Finalmente liberi
Nicola Quatrano 

Salé, 14 aprile 2011. Dopo un anno, sei mesi e sei giorni di carcere, sono stati finalmente scarcerati gli ultimi tre saharawi, dei sette arrestati il giorno 8 ottobre 2009, al rientro da un viaggio nei campi profughi di Tinduf.
Si tratta di Ali Salem Tamek, Brahim Dahane e Ahmed Naciri. Tutti e tre sono già a casa, i primi due a Laayoune e il terzo a Smara, dove sono stati accolti dall’entusiasmo dei compagni di lotta e dei familiari.
Si è scritta in questo modo la parola “Fine” ad una vicenda che il governo marocchino non ha saputo gestire e ad un processo politico che le autorità marocchine non hanno la forza “politica” di concludere.
La vicenda si è intrecciata con diversi importanti avvenimenti: il tentativo di espulsione di Aminattou Haidar da Laayoune, la breve vita del campo della “dignità” di Gdeim Izik (prodromo dell’ondata di contestazione che oggi investe tutto il mondo arabo) e, da ultimo, la “primavera araba” che scuote i governi e le élite di tutti i paesi del Maghreb, e non solo.
Il processo ai sette militanti saharawi è stato una farsa, il tentativo abortito che il governo marocchino ha fatto di risolvere con la forza le contraddizioni sollevate dalla occupazione illegale del territorio del Sahara Occidentale. Esso solleva questioni rilevantissime di carattere giuridico: la pretesa di un obbligo di “fedeltà” da parte di un popolo sottoposto ad una occupazione illegale, e altrettante di pari rilevanza sul piano politico e della difesa dei diritti umani.
Ossin ha seguito costantemente il processo in tutto il suo svolgersi, e intende continuare a prestare la dovuta attenzione ai processi che si preparano contro le decine e decine di militanti saharawi ancora prigionieri.
Ma questo per il futuro. Oggi prevale la grande soddisfazione per un esito che restituisce la libertà a tre persone colpevoli solo di aver militato per l’autodeterminazione e la libertà.





