ProfileAnalisi, 2 settembre 2018 - Chi ha detto in pubblico a Berlino nel marzo 1912 che ‘Ogni paese può accogliere solo un numero limitato di ebrei se vuole evitare guai, e che la Germania ha già troppi ebrei’ ? No, non Adolf Hitler, ma Chaïm Weizmann, il futuro Presidente dello Stato di Israele...   
 
Unz Rewiev, 6 agosto 2018 (trad.ossin)
 
Pravda statunitense. Ebrei e nazisti
Ron Unz
 
Più o meno 35 anni fa, nel mio studio all’Università, stavo leggendo il New York Times come ogni giorno, quando un articolo inatteso sul nuovo controverso Primo Ministro israeliano, Yitzhak Shamir, colpì la mia attenzione
 
 
All’epoca, la Grey Lady [Grigia Regina, soprannome del New York Times] era una pubblicazione interamente stampata in bianco e nero, sulla quale non comparivano le grandi fotografie a colori delle star del rap e le lunghe discussioni sulle diete alimentari che tanto spazio occupano nei media di oggi, e sembrava anche molto più incisiva nei suoi reportage sul Medio Oriente. Un anno prima circa, il predecessore di Shamir, Menachem Begin, aveva autorizzato il suo ministro della Difesa Ariel Sharon a invadere il Libano e mettere sotto assedio Beirut, e il massacro di donne e bambini palestinesi nei campi di Sabra e Chatila che ne seguì aveva indignato il mondo intero e suscitato la collera del governo USA. Questi fatti portarono infine alle dimissioni di Begin, e Shamir, il suo ministro degli Affari esteri, ne aveva preso il posto.
 
Prima della sua sorprendete vittoria alle elezioni del 1977, Begin aveva passato decenni in un deserto politico, perché considerato un personaggio impresentabile della destra pura, e Shamir aveva un passato ancora più estremo. I media statunitensi, nel riferire liberamente del suo coinvolgimento in ogni tipo di assassinio di alto profilo e negli attacchi terroristi degli anni 1940, lo descrivevano come un individuo assai poco raccomandabile.
 
Date le famigerate attività di Shamir, avrebbe dovuto essere difficile che qualche rivelazione su di lui mi scioccasse, ma invece fu quello che successe. Sembra che, sul finire degli anni 1930, Shamir e la sua piccola fazione sionista fossero diventati grandi ammiratori dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi e, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, abbiano ripetutamente tentato di stabilire contatti con Mussolini e i leader tedeschi, nel 1940 e 1941, sperando di potersi alleare con le Potenze dell’Asse, come affiliati della Palestina, ed avviare una campagna di attacchi e spionaggio contro le locali forze britanniche, per partecipare poi alla spartizione del bottino politico, dopo l’inevitabile vittoria di Hitler.
 
Era del tutto chiaro che il New York Times avesse un’opinione estremamente negativa di Shamir, ma mi sembra del tutto improbabile che abbia potuto pubblicare una storia tanto rimarchevole senza essere assolutamente certo della realtà dei fatti. Tra l’altro, pubblicava anche ampi stralci di lettere ufficiali indirizzate a Mussolini, nelle quali Shamir denunciava ferocemente i sistemi democratici « decadenti » di Gran Bretagna e Francia ai quali si opponeva, assicurando al Duce che siffatte ridicole nozioni politiche non avrebbero avuto alcun posto nel futuro Stato vassallo totalitario, che sperava di poter creare con il suo aiuto in Palestina. 
 
All’epoca la Germania e l’Italia erano prese da problemi geopolitici di più ampia portata e, tenuto anche conto della modesta importanza della fazione sionista di Shamir, sembra che questi tentativi non abbiano mai avuto esito. Ma l’idea che l’attuale Primo Ministro dello Stato di Israele abbia trascorso i suoi primi anni di guerra aspirando vanamente a diventare alleato dei nazisti era certamente un fatto rimarchevole, per nulla compatibile con la narrazione tradizionale che avevo fino a quel momento accettato.
 
Ancora più sorprendente è che la rivelazione del passato filo-Asse di Shamir sembri avere avuto un impatto assai modesto sulle sue fortune politiche nella società israeliana. Io penso che qualsiasi personalità politica statunitense, di cui si fosse scoperto un passato tentativo di alleanza con la Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, avrebbe enormi difficoltà a sopravvivere allo scandalo politico che ne deriverebbe, e lo stesso vale per i politici britannici, francesi e della maggior parte degli altri paesi occidentali. Ma, nonostante qualche segno di imbarazzo nella stampa israeliana, soprattutto dopo che questa notizia scioccante ha occupato le prime pagine di quella internazionale, la maggior parte degli Israeliani non se ne è preoccupata più di tanto, e Shamir è restato al potere un altro anno, ed è poi stato riconfermato per un secondo mandato, molto più lungo, di Primo Ministro dal 1986 al 1992. Gli ebrei di Israele sembravano considerare la Germania nazista molto diversamente dalla maggior parte degli Statunitensi, per non parlare della maggior parte degli ebrei statunitensi.
 
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In quello stesso periodo, anche un secondo intrigante esempio di tale prospettiva israeliana, tanto diversa a proposito dei Nazisti, è stata portata alla mia attenzione. Nel 1983, Amoz Oz, spesso considerato come il più grande romanziere di Israele, pubblicò “In Terra di Israele”, mietendo gli elogi della critica. Si trattava di una raccolta di lunghe interviste a varie personalità rappresentative della società israeliana, sia estremiste che moderate, e di reportage sui Palestinesi che vivono in quel paese.
 
Di questi profili ideologici, uno dei più brevi ma di cui si è più discusso era di una personalità politica particolarmente intransigente, anonima ma quasi universalmente identificata come Ariel Sharon, conclusione chiaramente confermata dai dettagli personali e dalla descrizione fisica fornitane. Proprio all’inizio, questo personaggio parla del fatto che la gente del suo genere ideologico era stata recentemente bollata come « giudeo-nazista» da un eminente universitario liberale israeliano, ma invece di respingere le accuse se ne rallegra. Quindi il soggetto ha finito rapidamente per essere indicato nelle discussioni pubbliche come il « giudeo-nazista ».
 
