Dall’emergenza umanitaria allo stato di eccezione
di Fulvio Vassallo Paleologo

1. E' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 100 del 2 maggio 2011 l'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri (OPCM) n. 3935 del 21 aprile 2011nella quale si individuano tre nuovi “centri di identificazione ed espulsione temporanei”.  L'ordinanza contiene “ulteriori disposizioni urgenti dirette a fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa”. I nuovi CIET (Centri di identificazione ed espulsione temporanei) saranno ( anzi sono già) ubicati  nei comuni di Santa Maria Capua Vetere, di Palazzo San Gervasio e di Trapani localita' Kinisia, dove peraltro già esiste un imponente centro di detenzione, in località Milo, finito da mesi, ma ancora inattivo, vuoto, probabilmente per ragioni legate alle contese locali sulla sua gestione ed agli allacciamenti delle fogne che il comune di Trapani non avrebbe ancora predisposto.
Nell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri, i tre nuovi centri di identificazione ed espulsione temporanei vengono attivati, “visto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in data 12 febbraio 2011, con cui e' stato dichiarato, fino al 31 dicembre 2011, lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del nord Africa; “visto l'Accordo di Cooperazione del 5 aprile 2011 tra i Ministri dell'Interno di Italia e Tunisia disciplinante tra l'altro le azioni di rimpatrio e di trattenimento dei cittadini tunisini irregolarmente presenti sul territorio italiano; e soprattutto”considerato che nei confronti degli stranieri che non si trovano nelle condizioni di accoglienza di cui all'art. 2 del citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 aprile 2011, trovano applicazione le disposizioni di cui agli articoli 10, 13 e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; “Considerata l'urgente necessita' di dover trattenere gli stranieri che non si trovano nelle gia' citate condizioni di accoglienza di cui  all'art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 aprile 2011, nei centri di identificazione ed espulsione (CIE)”.
Si assiste dunque, come avevamo anticipato e come era largamente prevedibile, alla trasformazione dei centri di accoglienza in centri di detenzione, per ratificare gli abusi che sono stati commessi in precedenza, come nel caso delle convalide fasulle a Santa Maria Capua Vetere, o per prepararsi ai prossimi arrivi, quando il tempo migliorerà, e si dovrà riempire anche la tendopoli di Kinisia a Trapani, dopo  che il CARA di Salina Grande è stato impropriamente utilizzato anche a fini detentivi, come nel caso delle decine di tunisini richiusi da settimane nella sala palestra in attesa dell'esecuzione delle misure di allontanamento forzato. 
Su richiesta del ministero dell'interno e “di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze” si è così disposta l'attivazione dei tre nuovi centri di detenzione amministrativa. Secondo l'ordinanza “Al fine di trattenere gli stranieri che non si trovano nelle condizioni di accoglienza di cui all'art. 2 del decreto del Presidente  del Consiglio dei ministri 5 aprile 2001, le strutture temporanee gia' esistenti, attivate per l'accoglienza dal Commissario delegato per l'emergenza umanitaria di cui alle ordinanze del Presidente del  Consiglio n. 3924 del 18 febbraio 2011 e n. 3925 del 23 febbraio 2011 articolo 17, nel comune di Santa Maria Capua Vetere (CE) - Caserma Fornaci e Parisi (ex Andolfato), nel comune di Palazzo San Gervasio (PZ) e nel comune di Trapani localita' Kinisia, operano, a far data dalla presente ordinanza e fino a cessate esigenze, e comunque non oltre il 31dicembre 2011, come centri di identificazione e di espulsione nel numero massimo di 500 posti da ripartire nelle predette strutture. I costi complessivi per l'attivazione e la gestione delle nuove strutture dovrebbero ammontare a dieci milioni di euro e le nuove strutture dovrebbero essere chiuse al 31 dicembre 2011.
Quanto deciso dall'ordinanza del Presidente del Consiglio, soprattutto per lo statuto giuridico delle nove strutture e per la incerta identificazione dei soggetti che dovrebbero esservi rinchiusi, o restarvi rinchiusi, risulta in collisione con le previsione della Direttiva Rimpatri n. 115 del 2008 sulla quale si è recentemente espressa la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, affermando che

l’art. 6, n. 1, di detta direttiva prevede anzitutto, in via principale, l’obbligo per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare.
