Le Grand Soir, 13 febbraio 2019 (trad. ossin)
 
I Cinesi guardano lontano, mentre noi siamo schiavi della dittatura del giorno per giorno
La Cina senza paraocchi
Bruno Guigue
 
A sentire la valanga di bugie riversate su questo grande paese dai media occidentali, c’è da porsi infine una domanda: è ancora possibile guardare la Cina senza paraocchi né pregiudizi, in modo non assolutorio ma neppure malevolo, osservandola come è e non come si vorrebbe che fosse?
 
 
Quando si degnano di parlarne, i nostri media la descrivono in termini che oscillano sempre tra il timore e il disprezzo. Assetata di ricchezze, coi suoi tentacoli allungati sul pianeta, ingannatrice col suo pacifismo di facciata, sospettata di ottusa brutalità, pronta a esplodere dietro una falsa retorica rassicurante, la Cina sarebbe come l’orca della favola che finirà, un bel giorno, col mangiare i suoi figlioletti. L’immaginario coloniale la raffigurava nel XIX secolo coi tratti di una raffinata crudeltà, ma questa raffinatezza è passata di moda. Stando ai nostri editorialisti e ai nostri esperti, la nuova Cina non avvolge più i suoi appetiti voraci con simili antiquate raffinatezze. Quel che vuole, è semplicemente «dominare il mondo». Destinata a diventare la prima potenza economica mondiale, reclama la sua parte di egemonia planetaria, rivendica il primo posto sul podio. Ma soprattutto vuole, ci dicono, imporre il suo modello, promuovere i suoi valori, ergersi ad esempio rivolto alla imitazione delle nazioni.
 
Questa visione di una Cina conquistatrice e proselitista è tanto più surreale quando si vede che i Cinesi fanno esattamente il contrario. Convinti della unicità del loro sistema, non cercano di convertire nessuno. Che esportino prodotti, acquistino terreni o costruiscano ponti all’estero, perseguono evidentemente i loro interessi. Ma non ambiscono a ridipingere il mondo coi colori della Cina. Dovendo scegliere, preferirebbero senz’altro che non li si imiti, perché ciascun popolo deve trovare la sua strada da se stesso, a costo di commettere quegli errori di percorso senza i quali nessun successo è meritorio. Come dicono bene gli specialisti della lingua cinese – che conoscono bene la questione – il pensiero cinese è empirico e pragmatico. Affronta i fatti, accetta correzioni successive e continua ad andare avanti nel modo migliore possibile. Insofferente alle idee astratte, ammette volentieri che non esistono ricette già pronte. Per questo è sbagliata l’idea che i Cinesi tentino di diffondere il loro modello e che abbiano sogni di conquista che esistono in realtà solo nell’immaginazione dei detrattori di questo grande paese. Ma i nostri esperti patentati non ci sentono da quest’orecchio. A conclusione di una trasmissione di “C dans l’air” il cui titolo è da solo tutto un programma («Chi può fermare la Cina? »), Valérie Niquet, ricercatrice della Fondation de la recherche stratégique, metteva in questo modo a confronto il modello europeo e il modello cinese: «La Cina è l’anti-Europa, per esempio. Noi cerchiamo di superare i caratteri delle relazioni internazionali del passato, il conflitto, l’uso della forza per risolvere le tensioni: La Cina invece si attiene ai codici di comportamento del XIX secolo».
 
Deve dedursi che la Cina avrebbe una predilezione spiccata per «l’uso della forza come metodo di risoluzione dei conflitti»? Sono però rari gli Afghani, i Libici, gli Iracheni, i Siriani e gli Yemeniti morti sotto le bombe cinesi. Paesi europei, la Francia e il Regno Unito invece, hanno provocato insieme al loro grande alleato statunitense – e attraverso diversi intermediari – centinaia di migliaia di morti e di devastazioni senza nome, in violazione delle più elementari regole internazionali. Ma questa non è una novità. Accusare l’altro delle proprie turpitudini è una inversione maligna abituale nella retorica occidentale. Dire che la Cina, contrariamente all’Europa, «si attiene ai codici di comportamento del XIX secolo», rivela allo stesso tempo una sconcertante combinazione di arroganza e ignoranza. Perché, ai giorni nostri, non è l’impero cinese, ma le potenze imperialiste europee, che praticano la conquista territoriale e il saccheggio coloniale. I Cinesi ne sanno qualche cosa. Con le «guerre dell’oppio», Britannici e Francesi hanno invaso il «paese di mezzo» per costringerlo a firmare trattati infamanti e accettare l’importazione massiccia di questa droga dagli effetti deleteri. Addirittura, nel 1860, un corpo di spedizione messo insieme dagli stessi due paesi europei fece irruzione a Pechino e saccheggiò lo splendido Palazzo d’estate dell’imperatore Qing. Indignato, Victor Hugo condannò il colpo di mano, scrivendo queste righe amare: «Noi Europei siamo il popolo civile, i Cinesi sono i barbari. Ecco che cosa la civiltà ha fatto alla barbarie. Davanti alla Storia, uno dei due banditi si chiamerà Francia, l’altro Inghilterra. L’Impero francese ha intascato metà di questa vittoria, e oggi mostra, con una sorta di ingenuità da proprietario le splendide cose rapinate nel Palazzo d’estate. Spero che verrà un giorno in cui la Francia, liberata e purificata, restituirà il bottino alla Cina spogliata».
 