Che sia stato così soprannominato non costituisce affatto un’esagerazione, perché auspicava piuttosto gioiosamente il massacro di milioni di nemici di Israele e un’ampia estensione del territorio israeliano attraverso la conquista dei territori vicini e l’espulsione delle loro popolazioni, oltre alla libera utilizzazione di armi nucleari di fronte ad un’opposizione troppo ferma a tale tentativo. Secondo la sua opinione, gli Israeliani e gli ebrei in generale erano semplicemente troppo morbidi e mansueti e dovevano riconquistarsi il loro posto nel mondo tornando ad essere un popolo di conquistatori, probabilmente detestato ma temuto. Secondo lui, il recente massacro di donne e bambini palestinesi a Sabra et à Chatila non aveva assolutamente alcuna importanza, e l’unica cosa da rimpiangere era che fosse stato compiuto dai falangisti cristiani e non dagli stessi soldati israeliani.
 
Certo, gli eccessi retorici sono assai diffusi tra i politici, e sembra evidente che un velo di anonimato garantito scioglierebbe qualsiasi lingua. Ma c’è qualcuno che saprebbe immaginare una personalità statunitense o occidentale che si esprima in questi termini, specie dopo essere asceso alle più alte sfere politiche? In questi giorni capita che Donald Trump twitti alle due del mattino insulti grossolani conditi di errori di ortografia, e i media statunitensi sono presi dall’orrore. Ma, visto che la sua amministrazione perde come un secchiello bucato, se si vantasse abitualmente coi suoi confidenti di aspirare al massacro di milioni di persone, ne avremmo certamente sentito parlare. D’altronde non esiste alcuna prova che i primi nazisti tedeschi abbiano mai parlato in questo modo in privato, e ancor meno di fronte a un giornalista che prendeva accuratamente appunti. Ma quando si tratta dei « giudeo-nazisti » di Israele, è tutta un’altra storia.
 
Se ben rammento, l’ultima figura della vita pubblica statunitense di una certa importanza a dichiararsi « nazista » fu George Lincoln Rockwell negli anni 1960, ed era molto più un artista politico che un vero leader politico. Anche se messo ai margini, David Duke ha sempre smentito una simile accusa con veemenza. Ma sembra che in Israele le regole della vita politica siano differenti. 
 
In ogni caso le presunte dichiarazioni di Sharon sembrano avere avuto scarso impatto negativo sulla sua ulteriore carriera politica e, dopo essere rimasto un po’ ai margini della vita politica dopo il disastro del Libano, è diventato alla fine Primo Ministro dal 2001 al 2006, per quanto alla fine di questo periodo le sue opinioni venissero regolarmente denunciate come troppo morbide e troppo tendenti al compromesso, a causa della deriva senza limiti della sfera politica israeliana verso la destra più dura.
 
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Nel corso degli anni, ho talvolta tentato, senza troppa convinzione, di ritrovare l’articolo del New York Times su Shamir che mi era rimasto impresso nella memoria, ma invano, o perché esso è stato ritirato dagli archivi del Times, o più probabilmente perché le mie mediocri capacità di ricerca si sono rivelate inadeguate. Ma sono quasi certo che questo articolo era stato ispirato dalla pubblicazione, nel 1983, del libro “Il sionismo all’epoca dei dittatori” di Lenni Brenner, un antisionista di orientamento trotskista e di origine ebraica. Ho scoperto solo recentemente questo libro, che racconta una storia estremamente interessante.
 
Brenner, nato nel 1937, è stato per tutta la vita un intransigente militante di sinistra della vecchia scuola, con entusiasmi che vanno dalla rivoluzione marxista alle Black Panthers, ed è ovviamente prigioniero delle sue opinioni e della sua ideologia. A volte questo fatto altera un po’ il rigore del suo testo e le continue allusioni ai « proletari », alla « borghesia » e alle « classi capitaliste » a volte tediano, come anche la sua inconscia accettazione di tutte le convinzioni comuni al suo credo politico. Ma è probabile che solo una persona dotata di un impegno ideologico così fervente sarebbe stata pronta a dedicare tanto tempo e impegno ad un indagine su questo argomento controverso, ignorando le interminabili accuse che si è guadagnato, fino alle aggressioni fisiche da parte di militanti sionisti.
 
In ogni caso la sua documentazione sembra assolutamente inattaccabile e, pochi anni dopo la pubblicazione del suo libro, egli pubblicò un volume complementare intitolato “51 Documenti : la collaborazione sionista coi nazisti”, che fornisce semplicemente le traduzioni in inglese di tutti i documenti su cui si fonda la sua analisi, consentendo a chi ne sia interessato di leggerli e trarne da sé le conclusioni. 
 
Tra l’altro, Brenner fornisce prove importanti del fatto che la fazione sionista di destra, più importante e predominante, che sarà più tardi guidata dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin, veniva comunemente considerata negli anni 1930 come un movimento fascista, al di là della propria ammirazione per il regime italiano di Mussolini. Non si trattava affatto di un segreto all’epoca, dal momento che il suo principale giornale edito in Palestina pubblicava regolarmente le cronache di un alto responsabile ideologico sotto il titolo « Diario di un fascista ». Durante una delle più importanti conferenze internazionali sioniste, il capo della fazione, Vladimir Jabotinsky, entrò nella sala coi suoi seguaci in camicia nera e in formazione militare, cosa che spinse il presidente a vietare il porto di uniformi onde evitare delle risse, e questa fazione venne presto battuta politicamente e infine espulsa dall’unione delle organizzazioni sioniste. Questa grave battuta d’arresto si deve in gran parte all’ostilità generalizzata che il gruppo aveva suscitato dopo l’arresto di due dei suoi elementi da parte della polizia britannica, sospettati dell’omicidio di Chaïm Arlosoroff, uno dei più alti responsabili sionisti che viveva in Palestina.
 
