Inchiesta, maggio 2015 - La precarietà in cui vive buona parte dei giovani africani potrebbe fare della gioventù del continente il simbolo della insicurezza umana. Difficile analizzare i flussi migratori senza tenere conto di questa dimensione del mondo reale


La Revue géopolitique, 3 maggio 2015 (trad.ossin)


Essere giovani in Africa. Geopolitica di uno tsunami

Jean-Jacques Konadje (*)


La precarietà in cui vive buona parte dei giovani africani potrebbe fare della gioventù del continente il simbolo della insicurezza umana. Difficile analizzare i flussi migratori senza tenere conto di questa dimensione del mondo reale


Che significa essere giovani in Africa?

Ecco una domanda cui è difficile rispondere con obiettività, tanto la problematica della gioventù sul continente africano è allo stesso tempo complessa e delicata. Se, secondo l’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU), vengono considerati universalmente e convenzionalmente come “giovani” tutti gli appartenenti alla fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni, questa definizione non sembra corrispondere alle realtà sociali e sociologiche dell’Africa. E’ la ragione per cui la carta africana della gioventù dell’Unione Africana (UA) definisce “gioventù” la fascia di popolazione africana compresa tra i 15 e i 35 anni.

Nonostante questa flessibilità semantica, la problematica della gioventù resta difficile da circoscrivere. E a buona ragione; in alcuni paesi africani sono molti i leader o i rappresentanti di movimenti o associazioni giovanili che hanno superato largamente i quaranta. Non è raro nemmeno che, in alcuni partiti politici, alcuni militanti di 50 anni passati si facciano chiamare “ragazzi” o si approprino abusivamente della qualifica di “giovani lupi” o “giovani falchi”. Questa gerontocrazia non riconosciuta crea una confusione generazionale che si traduce talvolta in un vero imbroglio, in relazione al posizionamento reale di ciò che davvero rappresenta la vera gioventù in questi paesi africani.

L’analisi di queste realtà suggerisce puramente e semplicemente che, nel Nord come nel Sud, o ancora, a Est e a Ovest in Africa, la gioventù africana viva, complessivamente e in certa misura, all’insegna della disoccupazione, violenza, disperazione, ozio, precarietà, avventura, illusione, analfabetismo, analfabetismo funzionale e istruzione carente, per citare solo queste situazioni che costituiscono il loro comune denominatore e ritmano il loro quotidiano. Una vera e propria bomba ad effetto ritardato che dovrà essere oggetto di un’attenzione particolare ed essere disinnescata il più rapidamente possibile attraverso progetti innovativi, dinamici e concreti, che siano in sintonia coi tempi. Deve infatti riconoscersi che, nonostante tanti sforzi, nei 54 anni seguiti alle indipendenze dei paesi africani, il continente è stato teatro di ogni sorta di rivoluzioni (spesso sanguinose e qualche volta tragiche), salvo quella delle mentalità. E il risultato è che sempre più “i sistemi educativi presentano problemi, le scuole hanno perso il senso del loro ritmo, le Università sono diventate l’ombra di se stesse, le biblioteche, quando esistono, sono obsolete e si instaurata una durevole situazione di crisi, e i giovani continuano a cercare il loro posto tra violenze urbane e sogni di emigrazione” (1)

Questa gioventù, alla perpetua ricerca di un avvenire migliore, si scontra con un certo numero di dati reali che fanno perdere ogni speranza.

Questo articolo è una riflessione globale su quanto vive e sopporta una grande maggioranza della gioventù africana. E’ questione che merita di essere oggetto di approfonditi studi calibrati su ciascun paese, tenendo conto di un certo numero di fattori e di determinanti, come la storia, la cultura e il contesto geopolitico nel quale si muove la popolazione oggetto di analisi.


I.    Una maggioranza silenziosa spettatrice della disperazione quotidiana

L’Africa è, vista da lontano, la regione più giovane del mondo, in termini di popolazione. Secondo le ultime rilevazioni delle Nazioni Unite, la gioventù africana rappresenta più del 60% della popolazione globale del continente e un po’ più del 40% della popolazione attiva. Dal punto di vista matematico, i giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni sono 200 milioni sul continente. Nei prossimi venti anni si raggiungerà la cifra di 340 milioni di giovani in Africa.

