Bambini palestinesi nelle prigioni israeliane
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Afrique Asie luglio-agosto 2009
In violazione di tutte le leggi internazionali, soprattutto quelle di protezione dell’infanzia, l’esercito israeliano non esita ad arrestare, torturare, giudicare sommariamente e imprigionare gli adolescenti palestinesi. La legge militare israeliana permette di condannarli anche all’ergastolo
Bambini palestinesi nelle prigioni israeliane
di Victoria Brittain
Palestina occupata. Mohammad aveva 14 anni quando è stato detenuto nella prigione militare israeliana di Ofer, in Cisgiordania. Era il più giovane della prigione. Gli altri prigionieri si sono presi cura di lui e l’hanno sistemato in una tenda con tre uomini del suo villaggio. Era l’unico che non aveva bisogno di iscriversi al torneo di ping-pong e di volley-ball. “Potevo giocare ogni volta che ne avevo voglia”. Quando è uscito dalla prigione alla vigilia degli esami, dopo quattro mesi e mezzo di assenza dalla scuola, è stato un’altra volta aiutato. “Il professore mi ha detto di non preoccuparmi, di mettere solo il mio nome, di scrivere qualche cosa, e che avrei avuto lo stesso giudizio che avevo avuto il primo semestre”.
Dignità di fronte alle avversità
La storia del brutale arresto di Mohammad, nel grazioso villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, non lontano dal muro dell’apartheid, rappresenta bene quello che Israele fa in Palestina per distruggere il futuro. La confisca delle terre e dei mezzi di sussistenza, l’estensione delle colonie, la chiusura delle strade e le umiliazioni costanti praticate dai giovani soldati israeliani sono lo sfondo di quello che sarà il destino della prossima generazione: corsi scolastici interrotti, arresti militari illegali, torture e maltrattamenti dei bambini palestinesi per spezzarne la volontà o farne dei collaboratori. A tutt’oggi, 391 bambini sono tenuti in prigione dai militari, tra cui sei bambine e due bambini in detenzione amministrativa illimitata.
Ma Mohammad e la sua famiglia testimoniano anche un’altra realtà: la dignità di una famiglia molto unita con dei figli amati, lavoratori, desiderosi di istruzione, delle case impeccabili e giardini di frutti e di fiori, che non si fanno travolgere dall’amarezza e dalla disperazione dopo la perdita del lavoro da parte del padre in Israele, il furto delle terre del villaggio, gli arresti continui dei giovani, la minacciosa estensione delle colonie sulle colline.
Biddu è situata a qualche chilometro a est della frontiera del 1967. Le sue terre e quelle di dieci altri villaggi costeggiano il “corridoio di Gerusalemme”che conduce alla fila di tetti rossi della colonia di Givat Zeev, vicino a Ramallah. Lontano, all’interno della Cisgiordania, dove i Palestinesi sono considerati come un’entità trascurabile, addirittura non umana, da una popolazione di coloni aggressivi, isolati da strade costruite sulle terre palestinesi e il Muro che si allunga come un serpente nel paesaggio.
Il giorno che la vita di Mohammad è cambiata, una bella giornata di febbraio, c’era uno sciopero a scuola. Lui era andato a giocare a calcio con gli amici in collina. Ha notato un gruppo di stranieri nel villaggio, vestiti in abiti civili, ed ha capito, mentre si dirigevano verso di loro gridando di non muoversi, che appartenevano alle forze speciali israeliane. Mohammad era il più vicino a loro. Quando gli altri ragazzi si sono messi a correre, gli uomini lo hanno acchiappato, colpito alla testa col fucile e gettato a terra. “Mi hanno irrorato il viso di gas e mi hanno calpestato. Mi hanno messo le manette e mi hanno fatto camminare fino al Muro, sulla collina vicina”, racconta. Lo hanno costretto a restare contro il Muro con gli occhi bendati. Poi è sopraggiunta una jeep dell’esercito ed è stato condotto al centro di interrogatorio di Atarot, con la testa sanguinante, seduto tra le gambe dei soldati, le mani legate sulla schiena e picchiato ogni volta che la benda cadeva.