In effetti la propensione delle fazioni sioniste più a destra per l’assassinio, il terrorismo e altre forme di comportamenti criminali era davvero notevole. Per esempio, nel 1943, Shamir organizzò l’omicidio del suo rivale, un anno dopo che i due uomini erano fuggiti insieme di prigione dove erano detenuti per una rapina in banca durante la quale erano rimasti uccisi dei passanti, ed ha affermato di avere agito per impedire l’assassinio programmato di David Ben Gourion, il più importante leader sionista e futuro Primo Ministro fondatore dello Stato di Israele. Shamir e la sua fazione hanno poi mantenuto tale attitudine criminale nel corso degli anni 1940, assassinando Lord Moyne, il ministro britannico per il Medio Oriente, e il conte Folke Bernadotte, negoziatore di pace delle Nazioni Unite, per quanto abbiano fallito nei loro tentativi di assassinare il presidente USA Harry Truman e il ministro britannico degli Affari esteri Ernest Bevin ; quanto al progetto di assassinio di Winston Churchill, sembra non sia mai andato oltre la fase della discussione. Il suo gruppo è stato anche il primo ad utilizzare delle autobombe terroriste e altri attacchi con esplosivi contro bersagli civili innocenti, molto prima che qualsiasi Arabo o musulmano abbia mai pensato di ricorrere a tattiche simili ; e la fazione sionista più grande e « moderata » di Begin ha fatto lo stesso. Tenuto conto di simili precedenti, non stupisce affatto che Shamir sia in seguito diventato direttore del reparto omicidi del Mossad israeliano dal 1955 al 1965 e, se il Mossad ha effettivamente giocato un ruolo importante nell’assassinio di John F. Kennedy, vi fu probabilmente implicato.
 
 
 
La copertina dell’edizione tascabile del 2014 del libro di Brenner mostra la medaglia commemorativa della Germania nazista per celebrare la sua alleanza coi sionisti, con una stella di David su un lato e una svastica sull’altra. Ma, curiosamente, questo medaglione simbolico non aveva alcun rapporto coi tentativi infruttuosi della piccola fazione di Shamir di organizzare un’alleanza militare coi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
 
Se i Tedeschi hanno accordato poca attenzione alle istanze di questa piccola organizzazione, tutt’altra cosa era per il movimento sionista guidato da Chaïm Weizmann e David Ben-Gourion, molto più importante e influente. E, nel corso della  maggior parte degli anni 1930, questi altri sionisti hanno organizzato un importante partenariato economico con la Germania nazista, fondato su un’evidente comunione di interessi. Dopo tutto Hitler considerava l’1% di popolazione ebraica tedesca come un elemento perturbatore e potenzialmente pericoloso del quale intendeva sbarazzarsi, e il Medio Oriente sembrava una destinazione buona quanto un’altra. In quel tempo i sionisti avevano obiettivi molto simili, e la creazione della loro nuova patria nazionale in Palestina aveva bisogno sia di immigrati ebrei che di investimenti finanziari ebraici.  
 
 
Dopo l’ascesa di Hitler alla cancelleria nel 1933, ebrei indignati di tutto il mondo subito lanciarono una campagna di boicottaggio economico, sperando così di mettere la Germania in ginocchio, col Daily Express di Londra e il suo famoso titolo a tutta pagina « La Giudea dichiara guerra alla Germania ». L’influenza politica ed economica degli ebrei era all’epoca, come anche oggi, considerevole e, negli abissi della Grande Depressione, la Germania impoverita doveva esportare per non morire, quindi un boicottaggio di grandi proporzioni delle merci tedesche costituiva una minaccia potenzialmente grave. Ma questa situazione costituì per i gruppi sionisti una eccellente occasione di offrirsi ai Tedeschi per violare l’embargo commerciale, ed ottenere condizioni favorevoli per l’esportazione, in Palestina, di prodotti manifatturieri tedeschi di alta qualità e di ebrei tedeschi. Quando la notizia di questo « Ha’avara » o « Accordo di trasferimento » coi tedeschi giunse durante una convenzione sionista nel 1933, molti ebrei e sionisti ne furono scandalizzati, e ne seguirono scissioni e controversie. Ma l’accordo economico era troppo vantaggioso per essere stracciato, ed è andato avanti e si è esteso rapidamente. L’incidenza del patto nazi-sionista sulla nascita di Israele è difficile da valutare. Secondo una analisi del 1974 di Jewish Frontier citata da Brenner, tra il 1933 e il 1939, più del 60% degli investimenti in Palestina proveniva dalla Germania nazista. L’impoverimento mondiale provocato dalla Grande Depressione aveva drasticamente ridotto il sostegno finanziario proveniente da ogni altra fonte, e Brenner ipotizza assennatamente che, senza il sostegno finanziario di Hitler, la nascente colonia ebraica, tanto piccola e fragile, avrebbe potuto facilmente avvizzire e morire in quel periodo difficile.
 
Una simile conclusione si presta a ipotesi affascinanti. Quando per la prima volta ho trovato qui e là su alcuni siti internet dei riferimenti all’accordo Ha’avara, uno dei commentatori scherzava sul fatto che, se Hitler avesse vinto la guerra, sicuramente in Israele sarebbero state erette statue in suo onore, e sarebbe stato oggi ritenuto dagli ebrei di tutto il mondo come il capo eroico dei Gentili che ha giocato un ruolo centrale nella ricostruzione di una patria nazionale per il popolo ebraico in Palestina, dopo quasi 2000 anni di amaro esilio.
 
Questa incredibile possibilità non è così assurda come potrebbe sembrare alle nostre orecchie di oggi. Dobbiamo infatti renderci conto che la nostra comprensione storica della realtà è condizionata dai media, e che questi sono controllati dai vincitori delle grandi guerre e dai loro alleati, cosicché i dettagli scomodi vengono spesso taciuti per evitare di turbare il pubblico. E’ innegabilmente vero che, nel suo libro del 1924, Mein Kampf, Hitler ha scritto ogni sorta di cose ostili e rancorose sugli ebrei, soprattutto gli immigrati più recenti venuti dall’Europa dell’est. Ma, quando lessi l’opera al liceo, rimasi sorpreso nello scoprire che questi sentimenti anti-ebraici non sembravano per nulla centrali nel suo testo. Qualche anno prima, inoltre, una personalità pubblica molto più importante, il ministro britannico Winston Churchill, aveva manifestato sentimenti quasi altrettanto ostili e rancorosi, parlando dei crimini mostruosi commessi dagli ebrei bolscevichi. Nelle “Lacrime di Isaia” di Albert Lindemann, fui sorpreso di scoprire che l’autore della famosa Dichiarazione Balfour, che sta alla base del progetto sionista, sembrava altrettanto ostile agli ebrei, e la motivazione della Dichiarazione era probabilmente in parte nel suo desiderio di mandarli via dalla Gran Bretagna.
 
