Inchiesta, marzo 2015 - Da quando è cominciata la sua folgorante avanzata in Iraq e in Siria, l’organizzazione Stato Islamico (ISIS) sembra riservare uno spazio non trascurabile della sua propaganda all’impegno delle donne nel jihad. Chi sono queste donne? Quale ruolo giocano? Quali sono le loro motivazioni? (nella foto, una giovane Francese partita per la Siria)

 

L’Orient Le Jour, 16 febbraio 2015 (trad. Ossin)


Due esperti analizzano per “L’Orient-Le Jour” la militanza jihadista delle donne  

Dietro gli uomini del Jihad, ci sono delle donne

Rita Sassine


Da quando è cominciata la sua folgorante avanzata in Iraq e in Siria, l’organizzazione Stato Islamico (ISIS) sembra riservare uno spazio non trascurabile della sua propaganda all’impegno delle donne nel jihad. Chi sono queste donne? Quale ruolo giocano? Quali sono le loro motivazioni? Analisi di un fenomeno che ha ripercussioni anche al di là del mondo arabo


Sposa e madre

“Indubbiamente il fenomeno delle donne jihadiste è molto più mediatizzato oggi, ma esiste da diversi anni, in Palestina negli anni 2002-2006 e in Iraq tra il 2005 e il 2008”, chiarisce Carole André-Dessornes (*), consulente di geopolitica da 14 anni, dottore in sociologia e ricercatrice associata al Cadis, il Centro di ricerche e di studi sociologici, a “L’Orient-Le Jour”. Le prime operazioni suicide realizzate da donne (Sanaa Mehaidli e Loula Abbound) si sono avute in Libano, nel 1985, ricorda la ricercatrice, autrice di “Le donne martiri nel mondo arabo: Libano, Palestina, Iraq”, per poi precisare che “nessuna di esse era affiliata a gruppi jihadisti. Si è trattato piuttosto di atti di resistenza contro l’occupazione israeliana con la finalità di liberare il territorio. La causa era diversa, la questione religiosa era allora irrilevante”.

Le donne nel jihad giocavano soprattutto il ruolo di “mogli e madri”, precisa Geraldine Casutt (**), dottoranda-ricercatrice svizzera all’Università di Friburgo e all’Ehess, secondo la quale il tipo di impegno dipende dalla natura dei gruppi militanti cui esse appartengono. “Un gruppo di tendenza piuttosto laico non concepirà necessariamente il ruolo della donna allo stesso modo di un gruppo religioso, e consentirà più facilmente alle donne l’accesso a dei ruoli combattenti e di prima linea. Il caso di Sanaa Mehaidli, come quello della Palestinese Wafaa Idriss, è indicativo di questo orientamento: esse sono diventate bombe umane all’interno di gruppi politici laici di tendenza nazionalista, e l’uso di donne come bombe umane nei gruppi religiosi è arrivata più tardivamente, soprattutto per ragioni strategiche”.


Evoluzione

Nel 2014 l’ISIS ha annunciato la creazione di due brigate femminili, “al-Khansa” e “Umm al-Rayan”, attive soprattutto a Raqqa, in Siria, e nella provincia di al-Anbar, in Iraq. “Non si dispone di molte informazioni su queste due brigate. Sarebbero state create per svolgere soprattutto compiti di polizia che, per evitare promiscuità, potevano essere assicurate solo da donne”, sottolinea Geraldine Casutt, specialista di donne jihadiste, a “L’Orient-Le Jour”.

Ogni brigata conta tra cinquanta a cento donne, il cui salario ammonta a circa 200 dollari, secondo Carole André-Dessornes. “Si tratta però di stime, perché è un fenomeno in veloce evoluzione e con continui reclutamenti”, precisa. “La novità è l’impegno nel jihad di donne che vengono dall’Occidente e la loro decisione di partire per l’Iraq o la Siria, aggiunge la ricercatrice. In Iraq, tra il 2005 e il 2008, vi erano pochi Occidentali sul fronte, si può appena menzionare il caso di Muriel Degauque che ha compiuto un’operazione suicida”. Se non ci sono stime precise sulla crescita del numero di donne impegnate nel jihad, André-Dessornes ritiene che esse siano oggi più numerose, “cosa che dimostra una evoluzione che vi è stata tra Al Qaeda e l’ISIS”.