Nell’ambito di questa prima fase della procedura di rimpatrio va accordata priorità, salvo eccezioni, all’esecuzione volontaria dell’obbligo derivante dalla decisione di rimpatrio; in tal senso, l’art. 7, n. 1, della direttiva 2008/115 dispone che detta decisione fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni.
Risulta dall’art. 7, nn. 3 e 4, di detta direttiva che solo in circostanze particolari, per esempio se sussiste rischio di fuga, gli Stati membri possono, da un lato, imporre al destinatario di una decisione di rimpatrio l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, di prestare una garanzia finanziaria adeguata, di consegnare i documenti o di dimorare in un determinato luogo oppure, dall’altro, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni o addirittura non accordare alcun termine.
In quest’ultima ipotesi, ma anche nel caso in cui l’obbligo di rimpatrio non sia stato adempiuto entro il termine concesso per la partenza volontaria, risulta dall’art. 8, nn. 1 e 4, della direttiva 2008/115 che, al fine di assicurare l’efficacia delle procedure di rimpatrio, tali disposizioni impongono allo Stato membro, che ha adottato una decisione di rimpatrio nei confronti di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare, l’obbligo di procedere all’allontanamento, prendendo tutte le misure necessarie, comprese, all’occorrenza, misure coercitive, in maniera proporzionata e nel rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali.
Al riguardo, discende dal sedicesimo ‘considerando’ di detta direttiva nonché dal testo del suo art. 15, n. 1, che gli Stati membri devono procedere all’allontanamento mediante le misure meno coercitive possibili. Solo qualora l’esecuzione della decisione di rimpatrio sotto forma di allontanamento rischi, valutata la situazione caso per caso, di essere compromessa dal comportamento dell’interessato, detti Stati possono privare quest’ultimo della libertà ricorrendo al trattenimento.
Conformemente all’art. 15, n. 1, secondo comma, della direttiva 2008/115, tale privazione della libertà deve avere durata quanto più breve possibile e protrarsi solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio. Ai sensi dei nn. 3 e 4 di detto art. 15, tale privazione della libertà è riesaminata ad intervalli ragionevoli e deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento. I nn. 5 e 6 del medesimo articolo fissano la sua durata massima in 18 mesi, termine tassativo per tutti gli Stati membri. L’art. 16, n. 1, di detta direttiva, inoltre, prescrive che gli interessati siano collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune.
Emerge da quanto precede che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato - la concessione di un termine per la sua partenza volontaria - alla misura che maggiormente limita la sua libertà - il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità.
Perfino il ricorso a quest’ultima misura, la più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell’ambito di una procedura di allontanamento coattivo, appare strettamente regolamentato, in applicazione degli artt. 15 e 16 di detta direttiva, segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi.
In particolare, la durata massima prevista all’art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 ha lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo (sentenza 30 novembre 2009, causa C 357/09 PPU, Kadzoev, Racc. pag. I 11189, punto 56). La direttiva 2008/115 intende così tener conto sia della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito (v., in particolare, Corte eur. D.U, sentenza Saadi c. Regno Unito del 29 gennaio 2008, non ancora pubblicata nel Recueil des arrêts et décisions, §§ 72 e 74), sia dell’ottavo dei «Venti orientamenti sul rimpatrio forzato» adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ai quali la direttiva fa riferimento nel terzo ‘considerando’. Secondo tale principio, il trattenimento ai fini dell’allontanamento deve essere quanto più breve possibile.

L'ordinanza che istituisce i nuovi CIE “temporanei” conferma e aggrava la vigente disciplina in materia di respingimenti, espulsione e detenzione amministrativa ed  appare dunque in contrasto con quanto previsto dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE. In tutti i procedimenti di convalida del trattenimento che si svolgeranno all'interno dei nuovi campi di detenzione l'assenza del criterio della proporzionalità ed il carattere “automatico” dell'allontanamento forzato dovranno costituire motivo di opposizione, se occorre fino al giudizio davanti alla Corte di Cassazione, o per successive richieste di sospensiva per ulteriori questioni pregiudiziali da rivolgere alla Corte di Giustizia di Lussemburgo.
