Brevi note sulla schiavitù in Niger
di Nicola Quatrano

Ufficialmente la schiavitù è stata abolita in Niger dal 1960 ma, solo nel 2003, una legge dello Stato ha criminalizzato le pratiche schiaviste, punendole con pesanti sanzioni che possono arrivare fino a 30 anni di prigione. Peraltro il Niger ha ratificato tutte le convenzioni internazionali che condannano la schiavitù e ne ha vietato il ricorso nella Costituzione del 1999.
Tuttavia questa pratica persiste ancora oggi in tutte le regioni del paese. E’ emblematico il caso di Hadijatou Korau Mani, una ragazza di 24 anni mantenuta in condizioni di schiavitù per nove anni, che ha potuto riguadagnare definitivamente la libertà solo grazie ad una sentenza della Corte di Giustizia della Comunità degli Stati dell'Africa dell'ovest (CEDEAO).
Hadijatou Korau Mani è nata a Louhoudou, un piccolo villaggio del centro del Niger. Venne venduta nel 1996, all'età di nove anni, da un capo tribù schiavista ad un uomo di 46 anni. Il prezzo della transazione: 240.000 franchi. Non appena raggiunto il domicilio del suo nuovo padrone, quest'ultimo fece di lei una "wahaya", una specie di schiava sessuale. (Si definisce "wahaya" una donna di condizione servile presa come quinta moglie da un uomo che ha già quattro spose "legali". Questa pratica, riconosciuta dall'Islam, è diffusa soprattutto in Niger, dove esiste ancora la pratica schiavista). Koraou Mani fu sottoposta a violenze sessuali e dovette occuparsi del lavoro dei campi e di quello domestico. Era anche a disposizione delle quattro mogli "legali" del suo padrone.
Dalle "relazioni sessuali forzate" cui fu sottoposta, la giovane schiava ha generato tre figli del suo padrone. Il 18 agosto 2005, quest'ultimo decise di affrancarla. Munita della sua carta di affrancamento, la ragazza tornò nel suo villaggio natale, dove si sposò con un uomo di sua scelta.
Quando l'ex padrone venne a sapere del matrimonio, decise di intentarle un processo per bigamia, col pretesto che non aveva mai divorziato. E nonostante le prove fornite dalla donna, relative alla circostanza che i suoi rapporti col querelante erano di schiavitù e non di matrimonio, il tribunale condannò lei e suo fratello a pene detentive.
Timidria, una associazione nigerina che lotta contro le pratiche schiaviste nel paese, si è occupata della questione, che ha portato innanzi la Corte di Giustizia della CEDEAO, in Nigeria. La Corte si è recata a Niamey per il processo, onde risparmiare alla ricorrente gli spostamenti continui e costosi tra Niger e Nigeria. La sentenza è stata emessa il 27 ottobre 2008.
La sentenza ha riconosciuto che effettivamente Koraou Mani è stata vittima di schiavitù e che lo Stato del Niger non ha fatto nulla per liberarla, nonostante una legge nazionale sanzioni severamente tale pratica. La Corte ha condannato lo Stato a versarle una indennità forfettaria di 10 milioni di franchi CFA.