“Circa il 10% delle persone che partono dall’Europa, dagli Stati Uniti e dall’Australia per unirsi al jihad sono donne e ragazze”, precisa André-Dessornes, citando fonti che calcolano una cinquantina di Francesi. La maggior parte di queste donne sono inglesi, spesso ritenute le donne più convinte dell’ideologia jihadista, aggiunge Geraldine Casutt.




Circa 550 donne originarie dell'Occidente si sono unite all'ISIS

 

Uno studio dell’Istitute for Strategic Dialogue, pubblicato dieci giorni fa, calcola in 550 le donne originarie di paesi occidentali partite per il jihad. L’interesse per le straniere dipende probabilmente dalle condizioni poste per l’ammissione alle brigate, tra cui vi è il nubilato. “Una situazione che non è comune, né maggioritaria per le donne nello Stato Islamico”, precisa Casutt.


Nell’ombra

“Al momento, nessuna donna jihadista è una combattente in senso propriamente detto, anche se vi potrebbero essere delle evoluzioni per ragioni strategiche, come per esempio per carenza di combattenti uomini. Il ruolo principale della donna nell’ISIS, quello da cui trae la sua prima legittimità, è quello di sposa e madre, un ruolo dunque che non è necessariamente visibile nello spazio pubblico perché si situa nell’ombra di un uomo ma che, in nome della complementarietà dei sessi, viene assai valorizzato nella ideologia jihadista”, spiega Geraldine Casutt. Un altro ruolo assegnato alle donne è quello di “avere figli e allevarli nell’amore del jihad per assicurarne la continuità”, nota da parte sua André-Dessornes. E le donne jihadiste sono anche dei reclutatori. La minaccia dunque che rappresentano, benché diversa da quelle dei loro alter ego maschi, non è quindi da trascurare.

Nel suo rapporto su centinaia di donne jihadiste, analizzando con minuzia l’itinerario di 11 di loro (originarie di Austria, Francia, Canada, Regno Unito e dei Paesi Bassi), l’Institute for Strategic Dialogue sottolinea che la “violenza del linguaggio e la dedizione alla causa sono forti come quelle di alcuni uomini”. “Queste donne svolgono il ruolo di propagandiste di attacchi terroristi nel lor paese di origine”, ha precisato all’AFP Ross Frenett, esperto dell’estremismo all’Istitute for Strategic Dialogue e co-autore del rapporto. Ma ancor di più, “elle mostrano la loro capacità e la loro volontà di prendere parte alle violenze e anche agli attacchi suicidi, se le circostanze mutassero”, nota il rapporto.

Il ruolo delle donne può essere particolarmente perfido, nota Carole André-Dessornes, che ricorda alcune donne jihadiste che hanno reclutato delle ragazze isolate o in situazioni di difficoltà, le hanno prese sotto la loro protezione, organizzando il loro stupro, e hanno offerto loro come via di uscita una operazione suicida per lavare il loro onore. Tra queste reclutatrici, Ibitissam Adwane, detta “Oum Fatima” e Samira Ahmad Jassim, chiamata “Oum al-Mumenin”, entrambe affiliate ad Al Qaeda in Iraq.




Nelle strade di Raqqa, in Siria


“Un po’ romantico…”

Perché l’impegno delle donne nel jihad è oggi più forte? Arabe ed Occidentali hanno identiche motivazioni?

“Il jihad in Siria e in Iraq è un fenomeno globale che attira persone che vengono dai quattro angoli del pianeta. Sarebbe un errore credere che una ideologia religiosa con un progetto politico mirante a creare una società ideale, alla quale si oppone l’immagine poco gloriosa dell’Occidente che può fare eco a certi sentimenti, non si in grado di sedurre le donne come fa con gli uomini, anche se esse restano minoritarie in rapporto agli uomini partiti per fare il jihad”, nota Casutt. Come per gli uomini, sembra che, in materia di reclutamento, i social network “agiscano spesso come un detonatore, perfino un acceleratore”, prosegue.

