Analisi - Stiamo assistendo negli ultimi mesi ad un dibattito interessante ma controverso, su alcune questioni territoriali che evocano il principio di autodeterminazione: le questioni del Kosovo, del Sahara Occidentale e del Tibet. La controversia nasce dalla tendenza ad unificare le diverse situazioni, considerandole o sostanzialmente analoghe o rilevanti solo in virtù della loro copertura mediatica.....

L’interesse risiede viceversa nelle modalità con cui si sta sviluppando il dibattito sul principio di autodeterminazione. Tale dibattito è inficiato, di volta in volta, dalla indisponibilità di una documentazione completa ovvero dagli interessi di natura politica o economica che i diversi contesti territoriali animano.


Tali questioni assumono una rilevanza esemplare per il principio di autodeterminazione in virtù della loro attualità: la proclamazione unilaterale dell’indipendenza del Kosovo (in febbraio), la speranza di completare (entro l’anno) il processo referendario sull’autodeterminazione saharawi, la sollevazione tibetana e la mobilitazione internazionale a sostegno (dallo scorso marzo). Gran parte degli osservatori tratta tali questioni come questioni di autodeterminazione tout court ed alla stregua di fondamenti giuridici unificanti: la tesi che qui si sostiene è diversa e considera le tre questioni sostanzialmente diverse tra di loro ed il contesto in cui si inscrivono prevalentemente storico-politico anziché giuridico. 

Non si intende mettere in discussione alcuno dei presupposti: il principio di autodeterminazione è riconosciuto, sancito e regolato dalla comunità internazionale e, nei limiti di vigenza del c.d. diritto internazionale, costituisce principio giuridico; l’organizzazione del consenso e del dissenso è libera ed interviene sul terreno delle libertà fondamentali, che sono quelle di espressione, manifestazione ed associazione, indiscutibilmente riconosciute, sancite e tutelate dalle carte internazionali e dal c. d. diritto dei diritti umani; non meno importante, le forme della manifestazione della propria specificità etnica, nazionale, linguistica, religiosa e culturale, si danno storicamente e politicamente, sono condizionate dall’evoluzione storica e possono essere regolate in forma politica. Di conseguenza, il principio di auto-determinazione non è un principio esclusivamente nazionale e non può ridursi a motivazioni etno-politiche: “a ciascuna etnia la sua nazione”. Se così fosse la stessa ipotesi di stati multi-etnici o pluri-nazionali sarebbe violentemente espulsa dalla storia. 

Questo è il motivo per cui una parte, tuttavia minoritaria, della comunità internazionale e degli analisti, si è schierata contro l’indipendenza unilaterale del Kosovo. Questo orientamento andrebbe interpretato non come acritico sostegno alla causa serba né come tattico elemento di contrapposizione geo-politica anti-statunitense e/o filo-russa; bensì come ripudio di una soluzione auto-determinata in forma violenta, attraverso l’esclusione delle componenti non albanofone e la costituzione di una omogeneità nazionale su base mono-etnica. Se il principio di autodeterminazione non è esaustivamente principio nazionale, esso può trovare forme diverse di compimento: non nella “nazionalizzazione” della questione, bensì nell’esperimento di contesti giuridici e materiali entro cui la libertà auto-noma di espressione, manifestazione ed associazione possa essere garantita. 

Anche in questo caso si tratta di un orientamento minoritario, ma una parte degli osservatori non sostiene l’indipendentismo tibetano proprio in ragione di questo presupposto. L’amministrazione cinese del Tibet viene legittimamente vissuta come prevaricatrice da parte di una minoranza della popolazione tibetana che riconosce nel Dalai Lama non solo una autorità religiosa ma anche una direzione politica. Tuttavia, l’evoluzione storico-sociale del Tibet dal 1959, dunque in vigenza dell’amministrazione cinese, ha creato le condizioni sociali e materiali perché l’autonomia etnica, culturale e religiosa della regione possa esprimersi. Dal punto di vista civile, in virtù del fatto che l’amministrazione cinese riconosce il diritto ai tibetani credenti di professare la propria fede e la comunità tibetana in quanto tale tra le componenti nazionali della Repubblica Popolare; dal punto di vista materiale, in quanto, a seguito della abrogazione delle precedenti normative a base castuale e confessionale, quindi del signoraggio feudale e della servitù della gleba, ha determinato le condizioni della liberazione personale dei tibetani, condizione della piena manifestazione dei diritti di cittadinanza e dell’autodeterminazione soggettiva e comunitaria.

Il discorso è diverso per quello che concerne il Sahara Occidentale. In questo contesto, infatti, il diritto di auto-determinazione del popolo saharawi si lega non solo alla condizione sociale di quella comunità, ma anche al vincolo storico di un processo di decolonizzazione ancora incompiuto, che impone la celebrazione del referendum di autodeterminazione come possibilità di esprimere un orientamento generale, che sia quello dell’autonomia ovvero dell’indipendenza. Qui, in particolare, alla motivazione storica, si aggiunge quella sociale, data dall’avere costituito, sulla base della propria specificità linguistica e culturale, una formazione sociale originale, attraverso cui si sono sviluppati motivi di incompatibilità rispetto al sistema politico-sociale del Paese occupante (il Regno del Marocco).
    
In questo caso, dunque, vale il contrario di quello che vale per il Tibet: solo al di fuori del contesto istituzionale vigente sarà possibile per il Sahara compiere il processo della propria autodeterminazione.

Gianmarco Pisa

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