La Francia ha preferito dimenticare questa spoliazione e impartisce oggi lezioni di morale a un paese che ha saccheggiato 150 anni fa, come se le sue ignominie passate le conferissero un certificato di virtù per il presente. La Cina invece non ha dimenticato nulla, ma non prova alcun odio. Cerca di cancellare questa antica umiliazione ritrovando la collocazione che le spetta nel concerto delle nazioni. Quel che vuole è di voltare definitivamente la pagina quel periodo di caos cominciato con le guerre dell’oppio e la decadenza della dinastia dei Qing. Nessuna necessità, per riuscirci, di imporre qualche cosa a qualcuno. Modello insuscettibile di imitazione, impero senza imperialismo, la Cina è per eccellenza una potenza pacifica. Ma non lo è solo per scelta politica, perché i suoi attuali leader hanno fatto la scelta dello sviluppo e rinunciato alle avventure estere. Lo è anche per una ragione più profonda, e più difficile da capire per uno spirito occidentale. E’ che il fatto di sentirsi la terra “di mezzo”, quella centrale, le ha forgiato un destino, quello di occuparsi prima di tutto dei suoi sudditi e del loro benessere, e poi di rivolgersi al resto del mondo. Paese di mezzo, la Cina è la prima a ricevere l’influenza benefica del cielo, che è rotondo, mentre la terra è quadrata. E’ posta al centro del mondo da un decreto senza tempo che la priva di qualsiasi desiderio di conquistarne i margini. La periferia del mondo, infatti, non sarà mai interessante quanto il cuore stesso di un impero la cui gestione è già un compito pesantissimo.
 
Attribuire a questo paese pretese di conquista, quindi, è assurdo quanto accusarla di voler esportare il suo modello, perché esso ha per vocazione di restare unico. Se la Cina è pacifica, è dunque in virtù di uno statuto cosmologico i cui privilegi si accompagnano a una promessa di innocuità verso i suoi vicini. «Le armi sono strumenti nefasti e ripugnano a tutti. Chi comprende il Tao non vi ricorrerà», diceva Lao-Tseu. Chiave di volta del mondo abitato, l’impero di mezzo si condannerebbe alla decomposizione se si disperdesse ai suoi margini, si dissolverebbe nell’informe se rinunciasse per ambizione ai dividendi di una serena centralità. Ma questo peso dell’immaginario cinese non riguarda solo il mondo delle idee. Trasposto nel mondo reale, determina un habitus sul quale i dispensatori di lezioni occidentali dovrebbero meditare, e perfino trarre ispirazione per il loro governo: un grande paese che non ha fatto nessuna guerra da quaranta anni, infatti, merita almeno qualche considerazione. A parte il breve regolamento di conti col Vietnam (1979), bisogna risalire fino allo scontro di confine con l’India (1962) e alla guerra di Corea (1950-1953) per trovare tracce di una guerra in cui la Cina si sia impegnata. Bisogna anche sottolineare che queste guerre si sono svolte nelle sue immediate frontiere, e non in lontane contrade oggetto di bramosie espansionistiche. Ma questo atteggiamento pacifico di un impero auto-centrato non interessa affatto le nostre democrazie guerriere, diventate esperte in bombardamenti umanitari, in embarghi che affamano i popoli per una buona causa, e in rivoluzioni teleguidate dall’estero.
 