Schiavitù e gerarchia sociale
Abbiamo parlato di questo fenomeno nel corso degli incontri che abbiamo avuto durante la missione in Niger.
Prima di tutto con Moustapha Kadi, militante per i diritti umani che, nel 2003, nel villaggio natale di Illéla ha convinto sua madre a liberare i loro 11 schiavi. Moustapha Kadi è autore di un libro sulla schiavitù in Niger (“Un tabou brisé, Harmattan, 2005) e ricorda: “Mia sorella era violentemente contraria: non dobbiamo liberare i nostri beni!” protestava. Mustapha Kadi, che presiede anche l’associazione dei capi tradizionali della regione di Tahoua, voleva dare l’esempio: “In occasione di questa liberazione – racconta – ho proposto di invitare tutti i capi e di organizzare una cerimonia ufficiale. Proprio prima che cominciasse, il governatore della regione ha chiesto alla polizia di cacciarci e sequestrare le pellicole delle foto scattate dai giornalisti. Quelli che resistevano erano minacciati di prigione. La vicenda è giunta fino a Niamey. Io sono stato convocato dal ministro dell’Interno con mio padre. Mi ha detto: in Niger la schiavitù non esiste. Non se ne vuole sentire parlare”.
Oggi la situazione è un po’ cambiata, se perfino il Primo Ministro, Mahamadou Banda, nel corso dell’incontro che abbiamo avuto a Niamey, ha riconosciuto che la schiavitù sopravvive in Niger e che bisognerebbe fare di più per contrastarla.
Abbiamo parlato della questione anche con Abdou Dan Gallou Samaila, presidente dell’Observatoire de droit de l’homme et des libertés fondamentales e con il giudice di Niamey, Yacouba Soumana, al quale abbiamo posto la domanda: “Esiste la schiavitù in Niger?”
Ci ha risposto: “Certo che esiste, anche se a me non è mai capitato di occuparmene professionalmente. E’ un fenomeno diffuso nelle zone rurali, non a Niamey”. Aggiungendo: “Le leggi di cui disponiamo sono efficaci, ma il problema è che le vittime non denunciano”.
Domandiamo il perché di questo atteggiamento omertoso, chiediamo se è ispirato da paura o da cosa, il giudice Yacouba Soumana ci spiega che le ragioni sono più complesse e affondano le radici nella realtà del paese e nella complessa gerarchia sociale che vi regna. “Al di là del fenomeno estremo della schiavitù, c’è che la società è divisa in tribù (o in caste) ed è difficilissimo che qualcuno che gode di uno statuto sociale superiore accetti, per esempio, di sposare qualcuno che appartiene ad una casta inferiore, perché queste ultime sono oggetto di disprezzo e di scarsa considerazione sociale. In Niger vi sono diverse forme di schiavitù, spesso nascoste nelle pieghe di rapporti familiari. E’ il caso della schiavitù sessuale (mogli non legittime) o di gente che vive nella casa del padrone, dove svolge lavori non remunerati. Tutte queste persone hanno più interesse a nascondere il loro statuto che ad essere liberate. Per loro, intentare causa al padrone equivarrebbe ad una autodenuncia di stato servile, che le esporrebbe di fatto ad un disprezzo sociale, più insopportabile ancora del servaggio, che a volte assume forme blande ed umane”.
Il dotto Yacouba Soumana non ha ricette per risolvere il problema, dice solo che è necessario un profondo lavoro sul piano culturale e di “sensibilizzazione”.

Caratteri della schiavitù in Niger

Le pratiche schiaviste riguardano tutte le regioni del Niger, ma sotto due forme diverse. C'è una forma attiva praticata nelle regioni di Tahoua, Agadez e nord Maradi. E vi è una forma passiva che si ritrova nelle regioni del fiume e un po' verso Filingué, sempre nell'ovest del paese. Nella forma passiva, gli schiavi non sono a carico dei loro padroni, che comunque riconoscono come tali. Non hanno campi, ma lavorano quelli dei padroni.
Come compenso del loro lavoro, essi ricevono una parte del raccolto. "Nell'ovest del paese, dove vi è questo tipo di schiavitù, gli uomini di mestiere (tessitori, calzolai, fabbri, artisti tradizionali) sono considerati come schiavi e sono, a causa del loro lavoro, vittime di discriminazioni all'interno della comunità", ci dice Moustapha Kadi.
Per esempio - chiarisce - "un nobile non può sposarsi con qualcuno di queste famiglie. Anche dal punto di vista dell'occupazione degli spazi, vi sono dei quartieri che sono riservati agli uomini dei mestieri e agli schiavi".
La cosa più scioccante in questa forma passiva di schiavitù, per un militante per i diritti dell'uomo, è che tale discriminazione persiste anche dopo la morte. "A Bonkoukou (un villaggio dell'ovest del paese), fino a poco tempo fa, nobili e schiavi non venivano interrati nello stesso cimitero. Da questo punto di vista, questa forma passiva di schiavitù - conclude - è talvolta più scioccante di quella attiva".
Nella forma attiva, la schiavitù in Niger è presente nell'est, il nord e le zone nomadi. Lo schiavo vive nella casa del padrone, che si assume il carico dei suoi bisogni alimentari, di abbigliamento ed altro. In cambio, deve occuparsi di tutti i lavori domestici e agricoli del padrone. "In queste zone vi sono casi nei quali gli schiavi godono di alcuni privilegi, e hanno delle responsabilità. Per incontrare un capo tradizionale, per esempio, bisogna spesso passare prima per uno schiavo e vi sono anche alcuni capi tradizionali che responsabilizzano degli schiavi nella gestione dei loro beni". Moustapha Kadi vede in questo un progresso.
Nella forma passiva, i nobili sono ben separati dagli schiavi, nessuno vuole mescolare il proprio sangue a quello di uno schiavo, mentre nella forma attiva gli schiavi sono assimilati. I capi si sposano con loro; è ciò che viene chiamato il Wahaya, o la quinta moglie. Il bambino frutto di questo patrimonio può ereditare il trono, mentre nell'ovest del paese questa è un'ipotesi inimmaginabile".
Il dibattito degli ultimi anni sulla schiavitù in Niger ha privilegiato il dato statistico. Nel 2002 Timidria ha commissionato una inchiesta statistica per calcolare il numero esatto di schiavi nel paese, in partnership con l'ONG Anti-Slavery. Questa inchiesta, che ha suscitato numerose polemiche, ha calcolato che circa 800.000 persone si trovano in questa situazione, su una popolazione totale stimata all'epoca in circa 11 milioni di abitanti.
Successivamente due altri specialisti, Ali Chékou Maina dell'ONG nigerina Démocratie 2000 e il dott. Souley Adji, sociologo, insegnante e ricercatore all'Università di Niamey, hanno svolto un'analoga inchiesta per conto del Bureau international du travail, che ha permesso di calcolare circa 180.000 persone in stato di schiavitù nel paese.
Di fronte a tali cifre, considerate esagerate dagli attivisti dei diritti dell'uomo e da taluni universitari che hanno analizzato la questione, Moustapha Kadi ha svolto, nell'ambito della raccolta di dati per il suo libro, una ricerca sul campo nelle otto regioni del paese. Questo lavoro gli ha permesso di censire poco più di 8500 schiavi effettivamente in attività nelle otto regioni del paese. "Ho adottato un approccio pragmatico - racconta - elencando per prima cosa tutti gli sceriffati del Niger e recandomici io stesso. Per me è stato più facile che per altri realizzare questo tipo di inchiesta, giacché io sono figlio di un capo tradizionale".
"Dovunque sono passato, i capi non hanno avuto alcun timore a descrivermi la situazione della schiavitù nelle loro regioni ed ho potuto entrare in contatto con delle persone che sono effettivamente in questa situazione. Gli altri schiavi calcolati nelle inchieste di Timidria e  del Bureau International du travail io non li ho visti e nessuno mi ha parlato di loro", aggiunge. Ma Moustapha Kadi pensa che il numero di schiavi non costituisca un dato essenziale nella lotta da combattere per sradicare questa pratica retrograda. "Ciò che importa - afferma - è che, se anche vi fosse un solo schiavo, bisognerebbe identificarlo per liberarlo".