Considerati, più o meno e in termini teorici, come le forze vive della nazione, nei loro rispettivi paesi, dai governi o dagli uomini politici, i giovani africani, per le loro aspirazioni, la loro visione del mondo e il loro numero, dovrebbero costituire oggi una posta importante e strategica per la stabilità e lo sviluppo dei loro paesi e, in termini generali, del continente.

Si deve constatare il contrario. Invece di essere una fonte di opportunità per emancipare il continente dalla povertà che affligge certe parti dell’Africa, la gioventù africana costituisce nel suo insieme una vera bomba a scoppio ritardato. Eppure, nel continente, non sono certo le iniziative rivolte alla gioventù che mancano. In ciascun paese, i Ministeri della gioventù fanno a gara con programmi o segretariati di Stato incaricati delle politiche per la gioventù. Su scala regionale e a livello continentale, vengono redatti e confermati documenti altamente strategici che mirano alla promozione dei giovani. Malauguratamente nessuna di queste iniziative produce effetti concreti. Le numerose risoluzioni e raccomandazioni con cui si concludono conferenze e seminari sulla situazione della gioventù africana si succedono senza mai riuscire ad innescare una dinamica di cambiamento nella vita quotidiana dei giovani in Africa. La colpa di questa situazione è dei governi africani o degli stessi giovani? Una cosa è certa, la frustrazione che i giovani del continente rimuginano è tale che non è una esagerazione affermare che la gioventù africana assomiglia a un tsunami silenzioso che occorre, fin da subito, canalizzare.

E’ vero che in Africa alcuni giovani riescono a tirarsi fuori da questa situazione e si impongono come modelli di successo in diversi campi. Ma quanti sono, a confronto di questa maggioranza silenziosa rappresentata da milioni di giovani africani che, stanchi di tanta depressione, finiscono col diventare semplici spettatori della disperazione quotidiana? Questo senso di disperazione è tanto più inquietante, nella misura in cui la stagnante situazione socio-economica dei paesi africani contribuisce a spingere i giovani in un circolo vizioso che li priva di ogni prospettiva. La realtà quotidiana, con cui i giovani devono sistematicamente confrontarsi, li rinchiude spesso in una dimensione in cui possono occuparsi solo della cura dell’immediato. Essi sono costantemente sopraffatti dalle urgenze e dalle necessità, in tale misura che le loro potenzialità vengono male sfruttate e sottoutilizzate. Per esempio, in Costa d’Avorio, migliaia di giovani laureati devono perdere tempo a fare lavoretti per sopravvivere: guardie giurate, gestori di cabine telefoniche, venditori di sigarette, donne di servizio. Attività che finiscono per ingenerare in loro un senso di insicurezza e una sottovalutazione. Alla lunga questa situazione può creare il senso di una mancanza di considerazione e di riconoscimento da parte dei dirigenti del paese nei loro confronti. .

Ebbene, come sostiene Jacques Nanema, “per creare sviluppo, vale a dire sbocciare in modo poliforme e polifonico, tradurre le proprie inclinazioni naturali e le potenzialità in realtà effettive sul piano spirituale, intellettuale, morale e fisico, un uomo o un popolo hanno bisogno, oltre che delle condizioni materiali, tecniche e politiche, anche di una certa fiducia in se stessi e della considerazione altrui”. Il riconoscimento sociale cui tanto aspirano i giovani africani, non è solo, come diceva C. Taylor, una gentilezza che viene concessa. E’ un bisogno umano vitale, giacché il disconoscimento o un riconoscimento inadeguato, possono fare torti e costituire una forma di oppressione, imprigionando alcuni in modi di essere falsi, deformati e riduttivi (2).

Nei paesi del Sahel, la disperazione dei giovani si traduce in una forte migrazione, il più delle volte clandestina. In Senegal, per esempio, il celebre detto wolof “Barça Wala Barsax” (3), adattato negli ambienti giovanili, soprattutto dei candidati alla emigrazione clandestina, significa letteralmente “vivere a Barcellona o morire”. In altri termini, come alternativa alla emigrazione a Barcellona, i giovani senegalesi preferiscono la morte. Spiace constatare che alcuni genitori o capi delle comunità senegalesi incoraggino i loro figli a imbarcarsi in queste avventure senza futuro, che assomigliano sempre di più a dei suicidi collettivi.
“Disperati per l’assenza totale di prospettive nel loro paese, questi giovani scelgono di sfidare il mare per raggiungere l’eldorado europeo, che non raggiungono mai davvero, nemmeno quando riescono a toccarne le rive”. Per grandi linee possiamo dire che la precarietà nella quale vivono molti giovani africani potrebbe fare della gioventù del continente il simbolo primo della insicurezza umana.


