Il ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe
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Le Grand Soir - 25 febbraio 2011
Il ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe: il caso dell’Egitto
di Ahmed Bensaada
Non c’è niente di più commovente che vedere un popolo riconquistare la libertà dopo aver subito il giogo del dispotismo e ritrovare la sua fierezza dopo anni di umiliazione. Le maree umane che sfilano per le strade, occupano le piazze, gridando slogan sferzanti e irriverenti, utilizzando una parola da troppo tempo confiscata, esibendo una dignità oltraggiosamente disprezzata: una vera grazia divina.
Ma il seguito di queste rivolte ci lascia perplessi. Che cosa hanno prodotto oltre alla cacciata dei regimi al potere?
Andiamo a vedere. In Tunisia: un Ghannouchi che resta al potere nonostante la condanna popolare e gli anni trascorsi a servire un potere mafioso, un blogger che decide di ricoprire la carica di ministro in un governo dal quale è stato personalmente maltrattato e migliaia di giovani harraga che preferiscono fuggire in occidente piuttosto che continuare la rivoluzione nel paese dei gelsomini. Stesso scenario nel paese del Nilo: un Tantaoui, puro prodotto del sistema, che ha raggiunto da un pezzo l’età della pensione, e che, senza chiedere nulla al popolo sovrano, decide di mantenere le relazioni con Israele prima ancora di interessarsi alla sorte dei suoi concittadini; un governo leggermente modificato, i cui posti chiave restano sempre nelle mani degli apparatcik del sistema; dei ritocchi cosmetici della Costituzione e una richiesta di congelamento dei beni della famiglia Mubarak, formulata dopo incomprensibili esitazioni, molto tempo dopo quella fatta nei confronti di ex dignitari del regime.
Questa è una “rivoluzione”? E’ possibile che l’elefante abbia partorito un topolino?
I tiepidi risultati di queste rivolte possono essere compresi solo se si analizzi la loro genesi. La maggior parte degli specialisti “televisivi”, o di quelli che officiano sulla grande stampa, sono d’accordo sul carattere spontaneo di questi movimenti. In linea di massima, il popolo può essere considerato come una specie di pentola a pressione suscettibile di esplodere sotto l’effetto di una pressione sociale e politica troppo grande. Questa esplosione produce una reazione a catena nei paesi vicini, simili per cultura e storia. Bisogna dunque attendere con saggezza, preparare le telecamere e i microfoni per essere pronti a “coprire”, al momento opportuno, gli avvenimenti che agiteranno le piazze arabe.
Si tratta di un’analisi ingenua e grossolana che è difficile possa essere accettata da parte di persone colte, titolari di cattedre, direttori di riviste, che hanno passato la loro vita a scrutare ogni minimo movimento di questa regione del mondo. Un po’ come gli illustri economisti contemporanei che non hanno saputo prevedere l’attuale crisi economica. Che cosa si sarebbe detto se un meteorologo non fosse stato capace di prevedere un gigantesco uragano?
Di fatto, ciò che colpisce dopo l’avvio dei moti tunisini, è la troppo forte preoccupazione USA a proposito delle nuove tecnologie. I molteplici interventi del presidente Obama e della sua segretaria di stato in difesa della libertà di accesso a internet e la loro insistenza perché i regimi che hanno a che fare con le manifestazioni popolari non interrompano la navigazione in rete hanno qualcosa di sospetto.
La signora Clinton ha anche affermato, il 15 febbraio scorso, che “internet è diventato lo spazio pubblico del XXI secolo” e che “le manifestazioni in Egitto e in Iran, alimentate da Facebook, Twitter e Youtube, dimostrano la potenza delle tecnologie di connessione come acceleratori del cambiamento politico, sociale ed economico”. Lei stessa ha annunciato lo scongelamento di 25 milioni di dollari “per sostenere dei progetti o la realizzazione di strumenti che agiscano in favore della libertà di espressione on line” e l’apertura di profili Twitter in cinese, russo e hindi dopo quelli in persiano e in arabo. D’altra parte le “complesse” relazioni tra il Dipartimento di Stato USA e Google sono state oggetto di ampia attenzione sulla stampa. E il famoso motore di ricerca viene considerato come “un’arma della diplomazia USA”.
Ma quali relazioni vi sono tra il governo USA e queste nuove tecnologie? Perché dei responsabili di così alto livello assumono decisioni nella gestione di imprese che si suppone siano private? E’ una situazione che non può non ricordarci l’intervento simile durante gli avvenimenti succeduti alle elezioni in Iran. Il Ministero USA degli Affari Esteri aveva allora chiesto a Twitter di rinviare un’attività di manutenzione che avrebbe provocato una interruzione del servizio, cosa che avrebbe privato gli oppositori iraniani dei mezzi di comunicazione.