Un processo ai diritti


Il giorno 8 ottobre 2009, sette militanti saharawi vengono arrestati all’aeroporto di Casablanca, dove sono appena atterrati, di ritorno da una visita ai campi dei rifugiati di Tindouf, in Algeria. Si tratta di Brahim Dahane, presidente dell’ASVDH, di Lachgare Degia, componente dell’ufficio esecutivo della stessa associazione, ex desaparecida di Qalaet Megouna, dove ha passato più di 11 anni, di Nassiri Hammadi, presidente del comitato di difesa dei diritti dell’uomo a Smara e membro della stessa associazione, di Ali Salem Tamek, segretario generale del Codesa, di Tarouzi Ihdih, membro dell’ODS, di Saleh Lebaihi, membro del Codesa e infine  di Rachid Sghavar.
Alle 13,37 Dahane telefonava ai compagni dell’ASVDH per informarli che erano appena atterrati e c’erano delle vetture della polizia sulla pista, quindi temevano di essere arrestati. Da allora nessuna notizia, fino all’annuncio stampa di qualche giorno successivo, apparso chissà perché sui soli quotidiani arabofoni .
L’arresto è stato preceduto da un’intensa campagna di stampa, che ha visto la quasi totalità dei giornali marocchini denunciare con accanimento il “tradimento” di questi “separatisti al soldo del Fronte Polisario” che, dalle “province del Sud (vale a dire dai territori del Sahara Occidentale illegalmente occupati dal Marocco), si sono recati a Tindouf, la zona del deserto algerino che ospita i rifugiati saharawi,  amministrata dal Fronte Polisario, e dove siedono Governo e Parlamento della Repubblica araba democratica saharawi (RASD).
Una sfilza di commenti tutti uguali, evidentemente confezionati dai servizi marocchini, recanti tuttavia la firma di diversi commentatori e dirigenti di partito.  Per l’occasione è stata anche rispolverata la formula, che sembrava oramai desueta, di “sequestrati di Tindouf”, vale a dire la favola propagandistica secondo la quale i saharawi scappati in Algeria durante la guerra di occupazione, per sfuggire ai bombardamenti e ai massacri dell’esercito marocchino, sarebbero trattenuti con la forza dalle Autorità del Fronte Polisario, che impediscono loro di ritornare nei territori occupati per sottomettersi giulivamente alla colonizzazione marocchina.
Si tratta di una bugia che sembrava essere stata espunta dal bagaglio propagandistico del Regno, dopo che diversi “sequestrati” hanno avuto la possibilità di andare in visita dai parenti nei territori occupati, nell’ambito di un programma gestito dalle Nazioni Unite, e al termine della visita sono tutti rientrati spontaneamente nei loro campi. E dopo un reportage del settimanale marocchino TelQuel, che ha smentito definitivamente la tesi del “sequestro”.
Ma niente! Nell’edizione dell’8 ottobre, Le Matin du Sahara apriva la prima pagina col titolo a caratteri cubitali: “Les Marocains s’unissent contre les traîtres” (I marocchini si uniscono contro i traditori) e seguiva un articolo dai toni solenni: “Unanimità ed unione indefettibile di tutti i Marocchini sulla questione del Sahara marocchino, vera causa sacra del Regno”. Si citava un comunicato dell’ASM (Association le Sahara marocain), a proposito di un incontro che i “traîtres” avrebbero avuto, nel corso del loro soggiorno in Algeria,  con “tre alti responsabili della sicurezza militare algerina”, riunione della quale l’associazione si diceva in grado di riferire anche la durata esatta: 2 ore e 35 minuti. “L’obiettivo di questa riunione era quello di sollecitare i traîtres ad una azione di mobilitazione dei giovani delle università di Agadir, Marrakech e delle altre città del Regno, perché compiano atti di vandalismo contro le forze dell’ordine”. I generosi agenti algerini avrebbero anche fissato il considerevole budget di 20.000 euro per ciascuna università, onde compensare gli studenti impegnati nelle attività vandaliche. Soldi che sarebbero stati consegnati in Marocco, per il tramite di una terza persona, ad Ali Salem Tamek, incaricato della gestione finanziaria dell’operazione. Inoltre l’ASM rendeva noto di avere ricevuto diverse segnalazioni di studenti che sarebbero stati raggiunti telefonicamente dai “traîtres” ed avrebbero ricevuto offerte in denaro per compiere atti di sabotaggio. L’articolo proseguiva con un sommario delle prese di posizione delle forze politiche.
Con espressioni identiche – evidentemente  suggerite dal “Palazzo”- tutti i partiti condannavano  l’atto di “tradimento”. Così il PAM (la nuova formazione creata dal Palazzo reale ed espressione dalle vecchie clientele provinciali) parlava di “tradimento della patria”, di “rottura dell’unanimità nazionale”, oltre che di “offesa ai sentimenti di tutti i Marocchini”. La visita resa da questi “individui” ai campi profughi veniva inoltre considerata una “reazione disperata” ai grandi successi internazionali della proposta di autonomia  “elargita” alle province del Sud. Identiche espressioni da parte del Partito dell’Istiqlal, del Rassemblement National des Indépendents, del Mouvement Populaire, dell’Union Constitutionelle, del Parti Socialiste. Tutti chiedevano provvedimenti severi nei confronti di quegli ”individui” che hanno tradito la patria.
L’Opinion titolava a tutta pagina “La quinta colonna” e parlava anch’essa di “tradimento” da parte di “individui al soldo del Fronte Polisario”.
Durissimo e preoccupante l’editoriale del quotidiano Aujourd’hui le Maroc, a firma del direttore Khalil Hachimi Idrissi. “La patria è clemente e misericordiosa. Ma non è idiota. Il viaggio Tindouf-Laayoune è di sola andata. Ed è a senso unico. Un saharaoui marocchino separatista pentito ha diritto di tornare a casa. Ma è dubbio che, in nome della clemenza e della democrazia della patria, si debba riconoscere il medesimo diritto ad un separatista dell’interno che si unisce ad una formazione avanzata del separatismo a Tindouf. Alla fine bisogna scegliere. Sia che si sia separatisti, sia che si sia unionisti. Il posto naturale dei primi è a Tindouf, in attesa di una soluzione collettiva. I secondi devono stare a casa loro. La via di mezzo, vale a dire vivere a Laayoune, farsi finanziare il separatismo alle Canarie, seguire degli stage a Tindouf e poi tornare a Laayoune per turbare l’ordine pubblico in nome della RASD è inaccettabile. Le regole del conflitto richiedono un minimo di onestà. I nostri avversari devono comportarsi come tali. Il fatto che i separatisti dell’interno dispongono oggi – a differenza dei sequestrati di Tindouf – della libertà di andare e venire, soprattutto all’estero, pone loro degli obblighi. Ma è lo statuto – espressione impropria – di separatisti dell’interno che pone problemi. La sperimentazione in corso si chiude con un fallimento. Bisogna trarre la giusta lezione”.