Una volta consolidato il suo potere in Germania, Hitler ha rapidamente bandito tutte le altre organizzazioni politiche del popolo tedesco, e solo il partito nazista e i suoi simboli furono autorizzati dalla legge. Ma una eccezione speciale venne fatta per gli ebrei tedeschi, e il locale partito sionista ottenne pieno riconoscimento giuridico e furono anche autorizzate le manifestazioni sioniste, le uniformi e le bandiere sioniste. Con Hitler c’era una censura stretta su tutte le pubblicazioni tedesche, ma il settimanale sionista poteva essere venduto liberamente in tutte le edicole e agli angoli di strada. L’idea di base era che un partito nazional-socialista tedesco era la casa appropriata per il 99% maggioritario dei Tedeschi del paese, mentre il nazional-socialismo sionista poteva svolgere lo stesso ruolo per la minuscola minoranza ebraica.
 
Nel 1934, i dirigenti sionisti invitarono un importante ufficiale delle SS a trascorrere sei mesi nelle colonie ebraiche in Palestina e, al suo rientro, le sue impressioni molto positive sull’impresa sionista in piena espansione furono pubblicate a puntate nel Der Angriff di Joseph Goebbels, l’organo di stampa più importante del partito nazista, col titolo descrittivo « Un Nazista va in Palestina ». Nella sua veementissima critica del 1920 contro l’azione bolscevica ebraica, Churchill sostenne che il sionismo era impegnato in una competizione accanita contro il bolscevismo per guadagnarsi le simpatie della comunità ebraica europea, e che solo una sua vittoria avrebbe potuto assicurare future relazioni amichevoli tra Ebrei e Gentili. Tenuto conto delle prove disponibili, sembra che Hitler e molti altri dirigenti nazisti fossero giunti a conclusioni simili nella metà degli anni 1930.
 
In quei tempi sentimenti assai duri verso la diaspora ebraica si manifestarono talvolta in ambienti dai quali non c’era da aspettarselo. Dopo la polemica sui rapporti di Shamir coi nazisti, i documenti di Brenner sono diventati il punto di partenza di un importante articolo di Edward Mortimer, esperto di Medio Oriente dell’augusto Times of London, e l’edizione del 2014 del libro di Brenner contiene estratti dell’articolo di Mortimer pubblicato l’11 febbraio 1984 nel Times of London :
 
« Chi ha detto in pubblico a Berlino nel marzo 1912 che ‘Ogni paese può accogliere solo un numero limitato di ebrei se vule evitare guai, e che la Germania ha già troppi ebrei’ ?
 
No, non fu Adolf Hitler, ma Chaïm Weizmann, che diventerà il Presidente dell’Organizzazione sionista mondiale e, più tardi ancora, il primo Presidente dello Stato di Israele.
 
E dove si può trovare la seguente affermazione, scritta una prima volta nel 1917 ma ripubblicata nel 1936 : ‘L’ebreo è la caricatura di un essere umano normale e naturale, sia fisicamente che sul piano spirituale. Come individuo nella società, si rivolta e si libera delle catene degli obblighi sociali, e non conosce né ordine né disciplina’ ?
 
Non in  Der Stürmer [settimanale nazista] ma nell’organo dell’organizzazione della gioventù sionista, Hashomer Hatzair.
 
Come dimostrano le dichiarazioni più su citate, fu lo stesso sionismo a incoraggiare ed approfittare dell’odio di sé nella diaspora. Partiva dal principio che l’antisemitismo era inevitabile e perfino giustificato in un certo senso, fin quando gli ebrei si fossero trovati fuori dalla terra di Israele.
 
E’ vero che solo una frangia estremista lunatica del sionismo giunse al punto di proporre una partecipazione alla guerra in alleanza con la Germania nel 1941, nella speranza di potere in cambio fondare ‘lo Stato ebraico storico su una base nazionale e totalitaria, e legato con un trattato al Reich tedesco’. Purtroppo è il gruppo in cui militava l’attuale Primo Ministro di Israele ».
 
La verità scomodissima è che le severe caratterizzazioni degli ebrei della diaspora che si possono leggere nel Mein Kampf non sono così diverse da quelle espresse dai padri fondatori del sionismo e dai successivi dirigenti. La cooperazione quindi tra questi due movimenti ideologici non è quindi tanto sorprendente.
 
E tuttavia le verità scomode restano scomode. Mortimer aveva lavorato 19 anni al Times of London, gli ultimi dodici come specialista di affari esteri e redattore capo per il Medio Oriente. Ma, un anno dopo avere scritto questo articolo contenente citazioni controverse, la sua carriera in questo giornale è finita, lasciando un vuoto inconsueto nel suo curriculum, e non può trattarsi di una pura coincidenza.
 
Il ruolo di Adolf Eichmann, il cui nome figura oggi probabilmente tra i sei nazisti più famosi della storia – a causa del suo rapimento del 1960 da parte di agenti israeliani seguito da un processo pubblico e dalla sua esecuzione come criminale di guerra – pure fu abbastanza curioso. Ed Eichmann era stata una figura nazista centrale di questa alleanza coi sionisti, tanto da avere perfino studiato la lingua ebraica ed essere diventato - sembra - una sorta di filosemita, nel corso degli anni di sua collaborazione stretta coi principali dirigenti sionisti.
 
Brenner era prigioniero della sua ideologia e dei suoi pregiudizi, accettando acriticamente la narrazione storica nella quale era cresciuto. Sembrava non trovare niente di strano nel fatto che Eichmann fosse stato un partner filosemita dei sionisti ebrei alla fine degli anni 1930, e si fosse improvvisamente trasformato in un assassino di massa degli ebrei europei agli inizi degli anni  1940 commettendo volontariamente i mostruosi crimini per i quali gli Israeliani lo hanno messo a morte.
 