Questi curiosi agganci tra il governo USA e le reti sociali in regioni del mondo così sensibili e durante avvenimenti sociali così delicati é molto sospetto, è il minimo che si possa dire.
Altro elemento che attira l’attenzione: la fortissima esposizione mediatica dei blogger, il loro collegamento con una rivoluzione definita come “facebookiana” e l’insistenza sulla loro non-appartenenza a qualsiasi movimento politico. Si tratta dunque di persone giovani e apolitiche che utilizzano le nuove tecnologie per destabilizzare dei regimi autocratici radicati nel paesaggio politico da decenni. Ma da dove vengono questi giovani e come possono riuscire a mobilitare tante persone senza avere avuto una formazione adeguata né essere collegati a qualche associazione? Una cosa è certa: il modus operandi di queste rivolte ha tutte le caratteristiche delle rivoluzioni colorate che hanno scosso il paesi dell’est all’inizio degli anni 2000.
Le rivoluzioni colorate
Le rivolte che hanno sconvolto il paesaggio politico dei paesi dell’est o delle ex-repubbliche sovietiche sono state definite “rivoluzioni colorate”. La Serbia (2000), la Georgia (2003), l’Ucraina (2004) e il Kirghizistan (2005) ne sono degli esempi. Tutte queste rivoluzioni, che si sono chiuse con successi clamorosi, si sono basate sulla mobilitazione dei giovani attivisti locali filo-occidentali, studenti focosi, blogger impegnati e insoddisfatti del sistema.
Numerosi articoli (leggere per esempio: John Laughland, “La tecnique di coup d’état coloré”, Réseau Voltaire, 4 gennaio 2010 – http://www.voltairenet.org/article1...) e un rimarchevole documentario della reporter francese Manon Loizeau (Manon Loizeau, “Les Etats Unis à la conquete de l’Est”, 2005. Questo documentario può essere visto all’indirizzo: http://macanoblog.wordpress.com/200...) hanno analizzato a fondo il modo in cui queste rivolte si sono realizzate e mostrato che erano gli USA a tirare i fili.
Infatti il coinvolgimento dell’USAID, del National Endowment for Democracy (NED), dell’International Republican Institute, del National Democratic Institute for Intarnational Affairs, di Freedom House, dell’Albert Einstein Institution e dell’Open Society Institute (OSI) è stata provata con chiarezza (leggere ad esempio: Ian Traynor, “US campaign behind the turmoil in Kiev”, The Guardian, 26 novembre 2004 – http://www.guardian.co.uk/word/200...).
Queste organizzazioni sono tutte USA, finanziate sia dal governo che da privati nordamericani. Per esempio, la NED è finanziata con un budget votato dal Congresso e i fondi sono gestiti da un Consiglio di amministrazione dove sono rappresentati il Partito repubblicano, il Partito Democratico, la Camera di Commercio degli USA e il sindacato AFL-CIO, mentre l’OSI fa parte della Fondazione Soros, dal nome del suo fondatore George Soros, il miliardario nordamericano, illustre speculatore finanziario.
Sono stati avviati diversi movimenti per realizzare le rivolte colorate. Tra essi, OTPOR (Resistenza in lingua serba) è quello che ha provocato la caduta del regime serbo di Slobodan Milosevic. Il logo di OTPOR, un pugno chiuso, è stato ripreso da tutti i movimenti successivi, e la cosa dimostra una forte collaborazione tra essi.
Diretto da Drdja Popovic, OTPOR predica l’ideologia di resistenza individuale non violenta teorizzata dal filosofo e politologo USA Gene Sharp. Soprannominato il “Macchiavelli della non violenza”, Gene Sharp è il fondatore dell’Albert Einstein Institution. La sua opera “From Dictatorship to Democracy” (Dalla dittatura alla democrazia) è stato alla base di tutte le rivoluzioni colorate. Disponibile in 25 diverse lingue (tra cui naturalmente l’arabo), questo libro può essere consultato gratuitamente in internet e la sua ultima edizione data 2010. La prima edizione, destinata ai dissidenti birmani di Tailandia, è stata pubblicata nel 1993.
Il caso dell’Egitto
E’ stato il movimento del 6 aprile che ha costituito la punta di lancia della protesta popolare egiziana e il principale artefice della caduta di Hosni Mubarak. Formato da giovani della classe media, attivisti, appassionati di nuove tecnologie, questo movimento ha, fin dal 2008, sostenuto le rivendicazioni operaie.