Nel corso dell’interrogatorio, le manette di plastica sostituite da altre di metallo allacciate davanti, il soldato gli ha chiesto ripetutamente se avesse gettato delle pietre contro il Muro nei giorni precedenti. Quando lui ha negato, sostenendo che i ragazzi che avevano fatto questo non erano neppure suoi amici, il soldato gli ha detto che era un bugiardo, ha scritto qualcosa su un foglio, obbligando Mohammad a firmarlo, assicurandogli che sarebbe tornato a casa. Il soldato gli ha chiesto il numero di telefono di suo padre, lo ha chiamato dicendogli di non preoccuparsi, che Mohammad stava per rientrare. Mohammad ha firmato il foglio scritto in lingua ebraica. “Adesso vai in prigione” gli ha detto a questo punto il soldato. “Io non capivo che cosa stava succedendo, pensavo che sarei tornato a casa!”
Mohammad si è sentito male ed è svenuto. E’ stato condotto in ospedale e poi trasferito alla prigione di Ofer dopo essere rimasto sette ore chiuso in macchina, mani e piedi legati. Quando si addormentava, lo picchiavano. Una volta giunto in prigione, vestito con l’uniforme di prigioniero e presentato ai Palestinesi responsabili della sua sezione, tutto è cambiato. “Ero il più giovane e sono stato molto coccolato. Mi davano tutto quello che volevo”. Ma per quanto i suoi compagni fossero molto gentili con lui, la convivenza con ventidue uomini nella stessa tenda a il cibo “disgustoso” alimentavano sempre il desiderio di tornare a casa sua. “Ero tristissimo, non avevo mai dormito fuori casa”.
Nel corso delle settimane seguenti, Mohammad ha conosciuto altre due prigioni militari israeliane e tre udienze in tribunale. Suo padre l’ha visto due volte in tribunale, e durante un’udienza ha tentato di rappresentare il figlio. “Non è un bugiardo, non ha gettato le pietre, non è che un bambino, rilasciatelo!”, ha gridato.
La terza volta un avvocato della Defence of Children Intarnational (DCI) ha difeso Mohammad e gli ha consigliato di confessare per ottenere una pena ridotta ed essere condannato “solo” a quattro mesi di prigione.
Stato di non diritto
Uno degli avvocati della DCI ha spiegato che il 95% dei suoi clienti sono rilasciati dichiarandosi colpevoli anche quando non è vero, soprattutto dopo confessioni forzate. “Sono le famiglie stesse a chiederlo. Sanno che riconoscersi colpevoli consente di ottenere una pena molto meno grave. La condanna dipende dall’età del bambino al momento del giudizio, non a quello del fatto. Per questo cerchiamo sempre di accelerare le procedure. Noi contestiamo la legge militare che consente di trattenere i minori in prigione per novanta giorni senza avvocato e 180 giorni senza capo di imputazione. Possono condannare un minore di 14 anni a novantanove anni di prigione, una condanna a vita. Possono tenere i minori in celle di isolamento. Così vi sono molti tentativi di suicidio. La cosa peggiore è la detenzione amministrativa, quando le prove contro il bambino sono segrete e la detenzione regolarmente prolungata”.
In un simile contesto, malgrado la prova che ha vissuto, Mohammad è considerato fortunato. Questa esperienza l’ha confermato nella sua vocazione. “Ho visto come gli avvocati difendono i prigionieri come me ed è questo che io voglio fare da grande”. Secondo sua madre, i mesi di disperazione, quando non poteva vedere suo figlio, l’hanno cambiato in modo incredibile. “E’ diventato adulto”, dice. Suo padre è stato due volte detenuto nelle prigioni israeliane, per tre anni nel 1982, e quattro mesi nel 1992. Mohammad ora è un uomo come lui.