Un simile capovolgimento di prospettive è teoricamente possibile, ma io sono veramente scettico in proposito. Un osservatore più cinico potrebbe considerare una strana coincidenza il fatto che il primo eminente nazista per la cattura e l’esecuzione del quale gli Israeliani hanno dispiegato tante energie sia stato proprio il loro ex alleato e collaboratore politico più vicino. Dopo la sconfitta della Germania,  Eichmann era fuggito in Argentina dove era tranquillamente vissuto per diversi anni, prima che il suo nome riemergesse in una famosa controversia della metà degli anni 1950 intorno ad uno dei suoi principali partner sionisti, un alto funzionario rispettato in Israele che venne all’epoca denunciato come collaboratore dei nazisti. Questi venne alla fine assolto all’esito di un famoso processo, ma fu poi assassinato da ex esponenti della fazione di Shamir.
 
In relazione a questa polemica israeliana, Eichmann avrebbe rilasciato una lunga intervista personale ad un giornalista nazista olandese e, per quanto non fosse stata all’epoca pubblicata, la circostanza circolò e giunse alle orecchie di certe persone coinvolte. Il nuovo Stato di Israele aveva all’epoca pochi anni ed era fragilissimo sul piano politico ed economico, dipendendo disperatamente dalla buona volontà e dal sostegno degli Stati Uniti e dei donatori ebrei di tutto il mondo. La loro antica alleanza coi nazisti, assolutamente rimarchevole, era un segreto custodito gelosamente, la cui diffusione pubblica avrebbe potuto avere conseguenze assolutamente disastrose.
 
Secondo la versione che può leggersi nell’intervista pubblicata successivamente in due puntate su Life Magazine, le dichiarazioni di Eichmann non sembra abbiano trattato il soggetto mortale della collaborazione nazi-sionista degli anni 1930. Ma i leader israeliani devono essersi sentiti terrorizzati all’idea che la volta successiva avrebbero potuto non avere altrettanta fortuna. Possiamo dunque supporre che l’eliminazione di Eichmann sia diventata una priorità nazionale e per questo sia stato scovato e catturato nel 1960. Mezzi severi sono stati probabilmente usati per persuaderlo a non rivelare nessuno di quei pericolosi segreti d’anteguerra durante il processo svoltosi al Gerusalemme, e ci si può chiedere legittimamente se la ragione per cui è stato, come è noto, tenuto tutto il tempo in una gabbia di vetro stesse nella possibilità di tagliare rapidamente l’audio se avesse cominciato a deviare dal copione concordato. Tutte queste sono solo ipotesi, ma il ruolo di Eichmann come figura centrale del partenariato nazi-sionista degli anni 1930 costituisce un fatto storico indiscutibile.
 
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Come è facile immaginare, l’industria editoriale statunitense, ampiamente filo-israeliana, non era per niente desiderosa di fungere da canale pubblico delle scioccanti rivelazioni di Brenner sullo stretto partenariato economico nazi-sionista, e Brenner stesso rivela che il suo agente non ha trovato accoglienza in nessuna delle case editrici cui si era rivolto. Alla fine riuscì però a trovare un oscuro editore in Gran Bretagna, disponibile ad accettare il progetto, e il suo libro venne pubblicato nel 1983, ottenendo all’inizio solo qualche severa quanto superficiale critica, nonostante perfino l’Izvestia sovietica si fosse interessata al suo progetto, prima di scoprire che si trattava di un aborrito trotskista.
 
La notorietà è venuta dopo, quando Shamir è improvvisamente diventato Primo Ministro di Israele, e Brenner ha fornito le prove dei suoi antichi rapporti coi nazisti alla stampa palestinese di lingua inglese, che le ha pubblicate con evidenza. Diversi marxisti britannici, tra cui il tristemente celebre « Red Ken » Livingstone di Londra, gli hanno organizzato una tournée di conferenze e, quando un gruppo di militanti sionisti di destra mise in opera un attacco contro l’evento provocando dei feriti, la storia della rissa ha attirato l’attenzione anche dei media mainstream. Poco dopo, il dibattito sulle sconvolgenti scoperte di Brenner è comparsa sul Times of London e ha raggiunto anche i media internazionali. Compreso l’articolo del New York Times che aveva attirato la mia attenzione.
 
I professionisti delle pubbliche relazioni sanno assai bene minimizzare l’impatto delle rivelazioni pregiudizievoli, e le organizzazioni filo israeliane non difettano di tale competenza. Subito prima della pubblicazione del suo importante libro nel 1983, Brenner scoprì improvvisamente che un giovane autore filo sionista, Edwin Black, stava lavorando alacremente su un progetto simile, sembra sostenuto da risorse finanziarie sufficienti a mobilitare un esercito di cinquanta ricercatori che gli consentisse di portare a termine il suo progetto in tempi da record.
 
Dato che il tema imbarazzante del partenariato nazisionista era stato tenuto nascosto al pubblico per quasi cinque decenni, i tempi rapidi del progetto appaiono più che una semplice coincidenza. Si può supporre che i tanti tentativi infruttuosi di Brenner di trovare un editore importante nel 1982 siano stati conosciuti, come anche il fatto che alla fine aveva trovato un piccolo editore in Gran Bretagna. Non essendo riusciti ad impedire la pubblicazione di un documento tanto esplosivo, alcuni gruppi filo israeliani hanno discretamente deciso che la cosa migliore da fare per loro era oramai di impadronirsi del tema, consentendo la divulgazione dei pezzi della storia che non si potevano più tenere nascosti, ma eliminandone gli aspetti più pericolosi, cercando di presentare questa storia sordida sotto la migliore luce possibile.
 
Il libro di Black, The Transfer Agreement, è stato forse pubblicato un anno dopo quello di Brenner, ma è stato chiaramente sostenuto da pubblicità e risorse molto più importanti. E’ stato pubblicato da Macmillan, un editore di primo piano, era quasi due volte più voluminoso del libretto di Brenner, ed è stato fortemente sostenuto da personalità di primo piano del firmamento del militantismo ebraico, come il Centro Simon Weisenthal, il Memoriale israeliano dell’olocausto e gli Archivi ebraici statunitensi. Di conseguenza ha ricevuto lunghe recensioni, non necessariamente favorevoli, nelle pubblicazioni influenti come The New Republic e Commentary.
 