Lo stesso tipo di ricorsi dovrà essere proposto  se il governo dovesse emettere un decreto legge che modifichi la normativa interna per semplificare le procedure di allontanamento forzato. Se le nuove norme aventi forza di legge, probabilmente la riproposizione di quanto anticipato con la infausta circolare del 17 dicembre 2010, risultassero in contrasto con la direttiva 2008/115/CE e con la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 28 aprile scorso, i giudici italiani sarebbero tenuti a disapplicare anche le nuove norme interne che il governo dovesse riuscire ad introdurre se risultassero ancora in contrasto con la normativa comunitaria, come appare largamente prevedibile a fronte delle dichiarazioni di Maroni e dell'OPCM di Berlusconi del 21 aprile scorso.
Ma oltre all'inasprimento del regime della detenzione amministrativa e della trasformazione dei CARA in CIE, di fatto come a Salina Grande a Trapani, oppure sulla base della nuova ordinanza emessa dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, continuano ad emergere ulteriori profili di illegittimità che caratterizzano le operazioni di rimpatrio forzato verso la Tunisia ed altri paesi del Nord-africa.
In un recente incontro con il console tunisino a Palermo è infatti emerso che i provvedimenti di rimpatrio, eseguiti direttamente da Lampedusa verso Tunisi, e poi anche da Bologna, siano essi respingimenti differiti o espulsioni,  non sono comunque notificati tempestivamente agli interessati prima dell'avvio delle operazioni di allontanamento forzato. E'  persino nascosta la destinazione finale ( Tunisia) dei trasferimenti ai quali i migranti vengono sottoposti, e i provvedimenti relativi vengono consegnati dopo l'imbarco sugli aerei, con evidente limitazione della libertà personale e con totale privazione di tutti i diritti da riconoscere alle persone soggette al rimpatrio forzato, in base agli artt.13 e 24 della Costituzione, al Regolamento delle frontiere Schengen n.562 del 2006. Il Regolamento Schengen impone la tempestiva notifica di provvedimenti individuali, mentre la direttiva sui rimpatri n. 2008/115/CE, che limita i casi di rimpatrio forzato, e persino il diritto interno vigente, presuppongono quanto meno la tempestiva adozione e notificazione di provvedimenti formali di allontanamento forzato, siano essi respingimenti differiti disposti dal Questore o espulsioni amministrative disposte dal Prefetto.


2. Anche se non se parla più, al di fuori di scarni comunicati che emana periodicamente il Ministero dell'interno, continuano i respingimenti sommari verso l'Egitto, con procedure che appaiono ancora in contrasto con la Direttiva rimpatri e con l'ultima sentenza della Corte di Giustizia. A differenza di quanto successo con la Tunisia, nei confronti della quale Maroni sarebbe riuscito a strappare solo il rimpatrio di 800 migranti arrivati irregolarmente in Italia, e questo spiega adesso perchè stanno attrezzando i nuovi CIE temporanei, mentre gli ultimi voli da Lampedusa con tunisini da espellere sono partiti verso i CIE di Bologna e di Gradisca d'Isonzo, gli accordi di riammissione con l'Egitto procedono come ai tempi della dittatura di Moubarak.
Dal mese di marzo del 2007, in particolare, centinaia di cittadini egiziani irregolarmente giunti a Lampedusa, o salvati da mezzi della nostra marina militare e poi condotti nel’isola, sono stati rimpatriati in Egitto, dopo essere stati trasferiti dall’isola pelagica all’aeroporto di Catania, definito in queste occasioni come “scalo tecnico”.
Ancora oggi si loda il “salto di qualità”nella collaborazione tra Italia ed Egitto, dopo la chiusura, grazie all’intervento in quel paese di unità militari italiane, nel 2004, della “rotta di Suez” che aveva comportato la riconsegna al governo cingalese di migliaia di tamil in fuga dalla guerra civile. Pratiche di cooperazione di polizia che avevano avuto come conseguenza la tortura e la morte di molti di coloro che erano stati deportati dal Cairo a Colombo.