Come si è detto, gli Occidentali, a proposito della Cina, oscillano sempre tra il timore e il disprezzo. Hanno preteso con ogni mezzo che essa partecipasse alla globalizzazione dei commerci, e si lamentano poi delle quote di mercato che le imprese cinesi conquistano. In un’escalation di ingiunzioni contradditorie, accusano la Cina allo stesso tempo di fare troppo e non abbastanza, di essere disperatamente povera e scandalosamente ricca, eccessivamente rapida ed esageratamente lenta, decisamente troppo liberale quando non è troppo dirigista. Le chiedono di aiutare la crescita mondiale – cosa che Pechino ha fatto all’indomani della crisi del 2008, provocata dalla rapacità delle banche statunitensi – ma senza mostrarsi troppo ghiotta di materie prime. Vorrebbero che essa continui a svilupparsi, ma rinunciando agli strumenti del suo sviluppo, come la sua sovranità monetaria, il suo potente settore pubblico e la sua prudente tutela dei mercati finanziari. L’atteggiamento occidentale rasenta talvolta il comico. Quando la Cina, dopo avere avuto tassi di crescita annuale a due cifre è scesa al 6,4 % (2018), si sono sentiti gli esperti di paesi europei che si accontentano dell’1,5 % fare gli esigenti e pronosticare il disastro: è davvero il bue che chiama cornuto l’asino! In Occidente si ama dire che la Cina resta un paese povero, con le sue centinaia di milioni di lavoratori sottopagati. Ma la realtà cinese si trasforma assai più in fretta delle rappresentazioni degli esperti occidentali, perché le lotte dei salariati dell’industria – in un paese in cui i conflitti sociali si rivolvono in via negoziale, come altrove peraltro – hanno portato ad un conseguente aumento dei salari, al punto da allarmare gli investitori stranieri.
 
Infatti la Cina è un grande paese sovrano, fiero della sua identità culturale, rispettoso del diritto internazionale e deciso a farsi rispettare sulla scena mondiale. Non aggredisce e non minaccia alcuno Stato, né finanzia alcuna organizzazione terrorista o sovversiva in altri paesi, non infligge alcun embargo e alcuna sanzione economica ad altri Stati sovrani e si rifiuta ostinatamente di immischiarsi nei loro affari interni. Il contrasto è nettissimo con l’atteggiamento degli Stati Uniti e dei loro alleati europei che passano il tempo a intervenire in altri paesi in modo unilaterale, con falsi pretesti e in violazione flagrante del diritto internazionale. Se tutte le grandi potenze si comportassero come la Cina, il mondo sarebbe più sicuro e meno bellicoso. Sarebbe molto meno asservito – coi rischi enormi che genera questa dipendenza – agli interessi delle multinazionali delle armi. Perché i Cinesi hanno una sola base militare all’estero, laddove gli Stati Uniti ne hanno 725. Spendono 141 dollari per abitante all’anno per la Difesa, quando gli USA ne spendono 2 187. Hanno una sola portaerei mentre gli USA ne hanno dodici. Eppure la Cina ha fatto uno sforzo significativo di riarmo negli ultimi dieci anni, di fronte alle iniziative bellicose dello Zio Sam. Se avesse potuto lo avrebbe evitato. Mentre gli USA si aggrappano disperatamente alla loro egemonia declinante, i Cinesi sanno di essere la potenza montante e che non c’è ragione di precipitare gli eventi. Il pacifismo della Cina è l’inverso del suo successo economico, mentre il bellicismo USA è il riflesso del loro declino. Invece di fare la guerra vivendo a credito, la Cina ha contato sulle sue capacità per sviluppare il suo tessuto economico, e il risultato è palpabile.
 
Quando si va in Cina, nel 2019, non si incontra un paese in via di sviluppo, ma un paese già sviluppato. La modernità e l’affidabilità dei mezzi di trasporto è impressionante. Le metropolitane sono nuove fiammanti, di una pulizia, di una funzionalità e di una sicurezza a tutta prova. In quella di Canton, terza città cinese con 14 milioni di abitanti, non ci sono senzatetto, né borseggiatori, né mozziconi, né cartacce per terra. I passeggeri attendono tranquillamente il loro turno se il treno è affollato e, alle ore di punta, le corse si succedono ogni 30 secondi. Nonostante siano immensi, le stazioni e gli aeroporti funzionano come una carta da musica. I ritardi sono rari, le biglietterie automatizzate, la segnaletica perfetta (anche per gli stranieri). Toilette gratuite sono disponibili dovunque. Le linee aeree interne servono tutte le città importanti, e gli aerei sono puntuali, puliti e confortevoli. Le stazioni e i treni ad alta velocità offrono ai Cinesi una gamma di linee per tutto il paese a prezzi ragionevoli. Un biglietto di sola andata Canton-Nanning, per esempio, vale a dire 550 km di TAV, costa 169 yuan (23 euro) quando il salario medio è dell’ordine di 3000 yuan (410 euro). Da dieci anni i progressi sono folgoranti. La Cina aveva 700 Km di TAV nel 2007, 11 000 km nel 2013, 23 000 nel 2016, e l’obiettivo è di raggiungere 40 000 km, vale a dire l’equivalente della circonferenza della terra.
 