A onor del vero, devo dire che nella prefazione del suo libro Black dice che i suoi tentativi di ricerca sono stati fermamente scoraggiati da quasi tutte le persone che aveva avvicinato e che, di conseguenza, aveva dovuto lavorare da solo sul progetto, e intensamente, per molti anni. Questo fatto dovrebbe significare che l’uscita quasi simultanea dei due libri sia dovuta al caso. Ma una simile immagine non si concilia per niente con gli elogi ricevuti da tanti eminenti dirigenti ebrei e, personalmente, io trovo che l’affermazione di Brenner secondo cui Black è stato assistito da cinquanta ricercatori sia molto più convincente.
 
Siccome Black e Brenner hanno entrambi raccontato la stessa storia e hanno utilizzato molti documenti identici, per molti versi i loro libri sono simili. Ma Black esclude puntigliosamente qualsiasi menzione dell’offerta di cooperazione militare sionista ai nazisti, senza parlare dei ripetuti tentativi della fazione sionista di Shamir di allearsi ufficialmente con le potenze dell’Asse dopo lo scoppio della guerra, oltre ad altri dettagli particolarmente imbarazzanti.
 
Supponendo che il libro di Black sia stato pubblicato per le ragioni che ho più su detto, penso che la strategia posta in essere dai gruppi filo israeliani abbia avuto successo, in quanto la sua versione della storia ha rapidamente soppiantato quella di Brenner, salvo forse negli ambienti molto di sinistra o antisionisti. Cliccando qualsiasi combinazione del titolo e dell’autore su Google, il libro di Black ottiene otto volte più risultati, e le sue vendite e recensioni su Amazon sono anch’esse più o meno otto volte superiori. Più specificamente, al momento in cui scrivo questo articolo, né la voce di Wikipedia sull’Accordo di trasferimento né quella sull’accordo Ha’avara contengono il minimo riferimento alle ricerche di Brenner, anche se il suo libro è stato pubblicato per primo, è più ampio ed è il solo a fornire anche le prove documentali. A titolo di esempio personale della situazione attuale, io ignoravo completamente la storia della Ha’avara fino a qualche anno fa, quando ho letto dei commenti su alcuni siti internet che menzionavano il libro di Black, che mi hanno indotto ad acquistarlo e a leggerlo. Ma anche allora il volume ben più vasto ed esplosivo di Brenner è rimasto per me totalmente sconosciuto, fino a pochissimo tempo fa.
 
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Cominciata la Seconda Guerra Mondiale, l’idea di un partenariato nazi-sionista è rapidamente svanita per evidenti ragioni. La Germania era in guerra con l’Impero britannico, e i trasferimenti finanziari verso la Palestina sotto controllo britannico non erano più possibili. Inoltre i Palestinesi arabi erano diventati assai ostili agli immigrati ebrei, temendo fondatamente di essere espulsi e sostituiti e, una volta che i Tedeschi si sono trovati di fronte alla scelta di mantenere le loro relazioni con un movimento sionista relativamente marginale o guadagnarsi le simpatie politiche di un vasto mare di Arabi e Musulmani del Medio Oriente, la decisione venne naturale. I sionisti si trovarono di fronte ad una scelta dello stesso tipo e, in particolare, quando la propaganda cominciò a gettare fango sui governi tedesco e italiano, non ebbero più voglia di rendere pubblica la loro lunga cooperazione precedente.
 
E tuttavia, proprio in questo momento, una nuova connessione un po’ diversa, ma anch’essa da tempo dimenticata, tra ebrei e Germania apparve improvvisamente.
 
Come la maggior parte delle persone in ogni parte del mondo, anche il Tedesco medio, sia esso Ebreo o Gentile, non è probabilmente molto politicizzato e, anche se il sionismo occupava da anni una posizione privilegiata nella società tedesca, il numero di ebrei tedeschi che hanno aderito ad esso non è noto. Le decine di migliaia di persone emigrate in Palestina in quel periodo erano motivate sia da ragioni di ordine economico che ideologico. Ma la guerra ha cambiato tutto.
 
Questo soprattutto per il governo tedesco, Una guerra mondiale contro una potente coalizione degli imperi britannico e francese, cui si sono poi aggiunti la Russia sovietica e gli Stati Uniti, comportava pressioni enormi che potevano talvolta far chiudere un occhio sugli scrupoli ideologici. Qualche anno fa, ho scoperto un libro affascinante di Bryan Mark Rigg pubblicato nel 2002, I Soldati ebraici di Hitler, un rigoroso studio universitario sul tema del titolo. La qualità di questa analisi storica controversa è illustrata dalle critiche favorevoli di molti esperti universitari presenti nella quarta di copertina, e da una recensione estremamente favorevole di un eminente specialista della American Historical Review. 
 
Con ogni evidenza, l’ideologia nazista era essenzialmente centrata sulla razza e considerava la purezza razziale come un fattore cruciale di coesione nazionale. Gli individui che avevano ascendenze non esclusivamente tedesche venivano guardati con sospetto, che si accresceva in caso di meticciato ebraico. Ma in una guerra contro una coalizione che aveva una popolazione e risorse industriali molto superiori, tali scrupoli ideologici venivano in secondo piano di fronte a esigenze pratiche, e Rigg sostiene in modo convincente che circa 150 000 semi ebrei o ebrei per un quarto vennero arruolati nell’esercito del III Reich, una percentuale probabilmente non molto differente da quella presente tra la popolazione complessiva in età di ferma militare.
 
La popolazione ebraica tedesca, integrata e assimilata da tempo, è sempre stata soprattutto urbana, ricca e ben scolarizzata. Non meraviglia dunque che gran parte di questi soldati parzialmente ebrei che hanno militato nell’esercito di Hitler siano stati ufficiali piuttosto che semplici coscritti, e comprendevano almeno 15 generali e ammiragli semi ebrei, e un’altra dozzina di ebrei per un quarto, collocati negli stessi alti ranghi. L’esempio più rilevante è quello del maresciallo Erhard Milch, influente comandante in seconda di Hermann Goering, che ha svolto un ruolo operativo assai importante nella creazione della Luftwaffe. È certo che Milch era di padre ebreo e, secondo qualche affermazione molto meno certa, forse anche di madre ebrea, sebbene sua sorella fosse sposata ad un generale delle SS.
 