Il discorso del re
Contro i sette “traditori” è sceso in campo il re in persona, con un discorso pronunciato il 6 novembre 2009, in occasione del 34° anniversario della “marcia verde” e dell’annessione dell’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale al Marocco. Nell’occasione Mohammed VI ha invitato con forza le autorità ad agire con la massima fermezza contro “gli avversari della integrità territoriale del Marocco”.
“E’ venuto il tempo – ha detto tra l’altro - che tutte le autorità pubbliche moltiplichino la vigilanza e la mobilitazione per contrastare, con la forza della legge, ogni attentato alla sovranità della nazione e per preservare, con tutta la fermezza necessaria, la sicurezza, la stabilità e l’ordine pubblico, che costituisce l’unica garanzia per l’esercizio delle libertà”. Il discorso, diffuso integralmente dalla radio e dalla televisione, conteneva altresì l’invito, rivolto a tutti i Marocchini, “ad opporsi ai complotti orditi contro la marrochinità del nostro Sahara”. “L’intelligenza col nemico costituisce alto tradimento”, proseguiva il discorso, facendo così esplicita allusione al gruppo di sette Saharaoui, definiti dalla stampa marocchina “separatisti dell’interno”. “Non v’è più spazio per l’ambiguità e la doppiezza: o il cittadino è marocchino o non lo è. E’ finito il tempo del doppio gioco e della debolezza.  E’ l’ora della chiarezza e dell’assunzione di responsabilità. O si è patrioti o si è traditori. Non c’è una via di mezzo tra patriottismo e tradimento”… “Non si può beneficiare dei diritti di cittadinanza, ed allo stesso tempo rinnegarli complottando coi nemici della patria”…“Quanto agli avversari della nostra integrità territoriale e quelli che si muovono nel loro ambiente, essi sanno benissimo che il Sahara è una causa cruciale per il popolo marocchino”. Il discorso reale si concludeva con la riaffermazione che il re è il “depositario e il garante della sovranità, dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale” del Marocco.
Va ricordato che la “marcia verde” fu una idea del re Hassan II, padre dell’attuale sovrano. Nel 1975 chiamò a raccolta circa 350.000 Marocchini che, Corano e bandiera marocchina alla mano, parteciparono appunto ad una “Marcia verde” verso il Sahara Occidentale, ancora sotto occupazione spagnola, per ribadire l’appartenenza di questo territorio al Marocco.

Grande preoccupazione per la sorte dei sette militanti. La pena di morte
L’intensità della campagna mediatica, e la discesa in campo dello stesso Re, suscitano immediatamente enormi preoccupazioni per la sorte dei sette saharawi arrestati. Preoccupazioni confermate dal loro deferimento dinanzi a un Tribunale militare  e dalla gravità delle imputazioni loro contestate:

art. 190 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato ogni Marocchino o straniero che ha, con qualsiasi mezzo, intrapreso una offesa  alla integrità del territorio marocchino. Quando essa è commessa in tempo di guerra, il colpevole è punito con la morte. Quando è commessa in tempo di pace, il colpevole è punito con la reclusione da cinque a venti anni”.
art. 191 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato, chiunque intrattenga intelligenze con agenti di una autorità straniera aventi come oggetto o come effetto di nuocere alla situazione militare o diplomatica del Marocco. Quando essa è commessa in tempo di guerra, la pena è della reclusione da cinque a trenta anni. Quando è commessa in tempo di pace, la pena è della prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram.”
art. 206 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza interna dello Stato e punito con la prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram chiunque, direttamente o indirettamente, riceva da una persona o da una organizzazione straniera e sotto qualsiasi forma dei doni, dei presenti, prestiti o altri vantaggi destinati o impiegati in tutto o in parte a condurre o remunerare in Marocco una attività o una propaganda di natura tale da recare offesa  alla integrità, alla sovranità o all’indipendenza del Regno o a minare la fedeltà che i cittadini devono allo Stato e alle Istituzioni del popolo marocchino”.
art. 207 del codice penale: “Nei casi previsti dall’articolo precedente, deve essere obbligatoriamente disposta la confisca dei fondi o degli oggetti ricevuti. Il colpevole può inoltre essere interdetto, in tutto o in parte, dall’esercizio dei diritti previsti all’art. 40 (diritti civici, civili e familiari)”.