II.    Il simbolo primo della insicurezza umana

Non si può parlare della insicurezza umana, se non si parla prima della sicurezza umana, concetto innovativo delle scienze politiche che pone l’individuo al centro di ogni dispositivo di sicurezza, qualsiasi sia il paese di riferimento. Jean-François Rioux definisce la sicurezza umana a partire dalla insicurezza, e soprattutto considerandola come “l’insieme delle minacce politiche, economiche, sociali, ambientali e culturali con le quali gli individui devono confrontarsi nella vita quotidiana e che mettono soprattutto in pericolo i loro bisogni primari di sicurezza. La sicurezza umana va quindi più specificamente considerata in termini di sviluppo e di rispetto dei diritti umani” (4). Da quanto precede, se la sicurezza umana consiste grosso modo nel fatto di vivere al riparo della paura e del bisogno, consegue in modo evidente che questa nozione è radicalmente opposta alle realtà vissute dalla grande maggioranza della gioventù africana.

Preoccupati e angosciati da un futuro incerto e corrotti da un presente fatto di ozio, le realtà quotidiane cui i giovani africani sono confrontati simboleggiano l’insicurezza umana. L’alto tasso di disoccupazione presente in queste popolazioni le rende più che mai vulnerabili e le espone a molte difficoltà.

Se, a causa delle primavere arabe, oggi l’Africa del Nord viene considerata come la regione col più alto tasso di disoccupazione al mondo, occorre rimarcare che, nella parte subsahariana del continente, ci sono tra i 10 e i 12 milioni di giovani diplomati che si affacciano ogni anno, senza successo, sul mercato del lavoro. Una triste realtà che pone domande e, soprattutto, farebbe intendere che le Università e le grandi scuole africane non sono altro che fabbriche di disoccupati. E’ evidente la disparità tra offerta e domanda di lavoro e, soprattutto, il divario tra le formazioni che vengono proposte e i bisogni del mercato del lavoro. I paesi che escono da grandi crisi o da conflitti armati sono i più toccati da questa situazione di disoccupazione giovanile.

La situazione dei giovani africani potrebbe simboleggiare l’insicurezza umana, nel senso che essi vivono in uno stato di paura permanente e si trovano regolarmente in stato di bisogno. Si potrebbe perfino essere tentati di dire che l’espressione “gioventù” è associata ai giorni nostri, nell’immaginario collettivo, alla vulnerabilità. In effetti “… fino a 40 anni e più, si può essere giovani, soprattutto se si è disoccupati o se gli studi universitari avviati da lungo tempo diventano interminabili (…) Così, fino a quando una persona resta vulnerabile a causa della sua situazione economica, sociale o familiare, potrà sempre giocare il ruolo del giovane”.

Di fronte all’incapacità del settore pubblico di creare nuovi sbocchi e della mancanza di dinamismo del settore privato, incapace di assorbire la mano d’opera che ogni anno si affaccia sul mercato africano del lavoro, potremmo concludere che, se non si farà niente, la disoccupazione dei giovani esploderà ancora di più nei prossimi anni. Dal 1999 al 2009, il numero dei giovani diplomati africani è passato da 1,6 milioni a 4,9 milioni. Si prevede che essi saranno circa 9,6 milioni nel 2020 e si avvicinerà ai 13 milioni nel 2030, se non si troverà alcuna soluzione. Il sotto-impiego dei giovani, che in realtà è un’altra forma di disoccupazione, raggiunge in Africa tassi altissimi. In alcuni paesi raggiunge l’80%. Per esempio nelle grandi città, la quasi totalità dei giovani lavora in nero. Svolgono attività spesso precarie e a debole produttività. “Guadagnano meno del salario minimo e non sono in grado di assicurare alla loro famiglia decenti condizioni di vita. Sono quindi poverissimi e molto esposti al rischio, tenuto conto delle condizioni in cui vivono e lavorano”. Nemmeno i giovani che vivono nelle zone rurali non sfuggono a questa triste realtà. Nella maggior parte dei casi, lavorano nel settore agricolo con mezzi rudimentali e strumenti tradizionali, e ciò li rende meno produttivi. Molto spesso è per sfuggire a questa vita difficile che la maggior parte dei giovani cade nella spirale della violenza.