Colpisce che queste infrastrutture, per la maggior parte, abbiano meno di 10 anni. Di una modernità straordinaria, sono il risultato di una scelta politica massiccia e deliberata di investimenti pubblici. Varate all’indomani della crisi finanziaria del 2008, queste scelte politiche hanno aiutato una crescita mondiale messa a rischio dalla irresponsabilità di Wall Street. Esse hanno anche consentito l’avanzata del paese verso una «società della classe media» che è l’obiettivo primario della leadership del paese. Per realizzare questo nuova tappa del loro sviluppo, i Cinesi fanno assegnamento sul dinamismo di un vasto settore privato, soprattutto nei servizi. Ma si servono anche di una forte rete di imprese di Stato che hanno tratto benefici dalle dimensioni critiche del mercato interno cinese per imporsi a livello internazionale. L’esempio migliore è senza dubbio quello dell’impresa di costruzioni ferroviarie CRRC, diventata numero uno mondiale per produzione di treni ad alta velocità. Attiva in 102 paesi, questa impresa ha 180 000 dipendenti e ha entrate che superano i 30 miliardi di euro. Costruisce 200 treni all’anno, contro i 35 del duo Siemens-Alstom. Questo successo di un mastodonte pubblico dovrebbe far riflettere le vestali del liberalismo sui veri parametri della crescita economica, ma è poco probabile che ne traggano le conclusioni giuste. Preferiscono credere che le ricette liberali salveranno il mondo dalle pene del sottosviluppo.
 
In Occidente, quando ha successo, la Cina fa paura. Quando manifesta segni di affanno, fa ancora paura. La si accusa di usare il suo settore pubblico per accaparrarsi quote di mercato, brandendo come fossero le Sacre Scritture le ideologie liberali che pretendono che il settore pubblico sia inefficiente. Nell’attesa, i Cinesi continuano a pensare, con Deng Xiaoping, che poco importa che il gatto sia nero o grigio, purché acchiappi i topi. In Cina lo Stato controlla le industrie chiave: carbone, acciaio, petrolio, nucleare, armi, trasporti. Non saranno le recriminazioni occidentali che spingeranno questo paese sovrano a cambiare la sua politica. Ha pagato abbastanza cara la costruzione del suo modello di sviluppo e non vuole rinunciarvi per far piacere alle potenze straniere. La Cina è entrata a vele spiegate nei forti venti della globalizzazione, ma non ha intenzione di mollare il timone perché gli Occidentali non sanno più governarlo. Al contrario di noi, i Cinesi ragionano sui tempi lunghi. Mentre noi siamo schiavi della dittatura del giorno per giorno, loro guardano lontano. Due secoli fa, la Cina era ancora la manifattura del mondo. Due terzi della produzione mondiale nel 1820, al momento del suo apogeo, si è ridotta a meno del 5 % nel 1950. La decadenza della dinastia Qing e l’ingerenza europea – poi giapponese – hanno precipitato il suo declino, aprendo un’era calamitosa della quale le convulsioni rivoluzionarie del XX secolo sono state una conseguenza. Non deve quindi meravigliare che la Cina voglia oramai tornare allo splendore della sua gioventù, servendosi delle risorse materiali e spirituali di una cultura plurimillenaria.
 