I sette sembrano rischiare la pena di morte, così come stabilito dal riferimento allo “stato di guerra” contenuto nell’art. 190.  Situazione che sembra attuale tra il Marocco e il Fronte Polisario, dal momento che essi hanno solo firmato, nel 1991, un accordo di “cessate il fuoco”, mai seguito da un trattato di pace.


Il tentativo di regolare definitivamente i conti coi dissidenti saharawi
In questo clima interviene il caso di Aminatou Haidar. Aminatou Haidar è leader riconosciuta della pacifica intifada saharawi e, come tale, è stata insignita di numerosi premi internazionali, l’ultimo dei quali, nel 2009, è stato il premio Robert Kennedy. Aminattou è anche cittadina onoraria di Napoli.
Poco più di un mese dopo l’arresto dei sette saharawi, il 13 novembre 2009, Aminatou Haidar sbarca all’aeroporto di Laayoune, di rientro dalla Spagna. Intorno alle ore 12,38, informa telefonicamente i suoi compagni di essere stata fermata dalla polizia marocchina all’aeroporto di Laayoune.
Dopo essere stata trattenuta circa 22 ore, Aminatou viene, il 14 novembre intorno a mezzogiorno, espulsa dal suo paese, il Sahara Occidentale, e rispedita alle isole Canarie. La ragione, o il pretesto, è legata all’abitudine della donna di riempire il formulario che occorre presentare alle autorità di frontiere marocchine con l’indicazione di essere di nazionalità “saharawi” e non marocchina.
In decine di occasioni la donna ha riempito in questo modo il formulario, sempre senza conseguenze. Ma questa volta il governo di Rabat pretende di desumere da tale circostanza un “rifiuto” della cittadinanza marocchina e, in applicazione dell’arrogante proclama del re (“O si è patrioti o si è traditori”) di qualche giorno prima, assume una decisione a un tempo gravissima e ridicola.
Aminattou viene così rispedita alle isole Canarie da dove proveniva, ridotta in pochi minuti ad una senza-patria cacciata dalla sua terra, allontanata dalla famiglia (soprattutto la madre e i due figli, che vivono a Laayoune).
Ma le arroganti autorità marocchine non hanno fatto i conti con la tempra eccezionale di questa piccola donna all’apparenza fragile, ma dotata di una forza d’animo eccezionale. Amminatou, giunta all’aeroporto di Lanzarote, rifiuta di lasciare lo spazio aeroportuale, si accomoda su un tappetino steso sul pavimento ed annuncia lo sciopero della fame a oltranza. “Mi dovranno riportare a Laayoune, viva o morta”, questo il suo semplice e formidabile programma.
Nei giorni successivi, l’aeroporto di Lanzarote è al centro dell’attenzione mondiale. Vi passa ogni tanto lo scrittore Josè Saramago, nei suoi ultimi giorni di vita, per salutare la sua “cara amica”. E arrivano tanti messaggi di solidarietà della migliore cultura mondiale: Rigoberta Menchu, Eduardo Galeano, Javier Bardem, Manu Chau, Pedro Almodovar, Ignacio Ramonet, Carlos Taibo. In tutto il mondo si mettono in atto azioni di solidarietà e di sostegno. Il Sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, fa esporre sulla facciata del Palazzo municipale una gigantografia della foto di Aminettou.
Si muovono anche i governi, perfino quelli più “amici” del Marocco, Spagna, Francia, Stati Uniti.
Infine, dopo un mese e 4 giorni di sciopero della fame, il governo marocchino deve capitolare e consentire il ritorno di Aminettou a casa. Dove giunge alle ore 23.30 del 17 dicembre 2009.