Una giornata a Tajaé Nomade
Il 5 settembre partiamo, in compagnia di Moustapha Kadi, in direzione di Tajaé Nomade, un minuscolo villaggio nella regione di Tahoua, dove vivono schiavi ed ex schiavi.
L’obiettivo della missione è quello di verificare i risultati di un intervento della associazione RDM International che, nel marzo 2008, ha distribuito 10 campi e 30 capre ad alcuni abitanti per assicurare loro condizioni dignitose di vita.
L’avvenimento fu molto mediatizzato, presente una troupe del settimanale francese “Paris Match”, che realizzò un reportage sull’avvenimento.
Il viaggio è lungo, circa 600 Km di strada , oltre una trentina di chilometri di pista. Siamo passati anche vicino al parco di Kouré, dove vivono le ultime giraffe dell’Africa dell’Ovest.
Il villaggio di Tajaé Nomade è composto da capanne di legno e fango, di forma quadrata, e da granai, anch’essi fatti di legno e fango, ma di forma circolare, che si susseguono l’uno dopo l’altro lungo una strada polverosa di terra battuta.
Non riusciamo a sapere quanti abitanti conti, ma ci fanno visitare la scuola, un grande edificio costruito dalla ONG italiana CISP. L’edificio ospita le elementari e la scuola media secondaria, il liceo è poco lontano, mentre per l’Università occorre andare nella capitale, a Niamey.
La costruzione della scuola sembra avere avuto un effetto molto positivo nella crescita dei tassi di scolarizzazione. Non esistono dati statistici, ma la cosa è percepibile anche solo empiricamente. Per esempio, abbiamo incontrato giovani di 22-23 anni che hanno frequentato solo fino alla 5° elementare, mentre le fasce di poco più giovani, a partire dai 15-16 anni, sono composte tutti da studenti della scuole secondaria e superiore. Ci dicono però che l’edificio realizzato dal CISP non basta alle necessità, perché il collegio (la scuola media inferiore) serve infatti 53 villaggi, oltre ad altri agglomerati abitativi che non hanno ancora ricevuto il riconoscimento amministrativo. Effettivamente sembra insufficiente.