III.    Una fonte di violenza simbolica

A forza di vivere in condizioni di estrema povertà, migliaia di giovani africani finiscono con l’imboccare sentieri o scorciatoie, che permettono loro di affermare la loro esistenza e di sopravvivere. La violenza è la strada attraverso la quale questi giovani decidono di farsi ascoltare. Infatti, a causa della loro situazione sociale ed economica precaria e a causa delle cupe prospettive dell’ avvenire, i giovani africani partecipano il più delle volte, direttamente o indirettamente, alle varie rivolte o ribellioni che nascono e prendono forma nel continente. In realtà, quando non sono considerati come attori disperati della violenza, appaiono come una riserva a disposizione di manipolatori politici, avidi di potere o si presentano ancora nelle vesti di miliziani, in cerca di sopravvivenza economica.

E’ questa realtà che fa dire a Tanella Boni che “… molti giovani, in balia degli avvenimenti, inventano ogni sorta di strategia per sopravvivere, fino a sfidare la morte”. (5) A causa della loro situazione socio-professionale precaria, questi giovani ritengono di non avere più nulla da perdere e sono pronti a tentare il tutto per tutto. Perché, come sogliono dire gli stessi giovani in Costa d’Avorio: “Quando si è mangiata la testa, non sono le narici che possono spaventarci”. Un modo di dire che non può esservi nulla di peggio della situazione che vivono al momento.

La violenza simbolica dei giovani si manifesta quindi nei campus universitari. Durante gli scioperi, questi templi del sapere si trasformano in campi di battaglia. Non è raro che le forze dell’ordine intervengano o che gli studenti si affrontino tra loro. La militanza sindacale in ambiente universitario, che in alcuni paesi africani è l’anticamera della vita politica, si accompagna ad un certo tasso di violenza. A titolo di esempio, “nella seconda metà degli anni 1990, le armi fecero la loro apparizione nei campus, a Abidjan e a Bouaké. Si crearono dei clan all’interno della FESCI e i contrasti vennero regolati a colpi di machete. Questi clan, occorre dirlo, erano emanazione di forze politiche antagoniste che controllavano i campus universitari. Gli insegnati erano sempre più minacciati, malmenati, perfino bastonati dagli studenti della FESCI (6).

In mancanza di punti di riferimento, i giovani disoccupati o sotto impiegati non esitano a impegnarsi nelle guerre civili che scoppiano in tanti paesi africani. D’altro canto, secondo un’inchiesta della Banca Mondiale, quasi il 40% di coloro che si arruolano nei movimenti ribelli e terroristi sono giovani senza lavoro. Questa inchiesta ricorda un’analisi di Stergios Skaperdas che dimostra come “un individuo che decida di impegnarsi in un’attività sociale violenta o in una ribellione abbandona la propria funzione produttiva (se esiste) a scapito di una funzione di appropriazione. E’ evidente che la sua scelta si iscrive in un contesto preciso perché gli individui evolvono in un contesto restrittivo, spesso caratterizzato da povertà e repressione. Scelgono quindi un’attività che realizzi l’obiettivo di assolvere i loro desideri predatori, e di assicurare la loro sopravvivenza fisica ed economica”. (7) In altri termini, la decisione di arruolarsi in una forza ribelle si realizza sulla base di un calcolo costi/benefici. Si può dunque prevedere che, se l’attività di ribellione rappresenta l’opzione più vantaggiosa per un giovane, allora sarà questa la scelta.

In Africa del Nord, il maremoto provocato dal sollevamento dei giovani arabi si è trasformato in quello che viene oramai comunemente chiamato primavera araba (2011-). “Questi giovani istruiti e spesso diplomati, costretti a confrontarsi con la disoccupazione, il nepotismo e l’incapacità dei vecchi dittatori a garantire loro un futuro, non ha mai creduto che qualche rondine elettorale potesse fare una primavera democratica. Stanchi delle promesse non mantenute e dei piani di sviluppo provenienti dall’estero, col pretesto di un co-sviluppo, i giovani arabi hanno capito che non vi sarebbe stata giustizia sociale e divisione equa di ricchezza, senza una democrazia reale…” (8) Nelle capitali e nei grandi agglomerati africani, a forza di non fare niente, alcuni giovani finiscono per diventare delinquenti. Molti studi in materia di sicurezza interna dimostrano d’altronde che il tasso di criminalità di una società è influenzato da quello di disoccupazione dei giovani con meno di 24 anni. In Costa d’Avorio,   il fenomeno dei “microbes” (bande criminali di giovani tra i 10 e i 17 anni), sorto all’indomani della crisi post-elettorale e che ha assunto proporzioni inquietanti, in alcuni comuni del distretto di Abidjan contribuisce a creare un clima di insicurezza e una psicosi generalizzata. Anche la cyber-criminalità, comunemente chiamata in Costa d’Avorio “broutage” (creazione di false identità informatiche per stabilire relazioni con le vittime, cui scucire del denaro, ndt), è diventata un flagello di proporzioni inquietanti. Invece di andare a scuola, i giovani, spesso di appena 16 anni, il cui unico obiettivo è di truffare qualcuno in internet, prendono d’assalto i cyber-caffè nei quartieri popolari delle capitali africane. Vivendo in un mondo sfasato, i loro unici modelli di successo sono coloro che hanno fatto fortuna con le truffe internet.