L’atteggiamento del governo marocchino sembra ammorbidirsi

Dopo la figuraccia internazionale nel caso di Aminettou Haidar, anche nei confronti del sette attivisti saharawi detenuti nel carcere militare di Rabat, l’atteggiamento del governo marocchino sembra assumere un atteggiamento più cauto.
Il 28 gennaio 2010 il Tribunale militare di Rabat concede la libertà provvisoria (per motivi di salute) all’unica donna del gruppo, Dagia Lachgar
Cresce intanto la mobilitazione internazionale. Ossin, nel suo piccolo, raccoglie oltre mille autorevoli firme in calce ad una petizione al Ministro degli esteri italiano, perché si faccia promotore di una iniziativa di giustizia e di clemenza nei confronti del governo marocchino.
I militanti saharawi, nel frattempo, pongono in essere intelligenti provocazioni nei confronti del governo marocchino: tra il 21 e 22 febbraio 2010, undici attivisti partono alla volta dei campi di Tinduf, ripercorrendo esattamente lo stesso percorso e ripetendo gli stessi incontri dei sette arrestati l’8 ottobre. L’8 marzo rientrano in Marocco e, non solo non vengono arrestati, ma nessun organo di informazione fornisce la benché minima notizia sul loro viaggio. Una differenza abissale rispetto alla campagna mediatica ossessiva che ha accompagnato l’arresto dei sette nell’ottobre precedente.
Altri gruppi di attivisti ripetono poi la medesima “provocazione”, con analoghi risultati. La repressione, piuttosto che farsi più forte, sembra attenuarsi: il 18 maggio 2010 vengono scarcerati anche Saleh Lebaibi, Rachi Sghaer e Ihdih Tarouzi. L’opinione corrente tra gli avvocati è che si stesse attendendo l’occasione buona per scarcerare anche i tre più importanti detenuti (Brahim Dahane, Ali Salem Tamek e Ahmed Naciri), per evitare di dover celebrare un processo diventato troppo difficile da gestire.


Finalmente il processo

Dopo più di un anno dall’arresto,  il 15 ottobre 2010, si apre il processo contro i sette, dinanzi al Tribunale di prima istanza di Ain Sebaa (Casablanca). Un tribunale ordinario, non militare, perché nel corso della istruttoria le accuse più terribili, quelle di “attentato alla sicurezza esterna dello Stato”, previste dagli artt. 190 e 191 del codice penale, sono cadute e, conseguentemente, il Tribunale militare si é dichiarato incompetente, trasmettendo gli atti al Tribunale ordinario.
La situazione processuale dei sette attivisti appare dunque notevolmente migliorata, dovendo essi rispondere dei soli delitti previsti dagli articoli 206 e 207 del codice penale, per i quali è prevista una pena massima di cinque anni di prigione e 10.000 dirham di ammenda.
Foltissima la presenza degli osservatori internazionali, circa 20, provenienti dalla Spagna, dall’Italia, dalla Francia, dalla Svezia, dal Messico.
L’ottimismo suggerito dalla favorevole evoluzione processuale è destinata a spegnersi ben presto, al cospetto di incredibili quanto inqualificabili avvenimenti. Gli imputati detenuti, infatti, non vengono tradotti e, intorno alle 14 e 20, quando entra il Tribunale, succede qualcosa di clamoroso. Il pubblico, composto in maggioranza da saharawi, comincia infatti a scandire slogan per la libertà degli arrestati e per l’autodeterminazione. Un fatto in qualche modo rituale, che, in altre circostanze, si è poi esaurito da solo, consentendo l’inizio del processo. Questa volta invece si  scatena una reazione imprevedibile da parte di un gruppo di avvocati marocchini presenti.
Una ventina, avvolti nella toga e accecati dall’odio e dal furore, inscenano una sceneggiata dai toni truci ed esagitati. Gridando slogan sulla “marocchinità” del Sahara e cercando lo scontro coi militanti saharawi in aula. Nella ressa, l’imputato Yahdih Ettarrouzi viene colpito con una gomitata allo stomaco. Anche gli osservatori sono oggetto di ”attenzione” da parte degli avvocati, che li insultano, accusandoli di essere “pagati dall’Algeria”.
Il Tribunale abbandona l’aula, così come il pubblico ministero e il cancelliere. Nessuno interviene per interrompere la gazzarra degli avvocati. Poco dopo sopraggiunge la notizia che il processo é stato rinviato al 5 novembre a causa degli incidenti. Il pubblico abbandona l’aula e lascia campo libero a quella ventina di avvocati che inscenano una manifestazione con corteo lungo tutto il Tribunale. Compare anche una foto del re che gli scalmanati portano in trofeo. Spuntano giornalisti e fotografi, di solito banditi dalle aule dei tribunali marocchini. Non un poliziotto interviene a riportare l’ordine. Qualcuno di loro guarda lo spettacolo commentando: “Fanno bene”.
Il dibattimento riprende il 5 novembre successivo, in una situazione di identico caos e disordine, con aggressioni fisiche nei confronti dei saharawi, insulti agli avvocati della difesa e agli osservatori internazionali (qualcuno dei quali viene anche fisicamente aggredito). Diventa palese il carattere organizzato di questa gazzarra, i cui leader sono gli stessi dell’udienza precedente (avvocati che niente hanno a che fare col processo), e il sostegno che essi ricevono dalle autorità, che consentono che il Tribunale venga trasformato in un mercato, senza intervenire in alcun modo.
Ma intanto altri gravi avvenimenti si registrano.