Certamente l’élite razziale delle SS aveva in genere obblighi di ascendenza molto più rigorosi, e anche una sola traccia di filiazione non ariana bastava di solito a impedire l’ingresso nel corpo. Ma, anche in questo caso, la situazione era talvolta complessa, stando alle numerose voci secondo cui Reinhard Heydrich, il numero due di questa potentissima organizzazione, avesse considerevoli origini ebraiche. Rigg ha indagato in proposito, senza giungere a risposte certe, sebbene tenda a credere che quelle voci potrebbero essere state utilizzate da altre personalità naziste come mezzo di pressione o di ricatto su Heydrich, che era uno dei più influenti e importanti personaggi del III Reich.
 
Altra ironia della sorte, la maggior parte di queste persone aveva una ascendenza ebraica per parte di padre e non di madre. Dunque, pur non essendo ebrei per la legge rabbinica, il loro cognome rivelava spesso l’origine semitica, sebbene in molti casi le autorità naziste abbiano fatto in modo di chiudere un occhio su questa situazione oltraggiosamente flagrante. A titolo di esempio estremo citato da un critico accademico del libro, un semi ebreo dal nome chiaramente non ariano di Werner Goldberg ebbe la sua foto in evidenza in un giornale di propaganda nazista del 1939, con una didascalia che lo presentava come «Il soldato tedesco ideale».
 
L’autore ha realizzato più di 400 interviste individuali con semi ebrei o membri della loro famiglia ancora viventi. Questi hanno abbozzato un quadro molto contraddittorio delle difficoltà incontrate durante il regime nazista, che varia enormemente a seconda delle circostanze e della personalità dei loro superiori. Una causa importante di lamentela era che, a causa del loro status, i semi ebrei si vedevano spesso rifiutare gli onori militari o le promozioni cui avevano legittimamente diritto. Tuttavia, in condizioni particolarmente favorevoli, potevano anche essere riclassificati giuridicamente nella categoria di «sangue tedesco», e questo eliminava per loro qualsiasi discriminazione.
 
Anche la politica ufficiale sembra essere stata piuttosto contraddittoria e ondeggiante. Per esempio, quando talvolta le discriminazioni patite dal genitore ebreo dei soldati semi ebrei sono state portate all’attenzione di Hitler, egli l’ha definita una situazione intollerabile, dichiarando che, o a questi familiari dovevano essere risparmiate simili discriminazioni, o tutti i semi ebrei dovevano essere esclusi dall’esercito, e infine, nell’aprile 1940, ha emesso un decreto che optava per la seconda soluzione. Tuttavia questo ordine è stato largamente ignorato da molti comandanti, o eseguito affidandosi a un sistema di dichiarazione sul proprio onore che equivaleva quasi ad un «Non domandare nulla, non rispondere a nulla», cosicché una parte considerevole di semi ebrei poté restare nell’esercito. Poi, nel luglio 1941, Hitler fece marcia indietro, promulgando un nuovo decreto che autorizzava i semi ebrei «meritevoli» che erano stati esclusi a rientrare nell’esercito come ufficiali, annunciando anche che, dopo la guerra, tutti gli ebrei per un quarto sarebbero stati riclassificati come cittadini ariani «di sangue tedesco».
 
Si dice che, di fronte a questioni sollevate sull’ascendenza ebraica di alcuni suoi subordinati, Goering avrebbe risposto con rabbia: «Sono io che decido chi è ebreo!» Questo modo di fare sembra illustrare una parte della complessità e della soggettività che caratterizzavano la situazione sociale dell’epoca.
 
È interessante notare che molti dei semi ebrei intervistati da Rigg hanno ricordato che, prima dell’ascesa al potere di Hitler, i matrimoni misti dei loro genitori avevano spesso suscitato maggiore ostilità da parte degli Ebrei che da parte dei Gentili, facendo intendere che, perfino in Germania dove erano molto assimilati, la tendenza ebraica tradizionale all’esclusività etnica era rimasta un fattore potente.
 
Per quanto i semi ebrei nel servizio militare tedesco siano stati certamente fatti oggetto di varie forme di discriminazione, bisogna forse confrontare questa situazione a quella analoga del nostro esercito, negli stessi anni, nei confronti di minoranze nere o giapponesi. All’epoca, i matrimoni inter-razziali erano legalmente vietati in gran parte degli Stati Uniti, cosicché la popolazione meticcia di questi gruppi era quasi inesistente o di origini molto differente. Ma, quando gli Statunitensi di origine giapponese vennero autorizzati a lasciare i campi di concentramento e ad arruolarsi nell’esercito, vennero tutti confinati in unità esclusivamente giapponesi, i cui ufficiali erano di solito bianchi. In quell’epoca i Neri erano quasi del tutto esclusi dal servizio di combattimento, anche se a volte venivano loro attribuiti compiti logistici strettamente riservati ai Neri. L’idea che uno Statunitense con rilevanti tracce di ascendenza africana, giapponese o anche cinese potesse diventare generale, o anche solo ufficiale, nell’esercito USA ed esercitare un potere di comando su truppe statunitensi bianche era quasi impensabile. Il contrasto con la pratica dell’esercito di Hitler è molto diverso da quello che gli Statunitensi potrebbero ingenuamente pensare.
 
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Questo paradosso non è poi così sorprendente come si potrebbe immaginare. Le divisioni non economiche nelle società europee avevano sempre seguito delle linee di demarcazione religiose, linguistiche e culturali, piuttosto che di ascendenza razziale, e una tradizione sociale più che millenaria non poteva essere certo gettata via da una mezza dozzina di anni di ideologia nazional-socialista. Nel corso di quei primi anni, un ebreo sinceramente battezzato, in Germania o altrove, era generalmente considerato un cristiano come un altro. Per esempio, Tomás de Torquemada, la figura più inquietante della temibile Inquisizione spagnola, veniva da una famiglia di ebrei convertiti.
 