Le operazioni di riammissione tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e da Roma al Cairo, e oggi da varie città italiane, sono rese possibili dall’accordo di collaborazione firmato proprio nel gennaio del 2007 dal governo italiano, in persona del sottosegretario agli esteri Intini e alla presenza del viceministro all’interno Lucidi, accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote ammesse annualmente con i decreti flussi, consentiva forme di attribuzione della nazionalità, se non della identità personale e dell’età, assai celeri, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia. Già nel 2005, peraltro, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un "Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro", siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall’allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell’accordo si prevedeva che i due governi, al fine di "gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale", si impegnano a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoratori migranti da e per l’Egitto. Il governo italiano, dal canto suo, si impegnava a valutare l’attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo si legge che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano comunicheranno all’omologo egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un’attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. La lista dovrà essere pubblicata sul sito web del ministero del Lavoro italiano”.
Basta verificare l’andamento dei decreti flussi adottati in questi ultimi anni e i ritardi accumulati, e poi controllare il numero di lavoratori egiziani effettivamente entrati in Italia con un visto di ingresso per ragioni di lavoro, per verificare quanto questo accordo possa avere “giovato” ai lavoratori egiziani, ancora costretti in gran parte a tentare la via dell’ingresso irregolare. Niente di nuovo dunque, nei comunicati del ministro dell’interno Maroni relative al rimpatrio immediato di alcune decine di migranti egiziani respinti   verso l’Egitto. I rimpatri da Lampedusa in Egitto, con scalo tecnico a Catania, che per le modalità ed i tempi delle identificazioni e per la motivazione uniforme adottata, possono configurare delle vere e proprie espulsioni collettive, sono dunque in corso da tempo, e vengono pubblicizzati con assiduità che si potrebbe rivolgere ad altre informazioni, solo per camuffare l’ennesimo fallimento delle politiche di contrasto dell’immigrazione clandestina, ritenuto a torto come l’unico strumento di governo del complesso fenomeno delle migrazioni.

Una serie di comunicati del ministero dell'interno fornisce adesso notizie sugli ultimi respingimenti differiti effettuati dall'Italia verso l'Egitto:

Il 21 aprile 2011 venivano rimpatriati al Cairo 18 cittadini egiziani ,con un volo decollato  dall  dall’aeroporto di Bari-Palese, sono stati rimpatriati nella città del Cairo 18 cittadini egiziani.  Gli immigrati facevano parte di un gruppo, composto da 19 maggiorenni e 26 minorenni, sbarcato il 18 aprile sul litorale di S. Margherita di Savoia, in provincia di Barletta.  Secondo il comunicato del ministero dell'interno” rintracciati dalle forze di polizia territoriali, tutti gli stranieri avevano omesso di dichiarare la loro nazionalità per non essere rimpatriati. Tuttavia, su input della Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere, la questura di Foggia è riuscita ad accertare la loro reale nazionalità. I 26 minori sono stati affidati alle strutture indicate dall'autorità giudiziaria; un giovane maggiorenne, invece, è ricoverato in ospedale”. Per il ministero “ il rimpatrio dei 18 egiziani, avvenuto nell’immediatezza del loro sbarco, conferma l’eccellente livello dei rapporti di cooperazione che intercorrono con la rappresentanza diplomatica egiziana in Italia. Dall’inizio dell’anno, infatti, nelle ore immediatamente successive al loro arrivo sulle coste italiane, sono stati rimpatriati 183 egiziani”.

Il 22 aprile 2011 19 cittadini egiziani rimpatriati a Il Cairo con volo charter da Catania. Il 20 aprile erano sbarcati complessivamente in 26, privi di documenti identificativi, nei pressi dell’oasi naturalistica di Vendicari, in provincia di Siracusa. Uno di loro era minorenne ed è stato affidato a una struttura di accoglienza.
Inoltre, sono stati individuati tra loro due scafisti che sono stati arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Altri quattro egiziani sono rimasti a disposizione della competente autorità giudiziaria, in qualità di testi.
