Le Grand Soir, 21 aprile 2017 (trad. ossin)
 
Macron, un candidato inventato dai media (e dai loro padroni)
Aude Lancelin
 
Come il candidato di «En marche!» è stato interamente fabbricato da alcuni media nelle mani del capitale, e perché siamo ancora in tempo per resistere a questo colpo di mano
 
 
Era la fine dell’estate scorsa, avevo appena consegnato il manoscritto di “Monde libre”. Il mio sguardo errava sulle immagini di BFM TV, nei residui di una canicola parigina da poco terminata. E’ stato allora che ho capito in modo brutale che l’anno 2017 sarebbe stato terribile, e che le presidenziali incombenti non sarebbero per niente somigliate a quanto questo paese aveva conosciuto fino ad oggi. Il maggiore canale di informazione continua del paese, gioiello del gruppo Altice-SFR di Patrick Drahi, quel 30 agosto 2016 non aveva lesinato risorse. Tutto per coprire un evento rilevantissimo, immaginate un po’: le dimissioni dal ministero dell’economia di un giovane barone dell’hollandismo ancora quasi sconosciuto due anni prima. Uno scoop di importanza planetaria, come si vede, che valeva bene una mobilitazione generale di tutte le equipe del canale di proprietà di questo miliardario francese proveniente dalle telecomunicazioni. Il curioso spettacolo che si dispiegava sugli schermi quel giorno era di un cherubino in giacca e cravatta che fuggiva dal ministero di Bercy in navetta fluviale per portare la sua lettera di dimissioni all’Eliseo, inseguito dalle telecamere di BFM TV. Il tutto nello stile sfocato e distante delle foto dei paparazzi, dell’immagine strappata all’intimità di una personalità consegnata suo malgrado all’invidia delle folle. Come l’Ippolito di Racine, il futuro ex ministro in questione, che altri non era se non Emmanuel Macron, dava l’impressione di essere stato colto di sorpresa mentre si apprestava a «trascinare tutti i cuori dietro di lui» sulla Senna, in una strana sessione di gigantesco sci nautico nazionale. Ciò che il telespettatore ignorava, però, è che era piuttosto il cuore dei padroni dell’indice CAC 40 che batteva all’impazzata per quel cherubino già da un po’, e che questi potenti avevano un progetto per la Francia: portare alla Presidenza della Repubblica quel cherubino così sensibile ai bisogni del capitale. In quel momento non era ancora nessuno, ma questo non era un problema, i suoi Geppetto, con le tasche piene di soldi e le redazioni zeppe di giornalisti, erano pronti a fare tutto il necessario.
 
La scena, assolutamente surreale, mi è rimasta impressa. Come pure la sovreccitazione dei commentatori presenti sul set, incaricati di mettere in bella copia il non-evento, e di imbellire quella ridicola passeggiata trasformandola in un evento capace di spaccare la storia del mondo in due. Quel giorno, sì, ho avuto la percezione che stavamo per vivere una operazione di propaganda di dimensioni e portata assolutamente non abituali. Una blitzkrieg mediatica, paragonati alla quale gli editoriali erotici del «Monde» a favore di Edouard Balladur nel 1995, o le tribune colpevolizzatrici di «Obs» o di «Libération» per fare vincere il «Sì» nel 2005, furono solo risibili e rudimentali precursori. L’equivalente di una buona vista da ammiraglio dell’esercito delle India rispetto ad un satellite di osservazione dell’attuale US army, tanto per fare un esempio di carattere militare.
 