Anche più evidenti diversità razziali non venivano considerate come troppo importanti. Alcuni grandi esponenti di talune culture nazionali, come il russo Aleksandr Puskin e il francese Alexandre Dumas, avevano rilevanti ascendenze nere, e la cosa non costituiva una caratteristica discriminante.
 
Per contro, la società statunitense, fin dalle origini, è stata sempre divisa per razza, mentre altre differenze costituivano ostacoli molto meno importanti per i matrimoni misti e la promiscuità. Ho letto affermazioni molto condivise secondo cui, quando il III Reich ha elaborato le leggi di Norimberga del 1935 che limitavano i matrimoni e le altre relazioni tra ariani, non ariani e mezzo-ariani, i suoi esperti avrebbero tratto ispirazione dalla lunga esperienza giuridica statunitense, e la cosa appare del tutto plausibile. In base a questa nuova legge nazista, i matrimoni misti preesistenti godevano di una certa protezione giuridica, ma da allora in poi gli ebrei e i semi ebrei avrebbero potuto sposarsi solo tra di loro, mentre gli ebrei per un quarto potevano sposare solo ariani normali. L’evidente intenzione era di assorbire quest’ultimo gruppo nella società tedesca dominante, isolando invece la popolazione più nettamente ebraica.
 
Ironia della sorte, Israele è oggi uno dei pochi paesi ad avere simili criteri strettamente razziali per la concessione della cittadinanza e di altri privilegi, giacché la politica di immigrazione esclusivamente ebraica è oramai spesso determinata da test del DNA, e i matrimoni tra ebrei e non ebrei sono legalmente vietati. Qualche anno fa, i media di tutto il mondo hanno raccontato la storia rimarchevole di un Arabo palestinese condannato per stupro, avendo intrattenuto rapporti sessuali consensuali con una donna ebrea, alla quale aveva falsamente detto di essere un ebreo.
 
Siccome il giudaismo ortodosso si fonda strettamente sulla discendenza matrilineare e ad esso si ispira la legislazione israeliana, anche ebrei di altri rami possono incontrare difficoltà inattese a causa del conflitto tra la loro identità etnica personale e il loro statuto giuridico ufficiale. La gran parte delle famiglie ebree più ricche ed influenti del mondo non seguono le tradizioni ebraiche ortodosse e, di generazione in generazione, vi sono spesso stati matrimoni con donne pagane. E, anche se queste ultime si sono convertite al giudaismo, le loro conversioni vengono considerate invalide dal rabbinato ortodosso e nessuno dei loro discendenti viene considerato ebreo. Quando qualche appartenente a tali famiglie sviluppa un profondo impegno verso la propria eredità ebraica e emigra in Israele, resta talvolta scandalizzato nello scoprire di essere ufficialmente classificato come « goyim » in virtù della legge ortodossa e che la legge impedisce loro di sposare degli ebrei. Controversie politiche importanti sul tema scoppiano periodicamente e vengono talvolta ripresi dai media internazionali.
 
A me sembra evidente che qualsiasi funzionario statunitense che proponesse dei test del DNA razziali per decidere l’ammissione o l’esclusione di potenziali immigrati faticherebbe a conservare il posto, e gli attivisti ebrei di organizzazioni come l’Anti-Defamation League (ADL) sarebbero probabilmente i primi a denunciarlo. E lo stesso vale per qualsiasi procuratore o giudice che spedisse un non Bianco in prigione per il delitto di «essersi fatto passare» per Bianco e così essere riuscito a sedurre donne di questo gruppo razziale. Un destino simile colpirebbe i fautori di simili politiche in Gran Bretagna, in Francia o nella maggior parte degli altri paesi occidentali, con le organizzazioni locali del tipo ADL che svolgerebbero certamente un ruolo importante nelle campagne di denuncia di queste politiche razziste. Invece, quando si tratta di Israele, l’esistenza di leggi di questo tipo provoca solo un temporaneo imbarazzo quando se ne parla nei media internazionali, ed esse restano invariate quando l’agitazione si calma e prevale l’oblio. Simili problemi vengono considerati trascurabili, almeno quanto lo furono le relazioni coi nazisti del Primo Ministro israeliano lungo tutti gli anni 1980.
 
Ma forse la ragione di questa asimmetria sconcertante nelle reazioni del pubblico si trova in una vecchia barzelletta. Uno spiritoso uomo di sinistra ha detto una volta che la ragione per la quale gli USA non avevano mai subito un colpo di Stato militare è che si tratta dell’unico paese al mondo che non ha una ambasciata USA che lo organizzi. E, al contrario degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e di molti altri paesi a maggioranza bianchi, Israele non ha una potente organizzazione ebraica che svolga il ruolo dell’ADL.
 
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Negli ultimi anni molti osservatori hanno notato una situazione altrettanto strana in Ucraina. In questo sfortunato paese operano potenti gruppi militanti, i cui pubblici simboli, l’ideologia dichiarata e l’ascendenza politica li identificano chiaramente come neonazisti. Ciononostante, questi elementi neonazisti violenti sono tutti finanziati e controllati da un oligarca ebreo che ha la doppia cittadinanza israeliana. Inoltre questa alleanza è stata mediatizzata e benedetta da alcune delle più importanti personalità ebraiche statunitensi, come Victoria Nuland, che hanno utilizzato con successo la loro influenza sui media per mantenere questi fatti esplosivi sconosciuti al pubblico statunitense.
 
A prima vista, una stretta relazione tra ebrei israeliani e neonazisti europei mi è sembrato un cattivo matrimonio, inimmaginabilmente grottesco e bizzarro, ma dopo aver letto recentemente l’affascinante opera di Brenner, il mio punto di vista è mutato. Infatti la principale differenza tra quell’epoca e quella attuale è che, negli anni 1930, le fazioni sioniste rappresentavano l’insignificante ala minoritaria di un potente III Reich, mentre oggi sono i nazisti a svolgere il ruolo di supplici ferventi della potenza formidabile del sionismo internazionale, che domina il sistema politico statunitense e, per suo tramite, una gran parte del mondo.
 
 
 
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