Il 23 aprile 2011 sono stati rimpatriati altri 20 cittadini egiziani da Trieste. con un volo charter decollato dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari (TS) e diretto a Il Cairo, 20 cittadini egiziani. Secondo il Ministero dell'interno”Facevano parte di un gruppo composto da 26 maggiorenni e 9 minorenni che è stato rintracciato il 21 aprile in località Grado, in provincia di Gorizia. I 9 minori sono stati affidati a una struttura indicata dall’autorità giudiziaria, altri 6 stranieri sono rimasti in Italia su disposizione della competente autorità giudiziaria.
Il 26 aprile 2011 con un volo charter decollato dall’aeroporto di Bari e diretto a il Cairo, son stati rimpatriati 54 cittadini egiziani facenti parte di un gruppo di 94 clandestini (72 maggiorenni e 22 minorenni)  che, per giungere clandestinamente sulle coste siciliane, si erano imbarcati su di un peschereccio in partenza dall’Egitto. Secondo quanto comunicato dal ministero “ gli stranieri erano convinti di poter evitare il rimpatrio, sia per la concomitante festività pasquale, che a loro giudizio avrebbe causato una riduzione dei controlli costieri, sia perché, in caso di necessità, avrebbero potuto affermare di essere cittadini della Libia e, quindi, fuggiti dalla guerra in corso. Tuttavia, a seguito delle consuete verifiche effettuate, si è appurata la loro reale nazionalità egiziana.  I 22 minori sono stati affidati ad idonee strutture, mentre 15 clandestini sono stati arrestati per favoreggiamento all’immigrazione clandestina, in quanto membri dell’equipaggio del peschereccio. Gli stessi sono stati messi a disposizione della Procura della Repubblica di Siracusa, unitamente ad altri 3 testimoni.  Nella notte di Pasqua, inoltre, altri 40 cittadini egiziani, sbarcati nei giorni scorsi sul litorale di Siracusa e sull’isola di Lampedusa, sono stati rimpatriati con un volo charter decollato dall’aeroporto di Bari e diretto a il Cairo”.
Il 27 aprile 2011 “sono stati rimpatriati a Il Cairo 40 egiziani immigrati clandestinamente con un volo charter decollato dall’aeroporto di Lamezia Terme (CZ), 40 egiziani, facenti parte di un gruppo di 54 clandestini (di cui 23 si erano dichiarati minorenni), rintracciati lunedì scorso sul litorale di Soverato”.  Sempre secondo il ministero dell'interno, “gli stranieri, per evitare il rimpatrio, hanno riferito di essere libici e 9 di essi, inoltre, pur essendo maggiorenni, hanno riferito di avere meno di 18 anni. Tuttavia, sono stati effettuati mirati accertamenti che hanno appurato che i 9 minorenni erano, in realtà, maggiorenni. Personale specializzato nell’individuazione della nazione di origine dei clandestini ha poi appurato che tutti i 54 stranieri erano egiziani. Pertanto, i 14 minorenni sono stati affidati a strutture indicate dalla competente autorità giudiziaria, mentre i restanti 40 maggiorenni sono stati rimpatriati a Il Cairo.  Dall’inizio dell’anno, sono 363 gli egiziani espulsi e accompagnati coattivamente in Egitto subito dopo il loro sbarco sulle coste italiane, grazie alla stretta sinergia operativa tra la Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere e della Rappresentanza Diplomatica egiziana in Italia, che ha reso più incisiva l’attività volta al contrasto delle organizzazioni criminali dedite a favorire l’immigrazione clandestina”.
I comunicati emessi dal ministero dell'interno sui rimpatri in Egitto, seppure con lo stile dei mattinali di polizia, confermano la sommarietà delle procedure adottate, e la rapidità della “selezione” che affidata alle forze di polizia ha permesso in poche ore di stabilire l'età dei migranti, il loro stato giuridico, la possibilità di un respingimento. NON RISULTA CHE QUALCUNO ABBIA POTUTO PRESENTARE RICHIESTA DI ASILO, probabilmente rappresentanti del consolato egiziano erano già presenti al momento della prima identificazione. Non si comprende con quali garanzie si siano distinti i minori di età che non potevano essere rimpatriati. E dire che una circolare del 2007 imponeva cautele particolari ai fini del rimpatrio dei soggetti di età apparente prossima ai 18 anni. Anche la Direttiva sui rimpatri stablisce cautele particolari per questi soggetti vulnerabili, a partire dal diritto al ricorso per provare un età diversa da quella risultante da un accertamento sanitario assai affrettato, che può avere un margine di incertezza di due/tre anni.
