La mezza giornata di Napoli
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Interventi, marzo 2017 - La «mezza giornata di Napoli», infuriata sabato scorso a Fuorigrotta (manco fossimo a Genova nel giugno 1960), merita una riflessione al di là dei fatti specifici (nella foto, una immagine degli scontri)
Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 14 marzo 2017
La mezza giornata di Napoli
Nicola Quatrano
La «mezza giornata di Napoli», infuriata sabato scorso a Fuorigrotta (manco fossimo a Genova nel giugno 1960), merita una riflessione al di là dei fatti specifici.
Che, in breve, sono questi: il sindaco ritiene di non poter «consentire» il comizio di quel Matteo Salvini che «ha definito i napoletani terroni e ha invitato la gente a non fittare le case ai napoletani». E siccome in città lo «Stato è lui», decreta che non deve parlare, almeno negli spazi di proprietà comunale. Il vero Stato lo smentisce e autorizza, la sinistra manifesta, il solito gruppo di violenti si dà da fare. Risultato: la sinistra ha fatto un’altra cosa inutile (purtroppo) e Luigi de Magistris viene oggi accusato di essere un irresponsabile, ovvero l’unico «responsabile politico» delle violenze. E i suoi distinguo del giorno dopo rischiano di assomigliare al proverbiale «vuttà ‘a petrella e annasconnere ‘a manella». Ma, al di là della prudenza che avrebbe dovuto caratterizzarne l’operato, se c’è qualcosa che deve davvero rimproverarsi al primo cittadino è proprio la pretesa di mettere bocca nel fatto che Salvini parli a Napoli (ed è una responsabilità che condivide con larghe fasce di pubblica opinione).
Il capo leghista può non essere simpatico e certe sue parole possono fare danni, mi viene in mente il tabaccaio di Lodi che ha ucciso un ladro disarmato sparandogli alla schiena e che oggi viene onorato come un eroe. Ma porre condizioni al suo diritto di tenere un comizio è altra cosa, e non lo dico solo per una questione di principio. È un’operazione di «demonizzazione dell’avversario», un espediente retorico comodissimo per eludere i problemi e strappare l’applauso, non a caso vi si è ricorsi infinite volte nel corso della storia. L’insulto varia col mutare delle retoriche dominanti, può essere: «ricchione», «puttana», «maschilista», «comunista», «ebreo», «fascista», «dittatore», «terrorista», l’elenco è lunghissimo. Ma la sostanza è uguale: è una maniera spiccia per chiudere bocche sgradite, una sentenza definitiva che esclude ogni credibilità alle cose che dicono, esime dal prenderle in considerazione anche solo per confutarle in modo ragionato (eccone la comodità: esonera dalla fatica di argomentare, di confrontarsi con quanto sostenuto dall’avversario, con le sue critiche e, soprattutto, non deborda dai 140 caratteri del tweet).
Bollandoli come «eretici», si sono combattuti i sanguinari Ugonotti (non tutti i nemici della Chiesa erano brave persone!), ma si è anche chiusa la bocca a Galileo, evitando il rischio di mettere in discussione il Sistema Tolemaico. Più recentemente, le critiche all’occupazione israeliana della Palestina vengono liquidate come «antisemite», con ciò negandone radicalmente ogni legittimità e sottraendosi al confronto di merito. L’insulto oggi più in voga è quello di «populista», ma non sempre funziona, come hanno imparato a loro spese Matteo Renzi e Hillary Clinton.
Nel caso di Salvini, l’accusa è di avere offeso gravemente i Napoletani, e lo ha fatto. Però erano altri tempi e dopo ha chiesto scusa. Ma quelli che stavano in sala ad ascoltarlo erano tutti di Pizzighettone? O bisogna revocare loro la cittadinanza? Gli si imputa poi anche il suo «populismo» (appunto!) e il «razzismo» verso gli immigrati. Ma quanto sarebbe più efficace lasciarlo libero di parlare e confrontarsi civilmente coi suoi argomenti, per beceri che siano. Chiedergli per esempio come pensa di risolvere i problemi di una natalità ai minimi storici, della desertificazioni del Mezzogiorno o della crisi del welfare, senza ricorrere ad equilibrate immissioni di immigrati. Certo, occorrerebbe anche spiegare cosa si intenda fare (e cosa si è fatto) per favorire l’inserimento dei nuovi giunti nel circuito produttivo e sociale, per evitare che siano costretti a ciondolare tutto il giorno senza far niente, preda magari di circuiti criminali, e per distribuire tra tutti i cittadini il disagio di una convivenza non sempre facile, che oggi grava solo sugli abitanti delle periferie povere.
E qui forse il discorso diventa difficile, troppo difficile per un’amministrazione cittadina (ma anche un governo) prodighi di tweet e avari di politiche sociali, che sanno invocare il nobile principio di «accoglienza» senza però declinarlo in progetti e programmi. Ed è qui che scatta il vero, grande e imperdonabile errore: inveire contro il «nemico» di turno, guadagnarsi qualche facile applauso, affrancandosi dalla fatica e dal rischio di affrontare questioni troppo complicate con l’azione politica.