 
E’ certo infatti che la situazione nei media si è spettacolarmente deteriorata da allora, fino a far sprofondare la Francia al 45° posto nella classifica 2016 della libertà di stampa, stilata da «Reporters sans Frontières», da qualche parte tra il Botswana e la Romania. Tutto ciò a causa, contentiamoci di citare l’organizzazione internazionale sul punto, «di un pugno di uomini d’affari con interessi estranei al campo dei media, che hanno finito per concentrare nelle loro mani la maggioranza dei media privati a vocazione nazionale». Mai una simile situazione di controllo quasi totale sulla stampa si era vista in Francia del 1945. Di sinistra memoria, il quinquennio di Hollande resterà del resto come quello della vittoria per KO del capitale sull’indipendenza delle redazioni. Il candidato del PS aveva anche promesso in campagna elettorale di elevare la soglia anti-concentrazione in questo settore. La leggina che è riuscito poi a varare alla fine del 2016, detta «Legge Bloche», ha in sostanza messo tutto a tacere limitandosi a varare ridicole «carte etiche» che dovrebbero garantire la libertà dei giornalisti. Come fornire dei semplici caschi ai lavoratori che operano in zone radioattive. Per contro, François Hollande ha favorito nel 2015 l’acquisizione di testate storiche come «Libération» e «l’Express» da parte di Patrick Drahi, gigante delle telecomunicazioni, noto per i suoi acquisti attraverso leve finanziarie altamente distruttrici di posti di lavoro e il suo inveterato contorsionismo in materia fiscale. E’ stato sempre in questo quinquennio che si è realizzata l’acquisizione del gruppo «Canal+» da parte di Vincent Bolloré, con le sinistre conseguenze che si sanno. O, ancora, l’acquisizione nel 2015 del «Parisien» da parte di Bernard Arnault, già proprietario degli «Echos» e della più importante azienda di pubblicità della stampa, conosciuto anche per il suo progressismo sociale, senza parlare della sua simpatia per il popolo. Ma anche attraverso l’acquisizione nel 2010 del quotidiano «le Monde» da parte di un trio di investitori guidati da Xavier Niel, orco concorrente delle telecomunicazioni, l’ingurgitamento da parte di questo stesso gruppo della quasi totalità della stampa social-democratica mainstream, con l’acquisizione nel 2014 di «L’Obs», anche questa sorvegliata come il latte sul fuoco dal presidente della Repubblica.
 
Che pensava ancora, in tal modo, all’inizio del 2016, a onta della sua massima impopolarità, di essersi assicurato tutti gli atout possibili per poter riconquistare la poltrona presidenziale. Stanco, ma non aveva fatto i conti con Emmanuel Macron, il pulcinella che aveva messo nel cassetto dei suoi nuovi amici del CAC 40. Di sua spontanea volontà, sta qui la perfezione della farsa. C’è qualcosa di biblico nella punizione di un Presidente che, dopo avere rinunciato a fare della finanza il suo nemico, ha affidato ad essa la politica economica, e poi si è visto pugnalare alle spalle dalla stessa finanza, fino a dover rinunciare pubblicamente alle sue ambizioni. Più precoce della sua vittima dell’Eliseo, erano anni che Macron piazzava le sue pedine tra i giganti dei media. Già quando era banchiere d’affari da Rothschild, il protégé di Alain Minc aveva consigliato al gruppo Lagardère di vendere i suoi giornali all’estero. Eccellenti anche le relazioni di Macron col solforoso padrone di Canal+, Vincent Bolloré, del quale è nota la passione per i democratici africani e l’indipendenza delle redazioni. L’ambizioso non si era per niente sottratto alle attenzioni del giornalista Marc Endeweld, autore di «L’Ambigu monsieur Macron» (Flammarion). Ugualmente strettissime quelle col figlio, Yannick Bolloré, Direttore Generale di Havas, gigante delle telecomunicazioni mondiali. Col gruppo di Patrick Drahi, è assolutamente una love story a cielo aperto, anche se in periodo elettorale si impongono pudori da carmelitana. Quindi il Direttore generale di BFM TV deve continuamente difendersi dall’accusa di fare una «Tele Macron», senza convincere molti, tanto le affinità elettive sono evidenti tra il candidato alle presidenza e l’entità Altice-SFR Presse. Quando Martin Bouygues e Patrick Drahi si scontrarono per l’acquisizione del gruppo SFR, fu lo stesso Macron, all’epoca segretario generale dell’Eliseo, che giocò un ruolo decisivo a favore di quest’ultimo. E in cambio, quando questi decise di lanciarsi nella corsa alle presidenziali alla fine del 2016, ben presto è entrato nella sua squadra anche l’ex banchiere Bernard Mourad, ancora ieri direttore di Altice Media Group, vale a dire SFR Presse. E’ stato d’altronde «Challenges» a dare per primo la notizia, il magazine ancora oggi diretto da Claude Perdriel, altro periodico fervido di macronolatria. Un inginocchiarsi pubblicamente allo stesso tempo tanto soffocante e evidente che i suoi stessi redattori, poco sospetti di devianze gauchiste, se ne sono lamentati in un comunicato.
 