La prima collusione tra questo movimento e il governo USA è stata divulgata da WikiLeaks. Si tratta di 2 cablogrammi (08CAIRO2371 e 10CAIRO99) datati rispettivamente novembre 2008 e gennaio 2010, che mostrano con chiarezza strette relazioni tra l’Ambasciata USA del Cairo e gli attivisti egiziani (WikiLeaks cablo 10CAIRO99 – http://213.251.145.96/cable/2010/01...; WikiLeaks, cable08CAIRO2371, http://www.wikileaks.ch/cable/2008/...).
La blogger Israa Abdel Fattah, cofondatrice del movimento del 6 aprile, viene nominativamente menzionata nel secondo documento come facente parte di un gruppo di attivisti che hanno partecipato ad un programma di formazione organizzato a Washington da Freedom House. Il programma, chiamato “New Generation”, è stato finanziato dal Dipartimento di Stato e USAID ed aveva come obiettivo la formazione di “riformatori politici e sociali”.
Questi stage di formazione negli Stati Uniti di attivisti egiziani suscettibili di “rappresentare una terza via, moderata e pacifica” non sono rari. Condoleeza Rice (maggio 2008) e Hillary Clinton (maggio 2009) ne hanno incontrati alcuni, sotto gli auspici di Freedom House (FH). Questi dissidenti hanno anche avuto dei colloqui con alti responsabili dell’amministrazione USA.
Gli attivisti di OTPOR, forti dell’esperienza accumulata nella destabilizzazione dei regimi autoritari, hanno fondato un centro per la formazione dei rivoluzionari in erba. Questa istituzione il CAMVAS (Centre for Applied Non Violent Action and Strategies) ha sede nella capitale serba e il suo direttore esecutivo altri non è se non Srdja Popovic. Uno dei documenti che circolano in rete e che illustra gli insegnamenti dispensati da questo centro è “La lotta non violenta in 50 punti”, che si ispira largamente alle tesi di Gene Sharp. L’opera vi fa parecchi riferimenti e il sito dell’Albert Einstein Institution viene citato come uno dei migliori sulla questione. CANVAS è finanziato, tra gli altri, da Freedom House, Georges Soros in persona e dall’International Republican Institute che vede nel suo direttivo anche John McCain, il candidato alle presidenziali USA del 2008. D’altronde quest’ultimo viene lungamente intervistato nel documentario di Manon Loizeau e il suo coinvolgimento nelle rivoluzioni colorate è stabilito con certezza. Inoltre gli autori dell’opera (tra cui Drdja Popovic) ringraziano molto il “loro amico” Robert Helvey per averli “iniziati al potenziale sbalorditivo della lotta strategica non violenta”. Robert Helvey è un ex colonnello dell’esercito USA, associato all’Albert Einstein Institution attraverso la CIA, specialista dell’azione clandestina e decano della Scuola di formazione degli attaché militari delle Ambasciate USA.
La portavoce del movimento del 6 aprile, Adel Mohamed, ha affermato, in un’intervista accordata al canale Al Jazira (diffusa il 9 febbraio 2011) che aveva effettuato uno stage al CANVAS durante l’estate 2009, molto prima dei moti di piazza Tahrir. Ha appreso le tecniche di organizzazione delle masse e di comportamento di fronte alla violenza poliziesca. In seguito ella stessa ha formato altre persone.
Ahmed Maher, il cofondatore del movimento 6 aprile, ha dichiarato a un giornalista del Los Angeles Times “che ammirava la rivoluzione arancione ucraina e i Serbi che hanno rovesciato Slobodan Milosevic”.
Un’altra somiglianza tra la rivoluzione serba e la rivolta egiziana è l’adozione del logo di OTPOR da parte del movimento del 6 aprile, così come hanno fatto le altre rivoluzioni colorate.
D’altra parte il sito web di questo movimento contiene una lunga lista di comportamenti da adottare dai membri in caso di arresto. Questa lista assai dettagliata fa esplicito riferimento alla “lotta non violenta in 50 punti” di CANVAS.
Tra gli attivisti egiziani, alcuni sono stati sotto i riflettori durante gli ultimi giorni del regime Mubarak. Tra essi Wael Ghonim è una figura rimarchevole che è stata in prigione per 12 giorni e, dopo essere stato liberato, ha concesso un’intervista alla televisione egiziana Dream 2, nel corso della quale parla della sua prigionia e scoppia in lacrime. Questa performance audiovisiva ha fatto di questo cyberdissidente un eroe suo malgrado.