Ma anche nel caso degli adulti egiziani, come nel caso degli adulti tunisini che in questi giorni vengono sottoposti ad esecuzioni sommarie, mancano garanzie effettive di difesa e si utilizza lo strumento del “respingimento differito” disposto dal questore in base all'art. 10 bis del Testo unico 286 del 1998, non a caso richiamato dall'ordinanza del Consiglio dei Ministri che attiva i nuovi centri di identificazione temporanei, un “succedaneo” del provvedimento di espulsione adottato dal Prefetto, un autentico espediente che da anni consente allontanamenti forzati somari senza un effettivo controllo del giudice, in contrasto con l'art. 13 della Costituzione.
Si deve purtroppo rilevare come la possibilità di un ricorso giurisdizionale contro il respingimento “differito” disposto dal Questore, dopo l’ingresso nel territorio nazionale ( non quindi quello che si realizza materialmente al momento del tentativo di ingresso in frontiera, che rimane un mero comportamento materiale ), sia alquanto teorica. Il provvedimento formale di respingimento emesso dal Questore si dovrebbe impugnare davanti ad un Tribunale Amministrativo, e questo risulta ancora più difficile, se non del tutto impossibile, quando le misure di allontanamento forzato sono disposte da autorità amministrative che si trovano o si spostano nei luoghi di prima accoglienza, come appunto Lampedusa, luoghi ben lontani dalle sedi presso le quali si potrebbero impugnare i provvedimenti di allontanamento forzato ( basti pensare alla difficoltà di sottoscrivere una procura per l’avvocato di fiducia ed all’assenza di difensori di ufficio, oltre che di…una sede giudiziaria raggiungibile dalla persona interessata, che adesso potrà essere detenuta anche nelle nuove tre strutture denominate centri di identificazione ed espulsione temporanei, tutte ubicate- non certo a caso-  in luoghi isolati).
Di queste procedure di “respingimento differito” adottato con decreto del Questore dovrebbe occuparsi finalmente anche la Corte Costituzionale, magari in coerenza con quanto affermato nella sentenza n.222 del 2004. Le garanzie di difesa previste per un procedimento di espulsione, sopratutto nei casi in cui si verifica anche la detenzione amministrativa,  non possono essere diverse nei casi di respingimento differito ai sensi dell'art. 10 comma 2 del T.U. n. 286 del 1998, anche perché la persona comunque ha fatto comunque ingresso nel territorio nazionale, a differenza dei casi di respingimento immediato, ed è dunque applicabile anche a chi riceve il provvedimento di respingimento l'art. 2 del T.U. Sull'immigrazione che riconosce anche agli immigrati irregolari i diritti fondamentali della persona umana. Quanto previsto dalla legge in materia di espulsione, con riferimento alle garanzie di difesa delle persone, soprattutto in caso di trattenimento amministrativo disposto ai sensi dell'art. 14 del T.U. sull'immigrazione, non può non valere nei casi di respingimento “differito” in frontiera con provvedimento del Questore. Osservava la Corte Costituzionale nel 2004:
“La sentenza n. 105 del 2001 non investì l’accompagnamento alla frontiera in sé,a lo considerò quale logico presupposto del trattenimento. Tuttavia, quanto in essa affermato già preannunciava la soluzione di una eventuale questione di legittimità costituzionale che avesse avuto ad oggetto l’accompagnamento alla frontiera quale autonoma misura non legata al trattenimento presso i centri di permanenza temporanei. L’esigenza di colmare un vuoto di tutela ha indotto il legislatore ad intervenire con il d.l. n. 51 del 2002, il cui art. 2 prevedeva l’obbligo del questore di comunicare il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione all’ufficio del Procuratore della Repubblica presso il tribunale territorialmente competente. A sua volta, il Procuratore della Repubblica, verificata la sussistenza dei requisiti, doveva procedere alla convalida del provvedimento entro le quarantotto ore successive alla comunicazione. La norma si chiudeva disponendo che: "Il provvedimento è immediatamente esecutivo". Le modifiche apportate in sede di conversione, con la legge n. 106 del 2002, hanno riguardato anzitutto l’autorità giudiziaria preposta alla convalida – non più il Procuratore della Repubblica bensì il tribunale, in composizione monocratica, territorialmente competente – e, poi, la previsione della immediata esecutività del provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera, la quale è ora inserita, come autonomo inciso, subito dopo la prevista comunicazione del provvedimento al giudice e prima della disciplina della convalida.