E’ però con Xavier Niel, cui lo stesso Perdriel ha ri-venduto l’Obs nel 2014, che le relazioni col candidato Macron sono diventate nel corso del tempo strettissime. Tra capitalisti consapevoli del proprio ruolo e entrambi convinti che la Francia debba avere una vocazione da «start up nation», piena di sempliciotti che sognano di diventare miliardari, è solo un eufemismo dire che vi è una certa affinità. Nonostante un reportage del telegiornale delle 20 di France 2 abbia annunciato, a inizio 2016, che il patron di Free si preparava a finanziare le ambizioni presidenziali dell’altro, attualmente Niel si mostra molto più riservato sulla questione. E’ d’altronde difficile per l’uomo forte del gruppo «Le Monde» ammettere pubblicamente la sua stretta vicinanza al candidato di En Marche! Tanto più che in molti già imputano al quotidiano della sera di essere diventato il bollettino parrocchiale del macronismo. Intervistato da LCP (il canale parlamentare francese, ndt), lo scorso 16 marzo, Niel ha semplicemente ammesso che solo due candidati rispondono alle sue convinzioni liberali, e sono Emmanuel Macron e François Fillon. Un secondo posto che può sorprendere solo coloro che ignorano che fu proprio l’attuale candidato dei Républicains ad accordargli nel 2009 la quarta licenza di telefonia mobile, in circostanze che restano tuttora opache.
 
Stranamente, il programma di Jean-Luc Mélenchon sembra oggi essere assai meno gradito a Xavier Niel, che lo ha perfino paragonato in una recente intervista accordata al «Temps» a quello di Marine Le Pen. La stessa cosa che fanno gli editorialisti del «Monde» tutta la settimana – semplice comunanza di vedute, spiegano i giornalisti del quotidiano, la cui perspicacia sembra ahimè troppo spesso inadeguata alla funzione rivendicata di vigilanza democratica. Una sorta di «armonia prestabilita» che senz’altro fa comodo a tutti. Per dirla con le parole di Leibniz: la «sostanza» azionaria è fine a se stessa – vale a dire che non passa mai attraverso, per esempio, qualche telefonata. E ciò nonostante, tutte le «sostanze» giornalistiche che operano ai suoi ordini sembrano casualmente interagire con quella azionaria – vale a dire che si sintonizzano come per incanto col suo diapason. Non è questa una meraviglia sbalorditiva che merita di essere approfondita?
 
Anche lui azionista del gruppo «Le Monde», il miliardario di lusso Pierre Bergé, non è riuscito ad astenersi dal tweettare la sua foga macroniana durante la campagna elettorale. «Sostengo incondizionatamente Emmanuel Macron perché diventi il presidente che ci porterà verso una socialdemocrazia», abbiamo potuto leggere il 30 gennaio. Anche in questo caso i giornalisti del quotidiano si sono contentati di voltare lo sguardo. Troppo occupati, secondo qualcuno, a scrutare gli attacchi oligarchici alla libertà di espressione in certi paesi vicini. Una imprudenza dovuta alla vecchiaia, si dice a mezza voce al «Monde», senza fare alcun cenno ahimè alla situazione di terrore che subiscono. Semplice, e anche sensato, pensare che i giornalisti, ricattati dai finanziatori, non osino più muovere nemmeno un dito. La realtà, ahimè, è più complessa. Alcuni di loro muoiono davvero di paura, è un fatto. Molti altri al contrario non avvertono nemmeno il peso delle catene che li avvincono. Pensano davvero che, tra la finanza con la faccia di cherubino e il lepenismo dal volto femminile, non ci sia più niente da scegliere, da pensare, da tentare. D’altronde essi sono stati in molti casi selezionati proprio per questa loro capacità, questa sbalorditiva capacità di fare proprie le cose che comandano loro di pensare, questa sottomissione anticipata ai desiderata azionari che sarebbe in effetti sconveniente anche solo da menzionare,
 
La stampa non si è mostrata particolarmente interessata a fornire la Carte du Tendre (1) che consentisse di orientarsi nelle relazioni tra Macron e i magnati francesi, e quindi i lettori davvero ostinati hanno dovuto contentarsi durante tutta la campagna elettorale di raccogliere piccole notiziole sparse qua e là. Un’inchiesta particolarmente bene informata di «Vanity Fair» sulla regina della stampa tabloid, Michèle Marchand detta «Mimi», ha sollevato a inizio aprile un po’ il velo sui pranzi privati organizzati tra Xavier Niel e la coppia Macron un anno prima delle presidenziali. «Quando nel corso di un pranzo coi Macron, ho sentito Brigitte lamentarsi dei paparazzi, racconta tranquillamente Niel a «Vanity Fair», mi è venuto spontaneo consigliarle Mimi», Ed è stata la stessa giornalista Sophie des Déserts a precisare che era stato il patron del gruppo «Le Monde» che aveva invitato i Macron a casa sua. Una villa a Ranelagh, dove abita con la figlia di Bernard Arnault, patron di LVMH e altro grande fan del piccolo principe Macron, di cui il CAC 40 vuole fare il proprio leale gestore dell’Eliseo.
 