Nella nuova fase del suo sviluppo – «la società della classe media» - la Cina moderna vuole sviluppare il suo mercato interno, favorendo l’emergere di una classe media. Ma vuole anche sottrarre alla povertà gli strati più poveri. E’ significativo che i Cinesi, quando vogliono parlar bene della politica della dirigenza, citino insieme la lotta alla corruzione – che è estremamente popolare – e la lotta alla povertà. Nei villaggi cinesi si vedono dei tabelloni affissi al pubblico, nel quale sono scritti i nomi del poveri che beneficiano dei programmi di lotta alla povertà e i nomi dei funzionari incaricati di seguirli personalmente. In una villaggio in cui tutti si conoscono, questa assenza di anonimato non sembra infastidire nessuno. Tutti sanno cosa aspettarsi e la valutazione dei risultati sotto gli occhi di tutti – una vera ossessione nella cultura amministrativa cinese – ne viene facilitata. Questo cartelli sono peraltro affissi sulle mura della sede del comitato locale del partito comunista, e questo dimostra quanto interesse vi si attribuisce. In ogni caso, questo sistema ha prodotto i suoi frutti. Secondo la Banca Mondiale, il tasso di povertà nella Cina popolare, che raggiungeva ancora il 17 % nel 2010, è crollato al 3,1 % nel 2017. Il contesto sociale necessario alla mobilitazione di tutti e la direzione di un partito che fissa gli obiettivi sono elementi, agli occhi dei Cinesi, di un circolo virtuoso la cui efficacia è evidente.
 
Questo è anche il motivo per cui le urla d’aquila della stampa occidentale a proposito del «punteggio di credito sociale» non sembrano avere la stessa eco tra i Cinesi. Che si venga puniti per avere commesso un crimine o degli atti di inciviltà non li turba affatto. Al contrario, la mentalità dominante tenderebbe piuttosto alla severità, in un paese che accetta come una cosa naturale la pena di morte. La presentazione di questo dispositivo sperimentale – che consisterebbe secondo i media occidentali nell’attribuire un punteggio di credito sociale a ciascun cittadino, suscettibile di crescere o ridursi in conseguenza dei suoi comportamenti in ogni campo – non corrisponde a come lo vedono i Cinesi. Questi vi vedono un sistema che consente di neutralizzare i delinquenti o limitare l’eccessivo indebitamento, ma il suo aspetto globale – del tipo «Grande Fratello» – non fa parte del campo di analisi. Si può ipotizzare che la presentazione del dispositivo da parte dei media occidentali sia alquanto parziale, giacché descrive un progetto ancora allo stato embrionale come fosse già pronto e finito. Quando se ne parla coi Cinesi, essi considerano certi aspetti del progetto condivisibili, laddove l’Occidentale formattato dai suoi media vi vede una struttura totalitaria contraria ai suoi principi. Questo esempio dimostra l’abituale atteggiamento dei media occidentali nei confronti del sistema politico cinese, ma soprattutto fino a quel punto noi non parliamo lo stesso linguaggio simbolico.
 
Noi non vediamo alcuna contraddizione, per esempio, tra l’affermazione che la Francia sia la patria dei diritti dell’uomo e la nostra partecipazione a guerre ignobili contro popoli che non ci hanno fatto niente di male. Per i Cinesi, questo è assurdo. Il solo modo di prendere sul serio i diritti dell’uomo, è di lavorare per lo sviluppo del proprio paese, lasciando che gli altri provvedano ai loro affari come vogliono. I nostri media trovano abominevole l’assenza di libertà di espressione nella Cina popolare, ma dieci miliardari dettano loro una linea editoriale monolitica ed eliminano impietosamente ogni pensiero dissidente. La dittatura del partito li offende, ma quella del capitale li soddisfa. Il sistema cinese è meno ipocrita. E’ stabilito dal 1949 che il partito comunista sia l’organismo dirigente della società e che ne fissi gli orientamenti politici. Questo partito ammette il dibattito interno, ma non vuole concorrenti esterni. Può non piacere, ma spetta ai Cinesi decidere. Questa direzione unificata dà coesione all’insieme del sistema, ma viene giudicata dai suoi risultati, in conformità con un’etica confuciana che attribuisce ai dirigenti il dovere di servire e non di servirsi. Ancorata tradizionalmente al culto degli antenati, la società cinese non è mai stata una società individualista. E’ una società olistica in cui l’individuo si annulla nel gruppo più vasto cui appartiene. «Obbedisci al principe, obbedisci al maestro, obbedisci ai genitori», diceva Confucio 2 500 anni fa. Ogni lunedì mattina, nelle scuole, il preside tiene un discorso mobilitante agli studenti in fila e in uniforme. Formule come «Comportati civilmente, sii studioso e diligente» ornano a grossi caratteri i cortili della scuole. La vera questione è capire se questo sistema simbolico resisterà durevolmente agli assalti della società dei consumi e alla diffusione dell’individualismo che essa porta con sé dovunque passi, anche nelle società che si ritengono meglio attrezzate per contenerla.
 
 
 
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