Middle East Eye, 24 novembre 2017 (trad. ossin)
 
Come Israele ha trasformato la Palestina nella più grande prigione del mondo
Mustafa Abu Sneineh
 
Un saggio storico sull’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza descrive le tecniche militari utilizzate per controllare la vita dei Palestinesi
 
Un manifestante palestinese tenta di distruggere il muro che separa la città di Abu Dis, nella West Bank, da Gerusalemme Est, novembre 2015 (AFP)
 
La guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha avuto come conseguenza l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
 
Israele ha venduto questa guerra come una guerra casuale. Ma nuovi documenti storici e verbali di archivio dimostrano che, invece, Israele l’aveva ben preparata (anche con la complicità del re del Marocco in cambio del rapimenti di Ben Barka, ndt)
 
Nel 1963, personalità dell’esercito, autorità giudiziarie e civili israeliane si impegnarono, nell’Università ebraica di Gerusalemme,  nello studio di un piano globale di gestione dei territori che Israele avrebbe occupato quattro anni dopo, e del milione e mezzo di Palestinesi che vi vivevano.
 
La ragione di queste ricerche era l’esperienza fallimentare del controllo israeliano sui palestinesi durante la breve occupazione di Gaza, in occasione della crisi di Suez del 1956.
 
Nel mese di maggio 1967, poche settimane prima della Guerra, i governatori militari israeliani ricevettero scatole contenti istruzioni legali e militari sul modo di controllare le città e I villaggi palestinesi. Israele avrebbe continuato a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in gigantesche prigioni sotto controllo e sorveglianza militare.
 
Insediamenti, checkpoint e punizioni collettive facevano parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappé nel  suo « The Biggest Prison on Earth: A History of the Occupied Territories » (La più grande prigione sulla terra: una storia dei territori occupati), uno studio circostanziato dell’occupazione israeliana.
 
Pubblicato in occasione del 50° anniversario della guerra del 1967, il libro è stato preselezionato per il Palestine Book Awards 2017, un premio che sarà conferito da  Middle East Monitor a Londra il 24 novembre. Pappé ha parlato con Middle East Eye del suo libro e di quello che rivela.
 
Middle East Eye : – In quale misura questo libro si ricollega al suo saggio precedente,  « The Ethnic Cleansing of Palestine » (La pulizia etnica della Palestina), che parlava della guerra del 1948 ?
 
Ilan Pappé : – E’ sicuramente il seguito del libro precedente, « The Ethnic Cleansing of Palestine » che racconta i fatti del 1948. Io vedo l’intero progetto del sionismo come una struttura, non solo come un evento. Una struttura di colonizzazione grazie alla quale un movimento di coloni colonizza un paese. Finché la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena resiste attraverso un movimento di liberazione nazionale, ogni periodo che analizzo è solo una fase della stessa struttura. 
« The Biggest Prison on Earth » è un libro di storia, ma questa storia non è finita, siamo ancora all’interno dello stesso capitolo storico. D’altra parte ci sarà probabilmente un terzo libro sugli avvenimenti del XXI secolo e sul modo in cui la medesima ideologia di pulizia etnica e di spossessamento viene realizzata nel nuovo secolo, e su come i Palestinesi vi si oppongano.
 
MEE – Lei parla della pulizia etnica che vi è stata nel giugno 1967. Che cosa è successo ai Palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? E quali differenze vi sono con la pulizia etnica della guerra del 1948 ?
 
IP – Nel 1948 c’era un piano molto chiaro di espulsione del maggior numero possibile di Palestinesi dalla maggior parte della Palestina. Il progetto colonialista dei coloni credeva di avere il potere di creare uno spazio ebraico in Palestina completamente privo di Palestinesi. Non ha funzionato molto bene ma a avuto un discreto successo, come voi tutti sapete. L’80% dei Palestinesi che vivevano in quello che sarebbe poi diventato lo Stato di Israele si trova adesso nella condizione di rifugiato
 
Come dimostro nel libro, c’erano alcuni politici israeliani che pensavano che forse avremmo potuto rifare nel 1967 quello che facemmo nel 1948. Ma la grande maggioranza di loro capì che la Guerra del 1967 è stata troppo breve, è durata solo 6 giorni. Inoltre c’era già la televisione, e alcuni dei Palestinesi che volevano espellere erano già dei rifugiati del 1948.
 