I limiti dell’assistenza
Abbiamo incontrato diversi abitanti, alcuni dei quali sono stati beneficiari dell’intervento di RDM International, altri no. Tutti, a cominciare dai capi del villaggio, accolgono la nostra visita con molto interesse: si aspettano di ricevere altri campi, altre capre… L’impressione che ne ricaviamo è che la distribuzione di doni da parte della RDM International non abbia cambiato la vita delle persone, ma solo arrecato un temporaneo miglioramento… ma d’altronde questo è il limite dell’intervento assistenziale.
La prima donna che incontriamo è Larba Atté Bèné, una donna minuta di 57 anni. Si accovaccia a terra, come faranno tutti gli altri e risponde compita alle domande. Nel 2008 ha ricevuto in dono 4 capre, ma non sono sufficienti. Ci spiega che ha una famiglia composta da undici persone e che lei è vedova. Insiste molto nel dire che ha bisogno di un campo, spera che possiamo regalarglielo
Tannon Igeudas è anche lei vedova ed ha ricevuto 4 capre. Ci dice che attualmente gliene è rimasta 1 sola, le altre 3 le ha dovute vendere per bisogno… ha sei figli, i più grandi sono partiti alla ricerca di un lavoro, con lei sono rimasti i più piccoli.
Wadon Atté non ha ricevuto nulla da RDM International, si tratta di una ex schiava, liberata 20 anni fa. “Come mai?” le domandiamo, e lei risponde che anche il padrone non aveva mezzi per vivere e ha dovuto liberarla perché non aveva di che farla mangiare. Ci dice che preferisce essere libera, quando era schiava doveva fare lavori forzati, lavori che magari non sapeva fare come battere il miglio. Se non lavorava bene il padrone la picchiava. Attualmente possiede un piccolo campo in affitto ed un montone. Il campo lo paga 12.000 franchi CFA per anno (poco più di 18 euro).
Tchinko Buzaie, 70 anni, è una donna dall’aspetto imponente. Anche lei era schiava ed  è stata liberata venticinque anni fa. La ragione? Stava diventando vecchia e non aveva più la forza di lavorare, al padrone non interessava più. Non era trattata male – ci dice – col tempo lei e il padrone erano diventati come fratelli, così lui ha cominciato a farla vestire meglio, a nutrirla meglio, a farla curare quando era malata.
Nel 2008 ha ricevuto da RDM International un campo di 3 ettari, ma anche lei si lamenta perché in famiglia sono tanti, ci sono venticinque bocche da sfamare e poi, col tempo, i figli grandi si sono sposati e lei ha diviso il suo campo… insomma anche lei chiede altra terra.
Ahman Dongou è un uomo alto, asciutto, anche lui ex schiavo. Fu liberato 15 anni fa “perché oggi il mondo è cambiato e anche i maitre hanno problemi e non hanno terra da far coltivare”.
E’ nato schiavo perché figlio di una schiava, quando era anche lui schiavo doveva sempre lavorare. Si occupava dei campi e dell’allevamento del bestiame. Quando faceva male qualche cosa veniva bastonato dal padrone. Gli domandiamo perché non si ribellava e lui risponde che aveva paura di una punizione peggiore e, comunque, “questa è la tradizione”.
Si è sposato da libero, perché prima il padrone non gli aveva dato il permesso. Nel 2008 ha ricevuto da RDM International un campo di 2 ettari, ma anche lui: “Siamo otto persone di cui 2 bambini piccoli, è insufficiente…”
Abdel Nagandé
è un uomo dalla lunga barba bianca. Anche lui è un ex schiavo e ci dice che è la religione che impone a chi nasce schiavo di obbedire al padrone, fino all’affrancamento.
Il suo caso è particolare, perché il campo ricevuto in dono da RDM International è servito a riscattarlo e a farlo diventare libero. Ci racconta infatti che, essendo un uomo intraprendente, aveva approfittato del lavoro che il padrone gli faceva svolgere, di condurre i cammelli verso e dal Mali, per mettere su in proprio (e di nascosto del padrone) un commercio di sale, che gli aveva consentito di acquistare (sempre di nascosto del padrone) un piccolo campo. Quando ha ricevuto un altro campo da RDM International ha proposto al padrone di cederglielo in cambio della libertà. Quello ha accettato e adesso lui è libero e coltiva per sé e la sua famiglia di otto persone il primo campo, quello che era riuscito a comprarsi grazie alla propria intraprendenza.

Sarebbe troppo presuntuoso trarre conclusioni di carattere generale da questa modesta verifica sul campo, sembra però di poter concludere che i limiti dell’intervento assistenziale in situazioni come quella esaminata sono evidenti: per prima cosa si tratta di interventi che beneficiano solo alcune persone e non tutta la comunità, inoltre non sembrano avere effetti risolutivi. Infine – ed è la cosa più grave a parere di chi scrive – accentuano il senso di dipendenza e l’aspettativa di interventi dall’esterno.



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