Il procedimento regolato dall’art. 13, comma 5-bis, contravviene ai principî affermati da questa Corte nella sentenza sopra ricordata: il provvedimento di accompagnamento alla frontiera è eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Lo straniero viene allontanato coattivamente dal territorio nazionale senza che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale. È, quindi, vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 Cost., e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore. E insieme alla libertà personale è violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile. La disposizione censurata non prevede, infatti, che questi debba essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore. Non è certo in discussione la discrezionalità del legislatore nel configurare uno schema procedimentale caratterizzato da celerità e articolato sulla sequenza provvedimento di polizia-convalida del giudice. Vengono qui, d’altronde, in considerazione la sicurezza e l’ordine pubblico suscettibili di esser compromessi da flussi migratori incontrollati. Tuttavia, quale che sia lo schema prescelto, in esso devono realizzarsi i principî della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l’effettivo controllo sul provvedimento de libertate, né può essere privato l’interessato di ogni garanzia difensiva. Le censure svolte dai remittenti non possono infine essere superate facendo ricorso alla tesi del c.d. "doppio binario" di tutela per lo straniero: convalida soltanto "cartolare" del provvedimento di accompagnamento alla frontiera e successivo ricorso sul decreto di espulsione con adeguate garanzie difensive. Sarebbe infatti elusa la portata prescrittiva dell’art. 13 Cost., giacché il ricorso sul decreto di espulsione (art. 13, comma 8) non garantisce immediatamente e direttamente il bene della libertà personale su cui incide l’accompagnamento alla frontiera.

3. Con la scusa dell'emergenza umanitaria “proveniente” dal Nord Africa si stanno violando dunque consolidati principi costituzionali ed adesso anche atti dell'Unione Europea che hanno efficacia vincolante diretta nel nostro ordinamento, come le decisioni della Corte di Giustizia.
Appare anche del tutto arbitraria la fissazione di un limite di tempo per riconoscere un permesso temporaneo per protezione umanitaria a coloro che provengono dal “Nord Africa” , come se, successivamente al 5 aprile, in questi “paesi” si fosse verificato un tale miglioramento della situazione politica e sociale tale da fare venire meno la necessità di protezione, seppur temporanea, dai cittadini provenienti da quest’area.
Come osserva il CIR in un recente documento, “a conferma dell’assenza di tale mutamento sembrano porsi tanto il perpetrarsi di sbarchi di cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa, quanto il protrarsi di alcune delle situazioni di crisi in atto in quell’area. Negare ai cittadini provenienti da questi Paesi giunti in Italia in seguito alla mortezzanotte del 5 aprile 2011 appare – prosegue il CIR - quindi una decisione priva di argomentazioni fondate. Allo stesso modo appare meritevole di un’ulteriore riflessione la previsione in base alla quale la richiesta del permesso di soggiorno per protezione umanitaria deve avvenire entro 8 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
In un contesto di grande emergenza, quale quello che sta caratterizzando l’Italia in questi mesi, otto giorni appaiono come un arco temporale limitato nel quale fornire informazioni complete ai soggetti interessati circa le caratteristiche e le modalità di rilascio del suddetto permesso di soggiorno. Appare, infatti, probabile che non tutti i cittadini provenienti dal Nord Africa abbiano avuto modo di conoscere e di usufruire della facoltà loro riconosciuta. Tale circostanza impone una riflessione, in quanto mal si comprende perché una volta riconosciuti a dei soggetti alcuni diritti non si conceda loro contestualmente le condizioni necessarie per il loro godimento.