 
Perché nessun titolo di stampa ha ritenuto utile approfondire questo tipo di connivenze minacciose? Perché si è avuta invece la strana impressione di assistere per tutta la campagna elettorale ad un putsch democratico al rallentatore, con un terribile senso di impotenza? Più che un’intuizione, è una certezza: se Emmanuel Macron dovesse diventare Presidente della Repubblica, ci troveremo in maggio con una nuova nuit du Fouquet (la festa per la vittoria di Sarkozy nel 2007, ndt), rivelazioni a puntate su ogni sorta di grandi donatori, di cerchi magici che ricordano i peggiori momenti del sarkozysmo, di collusioni di ampiezze inedite tra enormi interessi industriali, mediatici e finanziari. Dovunque, il denaro si aggira furtivamente intorno a questa candidatura, tutti lo sanno. Quando le vere circostanze che hanno accompagnato questa messa in orbita usciranno alla fine sulla stampa, perché alla fine usciranno, cose del genere alla fine escono sempre, allora i Francesi non avranno più che gli occhi per piangere. Nel frattempo l’ISF (imposta di solidarietà sui patrimoni, ndt) sui grandi patrimoni finanziari sarà stata soppressa, il codice del lavoro distrutto a colpi di decreti, i servizi pubblici fortemente ridotti, i dividendi invece cresceranno. Un vero continente oligarchico sta ancora là semisommerso, pronto a emergere sotto i nostri occhi l’8 maggio prossimo, e nessuno ha pensato bene fino ad oggi di dirlo ai cittadini. Soprattutto non l’hanno fatto quelli che l’avrebbero dovuto per mestiere, vale a dire i giornalisti. Scrivo queste righe e mi rendo conto della loro assurdità: come potrebbe una stampa nelle mani di questi signori fare inchieste sulla sua propria nocività e, ancor più, sulla loro?
 
Un quadro completo della sconcertante endogamia macroniana dei media francesi richiede ovviamente, per completezza, che si parli delle decine di articoli su Macron pubblicati in due anni e mezzo dal mio ex giornale, «l’Obs», testata storica della “deuxième gauche” (la sinistra non marxista evocata da Michel Rocard al Congresso del PS di Nantes del 1977, ndt), anch’essa caduta nelle mani di Niel e soci grazie al crollo del valore dei media a partire dalla fine degli anni 2000. In tutto questo tempo, una sola «copertina» dedicata a Mélenchon, candidato peraltro assai gradito ai giovani e agli intellettuali, di cui questo giornale avrebbe avuto terribilmente bisogno per sopravvivere in questo periodo e ritrovare un po’ del suo lustro passato. Un’altra ad Hamon, che pure era il candidato ufficiale del Partito Socialista. Un incredibile editoriale pubblicato quattro giorni prima dello scrutinio ha chiaramente invitato a votare Macron, in flagrante contraddizione con il pluralismo di sinistra da sempre rivendicato dalla direzione del giornale. Non si può assolutamente dire che il lavoretto sia stato imposto con la forza per aprirgli la strada. Non potremo dire che tutti gli aiutanti miliardari disponibili non si siano messi in marcia, anche in carrozzina, per aiutare il bellimbusto dalle ansimanti impennate oratorie. Non potremo dire che tutti i magnati delle telecomunicazioni, che oggi impediscono la libera circolazione delle opinioni, non abbiano fatto di tutto per gonfiare il palloncino con grande impegno di panegirici nella loro stampa, e di inchieste non fatte.
 