“Non si può delineare un unico profilo di donna jihadista, sottolinea André-Dessornes. Talune si sono sensibilizzate vedendo le immagini dei combattimenti che appaiono sui social network e rientrano in una logica di missione umanitaria. Si tratta piuttosto in questi casi di ragazze molto ingenue e molto influenzabili. Altre giovani donne sono attirate da una visione un po’ romantica della guerra e del matrimonio jihadista. Esse sono, in questo caso, affascinate dall’immagine del guerriero virile, dalla figura patriarcale che circola nei social network. Si tratta di donne in cerca di identità e prive di punti di riferimento. Sono soprattutto delle Occidentali che, attirate dall’immagine dell’uomo protettore e virile, si perdono in una visione romantica della guerra completamente immaginata. La stampa ha in proposito riportato il caso di ragazze che, una volta giunte sul campo, hanno scoperto una realtà assai differente da quella che immaginavano e si sono ritrovate prese in trappola. Alcune adolescenti in piena età di ribellione si uniscono a questi gruppi per opposizione ai genitori o per desiderio di correre dei rischi. Quelle che si uniscono ai gruppi jihadisti per reale convinzione sono generalmente un po’ più avanti con l’età e meno numerose”.

Secondo il rapporto dell’Istitute for Strategic Dialogue, le donne occidentali decidono di andare in terra di jihad per ragioni simili a quelle degli uomini: la sensazione che la umma (la comunità dei credenti mussulmani) sia sotto attacco, un senso del dovere ideologico e religioso di fare qualcosa, la ricerca di una solidarietà tra compagni e la volontà di dare un senso alla loro vita. “La missione di creare lo Stato Islamico (califfato) è particolarmente sentita dalle donne”, secondo la stessa fonte.

Nonostante il loro spirito militante, molte di queste donne provano difficoltà a lasciare i loro parenti, nota l’esperto Ross Frenett all’AFP, che ritiene che questo possa essere l’elemento-chiave per dissuaderle a intraprendere il viaggio. Talune perdono le loro illusioni – quando per esempio il loro marito rimane ucciso in combattimento o alla nascita di un bambino – e “tali circostanze devono e possono essere sfruttate dalle famiglie e dai loro paesi di origine come una opportunità di disimpegno”, conclude il rapporto.


Manipolazione mentale

Per le donne arabe, la situazione è differente, spiega Carole André-Dessornes. “Alcune di loro si uniscono alle organizzazioni dopo avere perso un parente. Siamo in questo caso in una logica di vendetta. Altre considerano di avere un ruolo da giocare allo stesso titolo degli uomini. Cresciute in società patriarcali, ciò sarà per loro un modo di dimostrare che possono combattere e impegnarsi come un uomo. Vi sono anche donne che si fanno contagiare da questo radicalismo, perché non hanno più famiglia e cercano una sorta di protezione. Vi sono certamente anche casi di donne che si impegnano per convinzione”.

Per Geraldine Casutt, la percezione nello spazio pubblico e nei media della ragazza mussulmana occidentale partita per il jihad è piuttosto quella della vittima di una “manipolazione mentale”. “Questa immagine contrasta con quella della violenza di cui danno prova le brigate femminili, soprattutto al-Khansa, che avrebbe di recente severamente punito una donna per avere offerto il seno al suo bambino in pubblico”, prosegue la ricercatrice. Secondo lei, “bisogna considerare la donna, che sia sposa o membro di una brigata, come un’attrice a tutto campo di questa costruzione ideologica. Non solo esse fanno parte della rete jihadista, ma queste donne contribuiscono a forgiarla, nel loro ruolo di spose ma soprattutto di madri della prima generazione nata nello Stato Islamico”.


Puro interesse

E’ nella lotta dei Palestinesi che è cominciata a cambiare l’immagine della donna jihadista nell’Islam, spiega Carole André-Dessornes. La prima Palestinese ad avere realizzato una operazione suicida non era una jihadista. Wafaa Idriss era affiliata alla sezione militare di Fatah, la brigata dei martiri di al-Aqsa. Altre donne ne hanno seguito l’esempio all’interno di questa stessa brigata, Hamas e la Jihad islamica essendo all’epoca assolutamente contrari a qualunque coinvolgimento delle donne. “Alla fine è stata proprio la concorrenza e la paura di perdere il confronto sul campo che ha aperto la via all’accettazione delle donne nei ranghi di questi gruppi”, aggiunge. Identica evoluzione vi è stata anche in seno ad Al Qaeda. Nel 2005, Abou Moussab al-Zarqaoui, allora capo del gruppo jihadista in Iraq, ci ha messo del tempo a rivendicare la prima operazione realizzata da una donna in questo paese, ricorda André-Dessornes.