Alla luce di quanto detto, il CIR ritiene opportuno che le previsioni di cui sopra fossero oggetto di una integrazione, nell’ottica di riconoscere il diritto a richiedere il rilascio del permesso di soggiorno umanitario di cui al DPCM a tutti i cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa che hanno continuato a giungere in Italia successivamente al 5 aprile e che continueranno a farlo, senza la necessità di indicare a priori un limite temporale. Quando avverranno le condizioni per porre fine al riconoscimento della protezione temporanea, si dovrebbe emanare un successivo decreto con l’indicazione chiara del limite temporale, come peraltro già avvenuto nella crisi del Kosovo.
Sarebbe, inoltre, auspicabile – prosegue il CIR- che il termine di otto giorni di cui sopra fosse prorogato, al fine di permettere a tutti i soggetti aventi diritto al rilascio di un permesso di soggiorno ai sensi del decreto, di poterne usufruire”.
Occorre dunque chiedere con forza la riapertura dei termini per la richiesta della protezione umanitaria prevista dal DPCM del 5 aprile scorso ed il rispetto per tutti i migranti sottoposti ad allontanamento forzato delle garanzie procedurali previste dalla Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE e ribadite dalla sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile scorso..


4. Malgrado i tentativi di avanzamento verso la democrazia nei principali paesi del Nord Africa continuano a restare in vigore e vengono applicati gli accordi di riammissione conclusi con le precedenti dittature. Anche nel caso della Libia molti ( dalle parti della Lega esplicitamente) rimpiangono la collaborazione assicurata dal 2009 da Gheddafi, e auspicano di praticare ancora respingimenti collettivi in mare e la delocalizzazione dei centri di detenzione in Libia, dopo la fine delle ostilità, quale che sia l'autorità nazionale che si potrà insediare su quei territori. Intanto la situazione dei migranti economici, come dei potenziali richiedenti asilo, se appare certo diversa rispetto al passato, soprattutto in Libia a causa del conflitto in corso, risulta ancora molto critica in Egitto ed in Tunisia. Qui rispetto all'emigrazione ed alla riammissione degli irregolari  rimangono ombre e contraddizioni evidenti, in quanto esiste la possibilità, dopo il primo rimpatrio, se si è al secondo tentativo,di essere condotti in Tribunale ed essere condannati ad una pena pecuniaria. E la guerra in Libia aggrava la situazione di incertezza politica e sociale in Tunisia, paese molto più piccolo e povero dell'Italia, che è costretto ad accogliere oltre cento mila migranti in fuga dalla Libia. Sembra comunque che il governo provvisorio tunisino cerchi di gestire la politica di riammissione con la preoccupazione di non creare troppo malcontento all'interno del paese, dove anche per effetto della guerra in Libia, c'è una grave crisi occupazionale, soprattutto nel settore turistico, e le rimesse degli emigrati potrebbero sostenere interi bilanci familiari. In questo senso appare assai importante la conferma di un tetto massimo al numero dei tunisini ( 800) che potranno essere rimpatriati sommariamente in base agli accordi “imposti” da Maroni e Berlusconi alle autorità tunisine, che avrebbero invece escluso espulsioni di massa e quei respingimenti collettivi in mare che l'Italia ha invece concordato con Gheddafi negli anni precedenti.

Rimane compito dei movimenti italiani creare un collegamento con le associazioni dei paesi della riva sud del Mediterraneo per monitorare e denunciare le innumerevoli violazioni dei diritti fondamentali della persona poste in essere dalle autorità italiane.  Occorre anche, sul nostro territorio, proseguire il lavoro di monitoraggio e di denuncia in tutti i luoghi di detenzione e di deportazione, al fine di informare l'opinione pubblica, ed anche allo scopo di fornire a tutti gli immigrati tunisini, e di altre nazionalità, ogni possibile assistenza legale e ogni supporto in termini di accoglienza e di inclusione.

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