Il campo della “dignità” di Gdeim Izik
 
Intorno alla metà del mese di ottobre 2010, circa settemila saharawi erigono un accampamento nella località di Gdeim Izik (a 12 km da Laayoune, la capitale del Sahara Occidentale), per protestare contro l’occupazione marocchina e per denunciare le “sistematiche” torture cui sono sottoposti i Saharawi, oltre che l’emarginazione della quale soffrono e le pessime condizioni di vita cui sono costretti. Si auto-esiliano così in questo accampamento, che ricorda i campi nei quali i loro fratelli separati vivono da trentacinque anni nel deserto algerino.
Le forze di occupazione marocchine circondano l’accampamento, recintandolo con filo spinato, impedendo (o rendendo più difficoltoso) l’approvvigionamento di cibo, acqua e medicinali, tanto che il 19 ottobre la Croce Rossa saharawi lancia un appello ai paesi donatori e a tutte le organizzazioni non governative per garantire “al più presto possibile assistenza umanitaria alle popolazioni saharawi installate nei campi dell’indipendenza”.
Altri campi intanto sorgono a Dakhla, Smara e negli altri centri del Sahara Occidentale, ma anche in territorio “marocchino”, per esempio a Sidi Ifni. Ma tutti hanno breve vita, immediatamente smantellati dalle autorità di sicurezza.
Solo oggi possiamo vedere in questa iniziativa una anticipazione dell’ondata di proteste sociali e politiche che in questi giorni scuote tutto il mondo arabo. Al momento in tanti sono rimasti stupiti per una simile novità. Il governo marochino è soprattutto preoccupato e, dopo una specie di trattativa, all’alba del giorno 8 novembre 2010, manda le forze speciali ad assaltare il campo, espellendo gli occupanti (che hanno oramai toccato il numero di quasi 20.000) e radendolo al suolo.
Seguono due giorni di sanguinosa guerriglia a Laayoune, all’esito del quale il governo marocchino annuncia un bilancio di una decina di morti e molti feriti, tutti (o quasi) tra i ranghi delle forze dell’ordine.
Si tratta delle uniche – sebbene inaffidabili – cifre disponibili, ciò a causa del totale embargo mediatico e informativo decretato dal governo di Rabat, realizzato attraverso l’espulsione di giornalisti e osservatori internazionali non graditi e l’arresto di centinaia di miltanti saharawi.


Il processo prosegue

In questo clima di tensione alle stelle, in un contesto in cui cominciano a manifestarsi perfino sintomi di intolleranza xenofoba da parte dei coloni marocchini nei confronti degli autoctoni saharawi, prosegue il processo contro i sette militanti saharawi.
Alla successiva udienza del 17 dicembre 2010, sono presenti circa 25 osservatori internazionali, tra i quali 8 italiani. Non vi sono però gli imputati a piede libero, né il pubblico saharawi e nemmeno gli avvocati saharawi del collegio di difesa, i quali tutti hanno deciso di “boicottare” il processo, alla luce di quanto é accaduto nelle precedenti udienze e del clima generale che si respirava nel paese.
Le difesa tecnica degli imputati resta affidata alla generosa presenza degli avvocati marocchini della difesa.
Il processo comincia nel solito clima di intimidazione e viene subito rinviato al successivo 7 gennaio 2011. Una richiesta di libertà provvisoria per i tre imputati ancora detenuti viene respinta il successivo 22 ottobre.
Il 7 gennaio 2011, nel consueto clima di tensione, vengono esaminate le questioni preliminari e si opera un nuovo rinvio al 14 gennaio. Data nella quale il dibattimento viene finalmente celebrato.
La sentenza viene annunciata per il successivo 28 gennaio.
Poi il primo colpo di scena. Il Tribunale non decide e rinvia gli atti al giudice istruttore per un supplemento istruttorio.  Il 7 aprile si riapre il processo, ma non può celebrarsi per la mancata traduzione dei detenuti. Il Tribunale annuncia che fisserà un’altra udienza.
Non lo fa. Il 14 aprile 2011 viene diffusa la notizia della liberazione degli ultimi tre detenuti.
Si tratta probabilmente dell’ultimo atto di un processo-farsa che il regime marocchino non ha la forza politica di celebrare.

 

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