodotto di laboratori specializzati nella destabilizzazione degli Stati della regione, le cui politiche disturbano gli interessi delle Potenze occidentali e degli Stati Uniti in particolare. Per altri, sono una risposta a regimi dittatoriali oramai senza fiato. Ahmed Bensaada, ricercatore in Canada, propende per una lettura che faccia una sintesi delle due tesi


Sta per uscire un libro sulla questione delle primavere arabe. Di cosa si tratta?

Il libro in questione si intitola “La face cachée des révolutions arabes”. Pubblicato dalle edizioni Ellipses, uscirà a Parigi il 4 dicembre 2012. Quest’opera, cui anche io ho contribuito, è un lavoro collettivo diretto da Eric Denécé, direttore del Centre Français de Recherche sur le Renseignement (CF2R). Vi hanno partecipato non mendo di 24 autori di diverso orientamento, e per questo è un lavoro ricchissimo e molto ben documentato, che contribuirà molto certamente alla comprensione di ciò che viene comunemente chiamata “primavera araba”. Vi saranno testi scritti sia da ricercatori che da giornalisti, da filosofi o da politici.


Il libro si divide in 3 parti: a) Analisi e decostruzione delle rivoluzioni nazionali; b) Il maggior ruolo svolto dalle forze straniere; c) Le conseguenze internazionali della primavera araba. Tutto questo fa del libro uno dei primi capaci di uno sguardo di insieme sulle diverse sfaccettature delle rivolte che scuotono la piazza araba da quasi due anni.


Anche lei vi ha partecipato: per quale tesi propende?

La tesi che io sostengo è quella del coinvolgimento degli Stati Uniti nelle rivolte della piazza araba, con l’intermediazione di una rete di organizzazioni USA specializzate nella “esportazione” della democrazia. In proposito si può citare la United States Agency for International Development (USAID), la National Endowment for Democracy (NED), l’International Republican Institute (IRI), il National Democratic Institute for International Affairs (NDI), Freedom House (FH) o l’Open Society Institute (OSI). Si tratta peraltro delle stesse  organizzazioni che hanno contribuito al successo delle rivoluzioni colorate in alcuni paesi dell’est o delle ex Repubbliche sovietiche: Serbia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005).


Il coinvolgimento USA può essere individuato in due aspetti distinti ma complementari: uno relativo al cyberspazio, l’altro allo spazio reale. Il primo ha riguardato la formazione di cyber attivisti arabi (che fanno parte di quella che viene comunemente chiamata “Lega araba del Net”) nell’uso del cyberspazio. La seconda è relativa all’apprendimento delle tecniche di lotta non-violenta teorizzate dal filosofo statunitense Gene Sharp e messe in pratica dal “Centre for Applied Non Violent Action and Strategies” (CANVAS), diretto da ex dissidenti serbi che hanno partecipato alle rivoluzioni colorate.


Le ragioni di questo convincimento e molti riferimenti sono contenuti sia nel mio libro “Arabesque américaine: Le role des Etats Unis dans les révoltes de la rue arabe” (Edition Michel Brulé, Montreal, 2011; Editions Synergie, Alger, 2012), che in un capitolo intitolato “Le role des Etats Unis dans le printemps arabe” del nuovo libro che sta per uscire: “La face cachée des révolutions arabes”. Da notare che nel secondo alcune informazioni sono state aggiornate mentre altre, a proposito della Libia e della Siria, sono state aggiunte ex novo. Infatti, quando è uscito il primo libro, le rivolte in questi due paesi erano solo all’inizio.


Che cos’è che oggi induce a sostenere che le “primavere arabe” siano state concepite in laboratorio lontano da ogni volontà dei popoli, mentre nei paesi della regione esiste un vero problema di governance e di deficit democratico?

Sicuramente non sono stati gli Stati Uniti a creare la “primavera” araba. Le rivolte che hanno sconvolto le piazze arabe sono una conseguenza dell’assenza di democrazia, di giustizia sociale e di fiducia tra i leader e i loro popoli. Tutto ciò costituisce un “terreno fertile” per la destabilizzazione. Ed è un terreno fatto di donne e di uomini che hanno perso la fiducia nei loro leader, la cui patologica perennità non lascia intravvedere alcuno spiraglio di speranza. Per essi il fine giustifica i mezzi.

Tuttavia il coinvolgimento USA in questo processo non è da poco. Le somme investite, la formazione di quadri, l’impegno militare e le capriole diplomatiche lo confermano. D’altronde questo coinvolgimento non è cominciato con la sollevazione delle piazze arabe, ma molto prima. Per esempio, si stima che tra il 2005 e il 2010, non meno di 10.000 Egiziani siano stati formati dalle organizzazioni citate in precedenza. Esse hanno sborsato non meno di 20 milioni di dollari all’anno in Egitto, somma che è raddoppiata nel 2011. E, d’altra parte, è sempre per questa ragione che alcune di queste organizzazioni sono state incriminate nel 2012 dalla Giustizia egiziana che le ha accusate di “finanziamenti illeciti”. Ricordiamo in proposito che 19 statunitensi sono stati coinvolti in questa inchiesta, tra cui Sam Lahood, il direttore per l’Egitto dell’IRI, figlio del segretario USA ai trasporti, Ray LaHood.


