"Infatti, malgrado le molte precauzioni e le circonvoluzioni sulla necessità di perseverare per via diplomatica, la Casa Bianca ha già legittimato nuove e più dure misure contro l'Iran, autorizzando “azioni non letali” all'interno del paese e sostenendo i gruppi separatisti, siano essi arabi, curdi, baluci
o azerbaigiani. Lungi dal sostenere l'opposizione democratica, questo interventismo, in contrasto con il diritto internazionale, ha permesso ai "duri" del regime di rafforzare le loro posizioni e di sfiancare intellettuali e democratici. Eppure a Tehran, si crede ancora possibile aprire un dialogo con Washington. Perché ciò accada, bisognerebbe accettare di mettere in discussione tutti i temi del contenzioso irano-americano. E la Casa Bianca dovrebbe rinunciare al suo obbiettivo di "cambio di regime".
All’interno dell’amministrazione Bush due diverse posizioni si contrappongono sulla politica iraniana. Da un lato, il vicepresidente Richard Cheney e i suoi alleati al Pentagono e al Congresso, incalzati dall'American-Israel Public Affairs Committee (Aipac), propendono per bombardamenti, non solo del sito di arricchimento dell'uranio dì Natanz, ma anche di tutte le altre postazioni militari iraniane situate in prossimità della frontiera con l'Iraq. Dall'altro, la Segretaria di Stato Condoleezza Rice auspica che si prosegua per via diplomatica, rafforzando e ampliando i negoziati con Tehran, avviati in maggio a Baghdad, sulla stabilizzazione dell'Iraq. È riuscita a ottenere il rinvio di una decisione sull'opzione militare, solo a costo di un pericoloso compromesso: l'intensificazione delle operazioni clandestine, volte alla destabilizzazione della Repubblica islamica, avallate da una direttiva presidenziale di fine aprile 2007(1).
Queste operazioni si susseguono da una decina di anni, ma in assenza di copertura ufficiale, la Central Intelligence Agency (CIA) ha agito esclusivamente per interposta persona. Il Pakistan e Israele, per esempio, hanno fornito armi e denaro ai gruppi ribelli del sud-est e del nord-ovest dell'Iran, dove le minoranze sunnita, balucha, e kurda combattono da lunga data il potere centrale persiano e sciita.
L'autorizzazione presidenziale di aprile consente l'intensificazione delle operazioni «non-letali», condotte direttamente da organismi americani. Oltre all'intensificazione delle trasmissioni di propaganda, a una campagna di disinformazione e all'arruolamento degli esuli in Europa e negli Stati Uniti, per incoraggiare la dissidenza politica, il nuovo programma privilegia la guerra economica, in particolare attraverso la manipolazione dei tassi di cambio e altre misure volte a perturbare le attività bancarie e commerciali internazionali dell'Iran.
Il contenuto della nuova direttiva è stato rivelato solo dopo la sua comunicazione alle commissioni sui servizi segreti delle due camere del Congresso, come esige la legge.
A Tehran questo incidente è alla base di ogni conversazione. Eccezionalmente, conservatori e riformatori concordano nell'affermare che questo documento capita in un brutto momento, proprio quando si intravedeva la possibilità di una reale cooperazione tra i due paesi su Iraq e Afghanistan. Alcuni alti responsabili del ministero degli Affari Esteri del Consiglio nazionale di sicurezza dell'ufficio del presidente Mahmud Ahmadinejad e di molti think-tank iraniani ritengono che la stabilizzazione dei due Stati sia nell'interesse di Tehran. La cooperazione con gli Stati Uniti è possibile, spiegano, ma solamente in cambio di una progressiva normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi che implica da parte di Washington l'abbandono della strategia
del «cambiamento di regime».
In Iraq, “gli Stati Uniti sono come una volpe presa in trappola - spiega Amir Mohiebian, caporedattore del quotidiano conservatore Reselaat. Dovremmo liberare quella stessa volpe che ci vuole sbranare? Se gli Stati Uniti modificheranno la propria politica, la cooperazione diventerà possibile”.
All'altro capo dello spettro giornalistico, Mohammed Adrianfar,caporedattore di Hammihan, vicino all'ex-presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, che è stato eletto all'inizio di settembre 2007 capo dell'Assemblea degli esperti (2), afferma che “qui l'opinione prevalente è incline ai negoziati e alla stabilizzazione delle relazioni. La gente vuole stabilità. Lo slogan "Morte all'America " non ha più successo e i nostri dirigenti lo sanno. È paradossale constatare che due governi nemici hanno interessi comuni in Iraq e Afghanistan”.