Dunque penso che la strategia scelta non fosse una pulizia etnica come quella del 1948. Decisero di procedere a quella che io definirei una pulizia etnica progressiva. In alcuni casi hanno espulso frotte di persone, come a Gerico, nella città vecchia di Gerusalemme e nei dintorni di Qalqilya. Ma, più spesso, hanno imprigionato i Palestinesi nella loro stessa terra e li hanno sottoposti ad un rigido dominio militare, pensando che un assedio di questo tipo sarebbe stato efficace tanto quanto le espulsioni.
 
Dal 1967 ad oggi, c’è stata una pulizia etnica molto lenta che si estende probabilmente per un periodo di 50 anni, ed è tanto lenta che talvolta può riguardare una sola persona in un giorno. Ma se si guarda alla situazione nel suo insieme, dal 1967 ad oggi, si vede che sono centinaia di migliaia i Palestinesi cui non si consente di ritornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.
 
MEE – Lei distingue tra due modelli militari utilizzati da Israele: quello di prigione aperta in Cisgiordania e quello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi due modelli? Le espressioni che ha usato corrispondono a quelle militari ufficiali ?
 
IP – Utilizzo queste espressioni come metafore per spiegare le due forme di colonizzazione che Israele infligge ai Palestinesi nei territori occupati. Insisto a utilizzare queste espressioni perché penso che la soluzione a due Stati corrisponda di fatto al modello di prigione aperta.
 
Gli Israeliani controllano I territori occupati direttamente o indirettamente, ed evitano di farsi vedere nelle città e nei villaggi palestinesi densamente popolati. Hanno diviso la Striscia di Gaza nel 2005 e continuano a dividere la Cisgiordania. C’è una Cisgiordania ebraica e una Cisgiordania palestinese che non ha più una coerenza territoriale.
 
A Gaza, gli Israeliani sono secondini che impediscono ogni contatto dei Palestinesi col mondo esterno, ma che non interferiscono con quello che accade all’interno.
 
La Cisgiordania è una specie di prigione a cielo aperto per piccoli delinquenti che hanno la possibilità di uscire per lavorare all’esterno. E anche se dentro non c’è un regime duro, è pur sempre una prigione. Lo stesso presidente palestinese Mahmoud Abbas, se vuole passare dalla zona B alla zona C, deve chiedere agli Israeliani di aprirgli la barriera. E questo per me è molto simbolico, che il presidente non possa muoversi senza che il secondino israeliano gli apra la gabbia.
 
Questo stato di cose provoca, ovviamente, reazioni palestinesi. I Palestinesi non sono passivi e non accettano la situazione. Abbiamo avuto la prima e la seconda Intifada, e forse vedremo una terza Intifada. Gli Israeliani dicono ai Palestinesi con la loro logica da secondini: se resistete, sopprimeremo tutti i vostri privilegi, come accade in prigione. Non potrete uscire per lavorare. Non potrete muovervi e sarete collettivamente puniti. I secondini usano comunemente le punizioni collettive come rappresaglia.
 
MEE – La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. Non le considerano parte essenziale della struttura coloniale israeliana, come lei dice nel libro. Come hanno avuto inizio gli insediamenti israeliani, e essi hanno un fondamento razionale o religioso?
 
IP – Dopo il 1967, c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una carta strategica ideata dalla sinistra in Israele. E l’ideatore di questa carta era il defunto Yigal Allon, il principale stratega, che ha lavorato con Moshe Dayan nel 1967 su un piano per il controllo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il loro obiettivo era strategico, non tanto ideologico, anche se intimamente pensavano che la Cisgiordania appartenesse a Israele.
 
Non volevano che gli Ebrei si installassero nelle zone arabe densamente popolate. Dicevano che dobbiamo installarci dove i Palestinesi non sono tanti. Per questo hanno cominciato con la valle del Giordano, perché qui ci sono piccoli villaggi ma non vi è la stessa densità di popolazione che c’è in altre parti della Palestina.
 
 
Ma hanno incontrato un problema: mentre disegnavano la loro carta strategica, nasceva un nuovo movimento religioso messianico. Gush Emunim, questo movimento religioso nazionale ebraico, non voleva ispirarsi alla loro carta strategica nella creazione delle colonie. Voleva seguire la carta biblica. Pensava che nella Bibbia si trova esattamente la localizzazione delle antiche città ebraiche. E secondo la carta biblica, gli Ebrei dovevano installarsi a Nablus, Hebron e Betlemme, al centro esatto dei più importanti luoghi della vita palestinese.
 
All’inizio il governo israeliano ha tentato di tenere sotto controllo questo movimento biblico perché gli insediamenti avvenissero in modo più strategico. Ma secondo alcuni giornalisti israeliani, Shimon Peres, che era ministro della difesa agli inizi degli anni 1970, decise di autorizzare le colonie bibliche. I Palestinesi della Cisgiordania hanno dovuto subire la costruzione di due tipi di colonie, quelle strategiche e quelle bibliche
 
La comunità internazionale ritiene che, secondo il diritto internazionale, poco importi che esse siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.
 