Formatosi all’Università americana del Cairo (una coincidenza?), Wael Ghonim è un egiziano che vive a Dubai, dove lavora come responsabile marketing di Google (un’altra coincidenza?) per il Medio oriente e l’Africa del Nord. E’ sposato con una nordamericana (un’ennesima coincidenza?). Wael è un attivista recente nel movimento del 6 aprile, ma ha lavorato fianco a fianco con Ahmed Maher. Una cosa che desta interesse nel corso del suo intervento televisivo, è la sua dichiarazione quando gli hanno mostrato le immagini dei giovani uccisi durante le manifestazioni: “Voglio dire a tutte le madri, a tutti i padri che hanno perso un figlio: chiedo scusa, non è stata colpa nostra, lo giuro, non è stata colpa nostra, è stata colpa di tutte quelle persone che erano al potere e vi si sono attaccati”. Questa dichiarazione dimostra che il movimento era organizzatissimo e che nessuno di essi aveva previsto che vi sarebbero state delle perdite anche tra i manifestanti, per la maggior parte giovani, che sono stati contattati attraverso le reti sociali.
Altra informazione sorprendente: il Presidente-Direttore Generale di Google si è dichiarato “molto fiero di ciò che Wael Ghonim aveva realizzato”, come se fare la rivoluzione facesse parte dei compiti del responsabile di marketing di una qualsiasi impresa.
La rivolta egiziana, come le rivoluzioni colorate, ha fatto comparire dei personaggi “internazionalmente rispettabili”, pronti ad assumere ruoli di punta nel cambiamento democratico e nella vita politica di un paese. Il candidato favorito del movimento del 6 aprile è senza dubbio Mohamed El Baradei, premio Nobel della pace ed ex direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA). Il battage mediatico occidentale attorno alla sua “fondamentale” candidatura si è dimostrata essere solo un petardo bagnato. Il popolo della piazza non l’ha plebiscitato e lui è rapidamente sparito dalla scena. E’ interessante sottolineare che El Baradei era il candidato preferito dagli Stati Uniti. Infatti l’ex direttore dell’AIEA è componente dell’International Crisis Group insieme a numerosi personaggi, tra cui George Soros (ancora lui!). Il mondo è veramente piccolo, è il minimo che si possa dire.
Infine notiamo che la NED, soprannominata la “nebulosa dell’ingerenza democratica” da Thierry Meyssan è stata creata da Ronald Reagan per fiancheggiare le azioni segrete della CIA. Il rapporto 2009 di questo organismo mostra che ha assegnato circa 1,5 milioni di dollari a più di 30 ONG egiziane “per la crescita e il rafforzamento delle istituzioni democratiche attraverso il mondo”, come recita il loro sito.
L’utilizzazione delle nuove tecnologie, così incensato dall’amministrazione USA, si dimostra essere uno strumento di prima qualità per la lotta non violenta. Esse permettono di contattare un numero impressionante di persone in un tempo record e di scambiare dati e informazioni di grande importanza all’interno e all’esterno del paese. Gli investimenti massicci effettuati dalle istituzioni e dal dipartimento di stato USA in questo ambito hanno la finalità di migliorare le tecniche di aggiramento della censura statale, di geolocalizzazione degli attivisti quando sono arrestati e di trasmissione di immagini e video che mostrino il volto inumano dei regimi autocratici. Il recente annuncio della rete svedese Bambuser sulla possibilità di diffondere gratuitamente, da un telefono mobile, sequenze video in diretta e stoccarle istantaneamente in linea è un buon esempio di ciò.
Tuttavia, quando comincia l’azione, le tecniche di mobilitazione delle masse, di socializzazione con le forze dell’ordine, di gestione logistica e di comportamento in caso di violenza o di utilizzazione di armi di dispersione delle folle necessitano di una formazione adeguata e di lungo respiro. Nel caso dell’Egitto, ciò è stato possibile grazie all’assimilazione dell’esperienza del CANVAS e alle formazioni dispensate e finanziate dalle diverse istituzioni USA.
E’ chiaro che la rivolta di piazza egiziana non è così spontanea come pretendono la grande stampa e i suoi commentatori. Ciò che non toglie niente al rimarchevole impegno del popolo egiziano che ha seguito i leader del movimento 6 aprile e alla sua nobile abnegazione per sbarazzarsi di un sistema corrotto per conquistare una vita migliore.
Ma speriamo che la storica rivolta della piazza egiziana e il pesante tributo che ha pagato in queste ultime settimane non siano confiscati da interessi stranieri. Il recente veto USA contro un progetto di risoluzione che condanna la politica di colonizzazione israeliana è di cattivo auspicio. Il movimento del 6 aprile non è sensibile alla sofferenza del popolo palestinese?