I responsabili non hanno voluto rispondere direttamente alla richiesta di sapere se Tehran appoggia le or-ganizzazioni sciite in Iraq. Alaeddin Borujeri, presidente della commissione affari esteri del Majlis (Parlamento), critica Washington per la protezione accordata ai ba'athisti e ad altri elementi sunniti, dichia-rando senza remore che l'Iran considera l’accettazione di un predominio sciita a Baghdad necessario alla sta-bilizzazione e preludio a qualsiasi tipo di cooperazione tra Washington e Tehran.
Per questi giornalisti e per molti interlocutori ufficiali, un gesto importante della Casa Bianca consisterebbe nello smantellamento della milizia iraniana insediata in Iraq, i Mujahidin del popolo (MCK). Questi avevano sostenuto Saddam Hussein nella guerra contro l'Iran ( 1980-1988), e se i loro
3.600 combattenti sono stati disarmati in seguito all'invasione americana dell'Iraq, si radunano ancora in alcune basi. I servizi segreti americani si servono di loro per missioni di spionaggio e di sabotaggio in Iran e per l'interrogatorio degli iraniani accusati di aiutare le milizie sciite in Iraq. Fino a poco tempo fa, in Iraq controllavano emittenti radio e televisive che in seguito a pressioni esercitate da Tehran su Baghdad, sono state trasferite a Londra.
Eppure, quando il moderalo Mohammed Khatami è stato eletto presidente dell'Iran nel 1997 il Dipartimento di Stato americano, con un gesto di conciliazione, aveva incluso i Mujahidin nella lista delle organizzazioni terroriste colpevoli di violazione dei diritti umani su larga scala... Vi figurano ancora oggi.
Smantellare queste forze paramilitari sarebbe un gesto rilevante, spiega Abbas Malesi, consulente del Consi-glio nazionale di sicurezza. Ora, Alireza Zaffarzadeh, presidente dell'organismo politico dei Mujahidin, il Consiglio nazionale di resistenza dell'Iran, appare frequentemente sul canale conservatore Fox News. Ha un ruolo paragonabile a quello di Ahmad Chalabi, quando si preparava l'invasione dell'Iraq, che tentava di assicurare il sostegno del Congresso a un'azione militare contro l'Iran.
L'inserimento dei Mujahidin nella lista delle organizzazioni terroristiche illustrava bene la volontà di dialogo dell'amministrazione Clinton con Tehran. Quando Newton Gingrich, allora presidente Repubblicano della Camera dei rappresentanti, riuscì a far votare lo stanziamento di 18 milioni di dollari per azioni clandestine «non-letali» destinate a «provocare la sostituzione dell'attuale regime iraniano», la Casa Bianca aveva richiamato la CIA alla prudenza. Ma l'amministrazione Bush ha cambiato rotta in fretta. Condividendo le vedute di Gingrich, Cheney ha convinto i pochi scettici che delle pressioni su Tehran avrebbero favorito Washington nei negoziati, in vista dell'interruzione del programma di arricchimento dell'uranio in Iran.
Per cominciare, la nuova amministrazione ha riavviato e ampliato il progetto, non ancora esecutivo, di in-terventi «non-letali»; in seguito, nel febbraio 2006, ha fatto votare al Congresso lo stanziamento di 75 milioni di dollari per «promuovere la libertà di parola e di movimento del popolo iraniano». Infine si è prodigata nella ricerca di mezzi clandestini per logorare militarmente il regime.
Il passaggio più facile era ottenere che Pakistan e Israele armassero e finanziassero i gruppi ribelli già attivi nelle regioni del Baluchistan e Kurdistan. I servizi segreti pakistani (Isi) hanno fornito armi e denaro ai dissidenti del Jundullah («I soldati di Dio»), gruppo armato con base in Baluchistan, che ha causato pesanti perdite alle unità dei Guardiani della rivoluzione nel 2005 e nel 2006, all'epoca di una serie di colpi di mano a Zahedan e nel sud-est del Paese.
Il 2 aprile 2007, la "Voce dell'America" ha diffuso un colloquio con il dirigente di questo movimento, Abdolmalek Rigi, presentato come “capo della resistenza popolare in Iran”. I nostri numerosi contatti con membri del nazionalismo balucho (3) hanno confermato i legami esistenti tra Rigi e l'Isi. Affermazione ribadita da un corrispondente del canale Abc (4).