Come è possibile che, in grandi redazioni come «l’Obs» o «Le Monde», non si riesca a trovare nessun titolare di un tesserino di giornalista che si proclami a viso aperto sostenitore della «France Insoumise» (la lista di Jean Luc Mélenchon, ndt), mentre tanti loro colleghi starnazzano senza vergogna il loro macronismo nelle reti sociali? Non è prodigioso che, in giornali che ancora si definiscono di sinistra, non si riesca a trovare alcuna espressione, a parte qualche collaboratore esterno, a favore di un ex senatore di Mitterrand che non fa nulla di più se non rivendicare i fondamenti storici del socialismo? Ahimè, io so perché. Le ragioni sono quelle che ho già indicato nel «Monde libre». In queste redazioni vengono tollerate tutte le idee, e vi ho perfino – non senza sorpresa – potuto ascoltare per esempio un capo cronista difendere il programma economico di François Fillon come il migliore di tutti a inizio 2016. Tutte le idee sono tollerate, sì, tranne quelle della sinistra rimasta in piedi contro il neoliberismo. Tutte le idee, tranne quelle oggi sostenute da un socialdemocratico coerente come Jean-Luc Mélenchon, oggi dipinto dall’attuale Presidente della Repubblica come un dittatore e nemico dell’Occidente. E’ ridicolmente da sottolineare che simili parole vengono proprio da François Hollande, amico autoproclamato del «Mondo libero», come un tempo veniva chiamato il predetto Occidente, e che ha dedicato tanto del tempo del suo quinquennio a frequentare gli oligarchi della stampa nazionale per tentare di guadagnarsi una rielezione, cui alla fine ha dovuto rinunciare.
 
Completamente ritornati sotto il controllo del capitale, situazione inedita dopo la Liberazione, i media sono riusciti in meno di due anni a trasformare in un potenziale presidente un banchiere d’affari appena uscito dall’uovo, che non aveva mai prima ottenuto alcun mandato elettivo. E’ banale dire che per il cherubino di lor signori, come nella filosofia di Sartre, il passaggio all’esistenza mediatica ha di molto preceduto l’essenza politica. C’è stato bisogno in effetti di una buona dose di disprezzo verso il popolo francese, per tentare un simile colpo di forza. Macron non è solo la continuazione di politiche abusate, quelle che hanno lepenizzato le classi popolari negli ultimi tre decenni e segnato un ritorno ad una quasi schiavitù per alcuni popoli europei. Macron è il ritorno dello sfruttamento facendolo passare per modernità. Macron è il XIX secolo attraverso i secoli e la sua totale indifferenza verso la sofferenza del popolo, appena imbrattata di colori vivaci e di Silicon Valley. Macron, è in realtà né più né meno che il ritorno al Comité des Forges (2), e alla sua stampa, del tutto asservita ai soldi dell’Alta Finanza e della Grande Industria, del quale gli antichi resistenti sognarono di liberare il paese per sempre, una volta giunti i «Giorni felici».
 
Ma, direte voi, molte «operazioni» mediatiche che dovevano influire sulle elezioni presidenziali sono fallite in passato. Una vittoria spettacolare di Jacques Chirac, nella primavera del 1995, ebbe alla fine ragione delle sacre aspirazioni di Edouard Balladur, il candidato scelto dalla casta. E fu lo stesso nel 2005, quando una campagna di intimidazione letteralmente terrorista guidata dal «cercle de la raison», si era abbattuta sui partigiani del «No» (referendum sulla Costituzione europea, ndt). Tutto questo è assolutamente vero. Nel gioco della pedagogia a colpi di manganello, i media posso talvolta fallire, anche se, per qualche operazione ogni tanto fallita, si potrebbero enumerare tanti successi passati inosservati. E’ questa la ragione che mi ha fatto pensare che scrivere questo articolo non fosse totalmente inutile, qualche giorno prima di una presidenziale a nessun’altra simile. Prima che il male venga fatto, tutto può ancora essere disfatto. Francesi non fatevi rubare questa elezione.
 
 
Note:
 
(1) La carte de Tendre è la mappa di un paese inesistente chiamato «Tendre», immaginato nel XVII secolo e ispirato da Clélie, storia romana di Madeleine de Scudéry, da diverse personalità, tra cui Catherine de Rambouillet.
 
(2) Il Comité des forges venne creato nel 1864 da alcuni industriali siderurgici, in particolare da Eugène I Schneider e Charles de Wendel, come una organizzazione di studio e di difesa degli interessi del grandi industriali della siderurgia. Venne poi riorganizzato nel 1887-1888 ed ebbe un ruolo di primissima importanza nella organizzazione collettiva della siderurgia francese, soprattutto nel contingentamento della produzione e nella distribuzione dei mercati.
 
 
 
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