In Libano, dove la strategia dell’operazione martirio è stata introdotta da Hezbollah al sud durante l’occupazione israeliana, nessuna operazione è stata realizzata da donne che si dichiaravano appartenenti al partito sciita, che è profondamente contrario. La donna ha dunque un ruolo da giocare, solo come sostegno. Secondo la ricercatrice, i movimenti jihadisti sunniti hanno finito con l’accettare le donne non per reale convinzione ma per puro interesse. “Bisogna piuttosto vedere queste operazioni suicide realizzate da donne come una strategia di guerra asimmetrica, una tecnica che non costa molto”, dice André-Dessornes. Peraltro – continua – per taluni gruppi jihadisti, la militanza di donne in campi normalmente riservati agli uomini aiuta a convincere questi ultimi, che si sentono feriti nella loro fierezza, a impegnarsi. “Era il caso di Al Qaeda in Iraq che, tra il 2005 e il 2007, ha fatto ricorso a questa tattica per ovviare alla carenza di volontari”, spiega la ricercatrice. Tra il maggio 2005 e il dicembre 2007, più di una quindicina di donne avrebbero realizzato delle operazioni suicide, contro più di una trentina che saranno realizzate nel solo 2008, precisa.


Immagine shock

Ma da qui a dire che l’impegno delle donne nel jihad sarebbe un fattore di uguaglianza tra i sessi, ne corre molto. “Non è assolutamente un fattore di uguaglianza, taglia corto Carole André-Dessornes. Perché questi gruppuscoli non affideranno mai maggiori responsabilità alle donne, che non otterranno mai un posto importante nella gerarchia del comando”. Secondo lei, si tratta piuttosto di uno strumento strategico. D’altronde, a oggi, nessuna donna che si è unita all’ISIS ha realizzato operazioni suicide, aggiunge.

La presenza di donne consente di mettere su delle famiglie, ed è questo il primo passo per realizzare una società durevole: L’ISIS tenta anche di garantire una propria presenza stabile, pur continuando nella strategia di espansione”, conferma Casutt. “Se si vedessero delle donne combattere al fianco degli uomini, allora si potrebbe parlare di contraddizione con l’islam così come inteso da questo gruppo o di uguaglianza con gli uomini, precisa. Perché in ruoli che sono ‘nell’ombra degli uomini’, esse restano in una logica di complementarietà” e continuano ad essere considerate da questi gruppi in conformità alla loro natura biologica.

Secondo Casutt, per quanto concerne gli Occidentali impegnati nel jihad, non è “l’uguaglianza” tra uomini e donne ad essere ricercata, ma una complementarietà vissuta come meno ipocrita dell’eguaglianza predicata in Occidente, in una ottica di sottomissione non all’uomo, ma a dio.

L’impatto simbolico del jihadismo al femminile è utile anche in termini di comunicazione per i gruppi jihadisti. “I movimenti jihadisti utilizzano le donne nelle loro operazioni, per garantirsi una copertura mediatica maggiore, sottolinea Carole André-Dessornes. Evitano tuttavia di esagerare con questa tattica per non cadere nella sua banalizzazione e ridurne così la forza di impatto”.

Vedere una donna realizzare una operazione kamikaze crea uno shock, un rigetto ed una fortissima incomprensione, prosegue la ricercatrice. Ma per André-Dessornes, il ruolo e il coinvolgimento delle donne nel jihad potrebbe accrescersi, soprattutto se il conflitto si arena. La ricercatrice ritiene tuttavia che tale coinvolgimento “resta un epifenomeno che, per quanto possa raggiungere un picco in un certo momento, finirà per ridimensionarsi”.



(*) Consulente di geopolitica da 14 anni, dottore in sociologia e ricercatrice associata al Cadis, il Centro di ricerche e di studi sociologici. Il suo ultimo lavoro ha ad oggetto le operazioni suicide realizzate da donne: "Les femmes-martyres dans le monde arabe : Liban, Palestine, Irak", edizioni l'Harmattan, collezione Mieux comprendre le Moyen-Orient, dicembre 2013.

(**) Géraldine Casutt, dottoranda- ricercatrice svizzera, che studia le donne jihadiste all'Università di Friburgo e all'Ehess.

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