Da parte sua, il Mossad ha contatti con i kurdi iraniani e iracheni che risalgono a una cinquantina di anni fa. Questo legame tende ad accreditare un'informazione riportata dal giornalista americano Seymour Hersh, se-condo la quale il servizio segreto israeliano fornirebbe al Partito per una vita libera nel Kurdistan (Pjak), iraniano, «addestramento ed equipaggiamento» (5), nonostante il Pjak sia legato al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), kurdo, denunciato da Washington e Ankara in quanto organizzazione terroristica.
In un colloquio accordato a Lee Anderson, un alto funzionario kurdo ha dichiarato che il Pjak utilizzava delle basi nel Kurdistan iracheno per sferrare attacchi contro l'Iran, “segretamente sostenuto dagli Stati Uniti” (6). Per rappresaglia, Tehran ha effettuato molti bombardamenti contro le basi nel Kurdistan iracheno, suscitando le proteste di Baghdad.
Dal punto di vista economico, è in Kuzistan, provincia situata nel sud-ovest del Paese e che produce l’80% del suo petrolio greggio, che Tehran si trova a fronteggiare la minaccia separatista potenzialmente più seria. Gli sciiti arabi di questa provincia condividono con quelli che vivono in Iraq, sull'altra riva dello Shatt-al-Arab, una comune identità etnica e religiosa. Ahwaz, capitale del Kuzistan. si trova ad appena 120 chilometri da Bassora, dove sono dislocate le truppe di occupazione inglesi, che hanno tuttavia trasferito agli iracheni il controllo della città e della sua provincia.
La strategia della destabilizzazione
Data la storia della regione, non stupisce che Tehran accusi i servizi segreti britannici di stanza a Bassora di fomentare tumulti. Nel 1897, i principi arabi del Kuzistan, con il sostegno dei militari e di gruppi inglesi interessati al petrolio, avevano operato una secessione dalla Persia per dar vita a un protettorato sotto il con-trollo di Londra, «l'Arabistan», che tornò alla Persia solo nel 1925.
Fino a questo momento, le fazioni separatiste sparpagliate in tutta la provincia non sono state capaci di creare una forza militare unificata come il Jundullah nel Baluchistan, e non ci sono elementi che lascino presupporre un aiuto straniero. Organizzano però con regolarità colpi di mano contro le forze di sicurezza governative e fanno saltare le basi petrolifere.
Molte di queste fazioni assicurano trasmissioni di propaganda in arabo servendosi di emittenti con sede all'estero. Il Movimento di liberazione nazionale di Ahwaz, sostenitore dell'indipendenza, possiede un canale satellitare, Ahwaz Tv, che mostra in sovrimpressione sullo schermo un numero di fax della California (7). Un altro canale satellitare, anch'esso gestito da esuli iraniani in California, è legato alla British-Ahwaz Friendship Society, che reclama l'autonomia regionale per la provincia in seno a un Iran federale (8).
Circa la metà dei 75 milioni di dollari concessi da Washington nel 2006 è riservata alla "Voce dell'America", a "Radio Farda", e ad altre emittenti gestite da esuli iraniani. Venti milioni sono destinati agli attivisti non governativi per i diritti della persona in Iran e negli Stati Uniti.
Far arrivare questi soldi direttamente in Iran «è cosa molto difficile», ha ammesso il sottosegretario di Stato Nicholas Burns; quindi «lavoriamo con organizzazioni arabe ed europee per appoggiare i gruppi democratici all'interno del Paese» (9).
Uno degli iraniani che ha partecipato a un incontro organizzato dagli Stati uniti a Dubai, lo scorso anno, ha dichiarato al giornalista irano-americano Negar Azimi che «si trattava di un campo di addestramento alla James Bond» (10).