Purtroppo la comunità internazionale del 1967 ha accettato l’argomento israeliano che « le colonie sono illegali ma temporanee. Una volta che si giunga alla pace, faremo in modo che tutto torni alla legalità, ma finché la pace non c’è, abbiamo bisogno delle colonie, perché noi siamo sempre in guerra coi Palestinesi ».
 
MEE – Lei dice che « occupazione » non è il termine esatto per descrivere la realtà di Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E in « On Palestine » (Sulla Palestina), un dialogo con Noam Chomsky, lei critica l’espressione « Processo di pace ». Perché queste espressioni non vanno bene ?
 
IP – Io penso che la scelta delle parole sia molto importante. Il modo in cui si definisce  una situazione può avere effetti sulla possibilità di cambiarla.
 
Abbiamo definito la situazione in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con le parole sbagliate. La parola occupazione implica normalmente una situazione temporanea.
 
La soluzione dell’occupazione è la cessazione dell’occupazione, l’esercito di invasione torna nel suo paese, ma non è questa la situazione in Cisgiordania, né in Israele, né nella Striscia di Gaza. La parola che meglio la descrive, a mio avviso, è quella di colonizzazione, anche se sembra anacronistica nel XXI secolo. Sì, Israele colonizza la Palestina. Ha cominciato a colonizzarla alla fine del XIX secolo e ancora oggi la colonizza.
 
 
C’è un regime coloniale che impianta colonie e che controlla l’insieme della Palestina in modi diversi. Nella Striscia di Gaza, il controllo è dall’esterno. In Cisgiordania, il controllo è diverso a seconda delle zone A, B e C. La politica è ancora diversa verso i Palestinesi che vivono nei campi di rifugiati, cui Israele nega il diritto al ritorno. Impedire alle persone cacciate di ritornare nella loro terra è un altro modo di perpetuare la colonizzazione. Tutto si tiene, tutto fa parte della stessa ideologia.
 
Quindi io penso che le parole « processo di pace » e « occupazione » diano, quando le si mette insieme, la falsa impressione che l’unico modo di portare la pace tra Israele e la futura Palestina sia quella di fare uscire l’esercito israeliano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.
 
Ma l’esercito israeliano non è nella Striscia di Gaza né nella zona A. E’ anche poco presente nella zona B, dove non è necessario. Ciononostante non c’è pace in quei luoghi. La situazione è addirittura molto peggiore di prima degli Accordi di Oslo del 1993.
 
Il sedicente processo di pace ha consentito a Israele di proseguire nella colonizzazione, ma questa volta col sostegno internazionale. Suggerisco quindi di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di discutere del cambiamento delle leggi che regola la vita degli Israeliani e dei Palestinesi.
 
Penso si debba parlare di una situazione di apartheid. Bisogna parlare di pulizia etnica. Bisogna trovare qualcosa che rimpiazzi l’apartheid. Abbiamo un buon modello con l’Africa del Sud. L’unico modo di rimpiazzare l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o, almeno, uno Stato bi-nazionale. Io penso che sia questo vocabolario che bisogna mettersi a utilizzare, perché se continuiamo a usare sempre le stesse parole, continueremo a perdere il nostro tempo e sprecare le nostre forze senza cambiare la realtà sul campo.
 
MEE – Che cosa riserva il futuro al dominio militare israeliano sui Palestinesi? Vedremo un movimento di disobbedienza civile come quello di Gerusalemme nel luglio scorso?
 
IP – Io penso che avremo una disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i Palestinesi che vivono in Israele. La stessa società non accetterà per sempre questa situazione. Io non so quale forma la disobbedienza assumerà. Non si sa cosa può succedere quando le autorità non hanno una strategia chiara e gli individui decidono di combattere la loro guerra di liberazione.
 
E’ successo qualcosa di veramente impressionante a Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani ad abrogare le misure di sicurezza che avevano dispiegato a Haram al-Sharif. Penso che questo possa essere un modello per la futura resistenza. Una resistenza popolare per il futuro, che non è dappertutto ma dove c’è bisogno.
 
La resistenza popolare non cessa mai in Palestina, anche se i media non ne parlano. Gli abitanti manifestano contro il muro dell’apartheid, manifestano contro l’espropriazione delle terre, fanno scioperi della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese delle élite è sospesa.
 
 
 
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