Quale è la ragione per cui si fa un “solo fascio” di “primavere” che si atteggiano in modo diverso a seconda che si tratti dell’Egitto, dove l’azione per il rovesciamento di Mubarak e del suo regime ha avuto successo, o della Siria, un paese che oggi rischia la divisione?

E’ vero che ogni rivolta ha avuto la sua propria dinamica. Quelle che hanno interessato la Tunisia e l’Egitto sono state simili. Per contro, sebbene siano apparse agli esordi simili alle prime, le rivolte libiche e siriane si sono rapidamente trasformate in guerre civili “classiche”, con una palese ingerenza straniera. Occorre tuttavia sottolineare che in tutte un ruolo centrale è stato giocato dagli Stati Uniti, anche se nelle due ultime la collaborazione di alcuni paesi della NATO (Francia, Gran Bretagna, Turchia) e arabi (Qatar e Arabia Saudita) è stata importante.


Dall’analisi delle rivolte della “primavera” araba possono trarsi due lezioni. La prima è che i paesi occidentali (aiutati da paesi arabi collaborazionisti) sono in grado di cambiare i regimi e i governi arabi con un rischio quasi nullo di perdite umane e un investimento assai redditizio. In Libia, per esempio, sono state uccise decine di migliaia di persone e le perdite occidentali sono state nulle, nonostante le decine di migliaia di attacchi aerei delle forze della NATO. D’altra parte il ministro della Difesa francese ha reso noto che il costo totale dell’operazione in Libia per la Francia potrebbe essere stimato in 320 milioni di euro al 30 settembre 2011. Una sciocchezza, se la si paragoni per esempio al costo dell’intervento occidentale in Iraq o in Afghanistan, dove le perdite umane delle forze della coalizione e le loro spese sono state enormemente maggiori. Con la “primavera araba” si è inventato il concetto di guerra “low cost”. Evidentemente il prezzo è stato basso per gli occidentali, non certo per gli Arabi.


La seconda lezione su cui meditare è che i paesi occidentali possono passare, senza alcuno scrupolo, da un approccio non violento alla Gene Sharp ad una guerra aperta (sotto l’egida dell’ONU o meno) coi mezzi militari della NATO, brandendo contemporaneamente, di tempo in tempo, lo spettro della Corte Penale Internazionale (CPI).


Così non cadiamo nella tesi del complotto ordito dall’Occidente?

Sviluppare una tesi sul ruolo avuto dagli Stati Uniti nelle rivolte arabe è triplamente problematico. Per prima cosa, si può guadagnare l’etichetta di anti-americano paranoico ossessionato da visioni cospirazioniste. In secondo luogo, si può passare per un protettore, addirittura un ammiratore, di autocrati tiranni e di leader megalomani che da troppo tempo hanno usurpato il potere. Infine, non è impossibile che si possa essere tacciati di essere un nemico della “nobile e grandiosa rivoluzione del popolo”.

Di fatto, non appena l’analisi di un intellettuale si discosti da quelle dei media più importanti, lo si accusa automaticamente di “flirtare con la teoria del complotto”. Nel caso specifico della rivolte arabe, il complotto è piuttosto di questi media “mainstream” che vogliono farci credere alla spontaneità delle rivolte arabe. Vi ricordo una citazione di F.D. Roosevelt: “In politica niente succede per caso. Se succede qualcosa, potete scommettere che qualcuno l’ha programmata”. Le informazioni contenute nei due libri si fondano su fatti verificabili. Vi ricordo anche che i media più importanti che creano e diffondono le informazioni appartengono tutti ai paesi coinvolti nella “primaverizzazione” degli Arabi. Dicono tutti la stessa cosa, sollevando uno dei belligeranti (quello che è contro il governo in carica) al rango di eroe e affibbiando all’altro quello di macellaio. La verità è molto più complessa e non si esaurisce in un quadro dicotomico in bianco e nero. Un lavoro giornalistico serio ed onesto dovrebbe piuttosto impegnarsi ad analizzare i diversi toni di grigio.

L’altra fandonia divulgata da questi media è che gli Occidentali siano interessati a portare la buona novella in questi paesi sotto forma di democrazia. E allora perché questi stessi Occidentali non aiutano i cittadini del Bahrein a costruire anche essi la democrazia, dal momento che sono mesi che il regno è in rivolta? E quei paesi, come il Qatar e l’Arabia Saudita che vogliono istaurare la democrazia nei paesi arabi, non dovrebbero cominciare da casa loro?

Così, finché i giornalisti di questi media non faranno il loro lavoro correttamente, spetta a gente come noi, che non abbiamo alcuna vicinanza con i belligeranti, il compito di sbrogliare la matassa della verità. 

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