Gli sforzi che mirano a destabilizzare la Repubblica islamica e le pressioni economiche imposte perché abbandoni il programma nucleare vanno in direzione opposta allo scopo ricercato per almeno quattro ragioni:
innanzitutto, hanno fornito ai sostenitori della linea dura, un pretesto per non dare tregua tanto agli iraniani che lavorano dall'interno in favore di una liberalizzazione del regime, quanto agli intellettuali in visita con la doppia nazionalità irano-americana - come per esempio Haleh Esfandiari, del Woodrow Wilson International Center of Scholars, imprigionato per tre mesi con vaghe accuse di spionaggio; portando il proprio aiuto alle minoranze etniche insorte, Washington ha permesso al presidente Ahmadinejad di fare sfoggio del proprio ruolo di difensore della maggioranza persiana - benché le minoranze costituiscano circa il 44% della popolazione; i problemi economici che Ahmadinejad imputa alle pressioni esterne, sono dovuti principalmente ai suoi propri errori di gestione; perché sia possibile giungere a dei compromessi che vertano sulla stabilizzazione dell'Iraq e dell'Afghanistan, dovrebbero cessare i tentavi di sovversione e il presidente George W. Bush dovrebbe ritirare la minaccia proferita il 28 agosto di «rispondere alle attività criminali » in Iraq.
Certo, per quanto si riduca la pressione, un compromesso sulla questione nucleare sarebbe poco probabile in mancanza di un cambiamento della posizione militare degli Stati Uniti nel Golfo. Eppure, si potrebbe ottenere una sospensione delle attività di arricchimento a Natanz se Israele accettasse il blocco simultaneo del suo reattore a Dimona (11).
«Come possiamo noi negoziare una denuclearizzazione mentre voi inviate nel golfo Persico portaerei, che abbiamo motivo di credere siano equipaggiate con armi tattiche nucleari?», si interroga Alireza Akbari, che è stato ministro-aggiunto della Difesa nel governo del presidente Khatami. «Come potete pensare che negozieremo se voi rifiutate qua/siasi discussione su Dimona?».
Lungi dall'aver fatto vacillare il regime, le pressioni americane hanno esasperato gli iraniani di qualsiasi tendenza. Certo, le sanzioni economiche sono più efficaci dell'aiuto segreto garantito ai ribelli. Ma su quaranta banche europee e asiatiche in affari con l'Iran, solo sette hanno rinunciato ai propri rapporti con questo Paese, per esaudire le richieste di Washington. L'Iran fa passare, sempre più, i propri scambi economici attraverso quattrocento istituzioni finanziarie con base a Dubai, per la maggior parte arabe.
Quest'anno, il commercio tra Iran e Emirati Arabi Uniti si avvicina agli undici miliardi di dollari, e il sottosegretario al Tesoro, Stuan Levey, gesticola inutilmente quando - in un discorso tenuto a Dubai lo scorso 7 marzo - lancia minacce di rappresaglie contro le società che commerciano con l'Iran.
L'amministrazione Bush ha recentemente adottato misure più mirate contro le imprese che trattano con i guardiani della rivoluzione e con i bonvad -fondazioni gestite da religiosi - ma fin qui i risultati sono stati de-cisamente modesti.
Come osserva un rispettato ambasciatore europeo, che fu di stanza a Tehran: «A cosa serve tutto questo? Perché continuare a sventolare il drappo rosso? Fa infuriare il toro ma non lo ammazza».


(1) Leggere «Tempéte sur l'Iran». Maniere de voir, n° 94, giugno-luglio 2007, www.monde-diplomatique. fr/mav/93/
(2) Organo composto da religiosi, incaricati di designare la Guida suprema - attualmente l'ayatollah Ali Khamenei -e di supervisionare la sua azione.
(3) In Afghanistan Shadow: Baluc Nationalism and Soviet Temptation, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, 1980.
(4) Brian Ross e Christopher Ishan. «Abc news», 3 aprile 2007.
(5) «The Next Act».The New Yorker, New York, 21 novembre 2006.
(6) «Mr. Big», The New Yorker, New York, 5 febbraio 2007.
(7) Bbc World Media Monitoring, 4 gennaio 2006.
(S) «Al-Ahwaz News», British-Ahwaz Friendship Society, 11 febbraio 2006, www.ahwaz.org.uk/
(9) Council on Foreign Relations, New York, 11 ottobre 2006.
(10) "The Hard Realities of Soft Power», The New Times Magazine, 24 giugno 2007.
(11) Per una più ampia discussione sul compromesso nucleare con l'Iran, cfr, «The Forgotten Bargain».
World Policy Journal,Washington, inverno 2006.
* Direttore del Programma Asia del Center for International Policy (Washington) e ricercatore al Woodrow Wilson International Center for Scholars (Washington).
http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=print&sid=5160 (6 di 6)18/11/2007 15.24.46

   

Torna alla home
Dichiarazione per la Privacy - Condizioni d'Uso - P.I. 95086110632 - Copyright (c) 2000-2024