Conclusioni

I giovani africani di oggi rappresentano l’Africa di domani. E’ dunque impensabile pensare al futuro dell’Africa senza tener conto delle realtà cui la gioventù di oggi è posta di fronte. Essendo globale e generale, la problematica della gioventù africana deve essere colta in una prospettiva olistica. Ciò vuol dire che deve essere analizzata a tutti i livelli della società e deve essere iscritta in una dinamica prospettiva. Non sapremmo concludere queste note senza fare delle raccomandazioni, che a nostro umile avviso dovrebbero essere tenute in conto nella ricerca di soluzioni:

Ai governi africani: Dare di più la parola ai giovani, affinché possano esprimere il loro punto di vista sulle diverse politiche di inserimento socio-professionale elaborate per loro. All’uopo è urgente convocare Stati generali della gioventù nei diversi paesi africani. Questa iniziativa certamente permetterà di cogliere meglio le preoccupazioni dei giovani.

Agli intellettuali africani: è più che urgente trovare un nuovo approccio ai problemi relativi ai giovani africani. Infatti tali problemi sono multidimensionali e multisettoriali, cosicché solo un approccio multidisciplinare può affrontarli in modo esauriente.

Alle imprese del settore privato: L’auto-imprenditorialità dovrà essere oggetto di ampie campagne di sensibilizzazione tra i giovani. E’ quindi importante mettere in evidenza i modelli di successo nel campo dell’imprenditorialità, per motivare i giovani a seguirli.

Alle figure emblematiche di successo: Trasformare la barriera intergenerazionale in dialogo intergenerazionale, istaurando un sistema di padrinato tra i giovani e le persone di 2° e 3° età. E’ a queste condizioni che si potrà contribuire alla condivisione del successo da una generazione all’altra.

Ai giovani africani: Suscitare in essi il desiderio di un cambiamento pacifico attraverso una volontà di agire insieme (sogno comune)

Seguire queste raccomandazioni contribuirà ad aiutare i giovani a riprendere fiducia nel loro futuro e a dare loro i mezzi e gli strumenti necessari, permettendo loro di diventare veri e propri attori della società sul piano sociale ed economico, ritrovando anche dei valori che potranno loro permettere di giocare un ruolo di primo piano nei loro diversi paesi.


Note:

[1] - Boni Tanella, « Des jeunes en quête d’avenir » in 50 ans après, Quelle indépendance pour l’Afrique, Parigi, Ed. Philippe Rey, 2010, p. 53

[2] - Charles Taylor, Multiculturalisme, différence et Démocratie, Parigi, Ed. Aubier, 1994

[3] – Diminutivo della città di Barcellona

[4] - Rioux, Jean-François dir, La sécurité humaine : une nouvelle conception des relations internationales, Parigi, l’Harmattan, 2001

[5] - Boni Tanella, Op.cit, P. 54

[6] - Idem, P. 65

[7] - Skaperdas Stergios, 2001, An Economic Approach to analysing civil wars. Presentation at the workshop on civil and post-conflict transitions sponsored by the world bank and Center for global and conflict studies. University of California. Irvine.

[8] - Nadia Hamour e Mohammed Abdi, « Les leçons du printemps arabe », in www.lemonde.fr (Articolo pubblicato il 9 marzo 2011).



(*) Dottore in Scienze Politiche, consulente in geopolitica e relazioni internazionali, esperto in mantenimento della pace, poi specialista in difesa e sociologia militare. Insegna all’Università di Rouen

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