Amnesty.org, 11 marzo 2013 (trad. Ossin)


L’Arabia Saudita punisce due militanti solo per avere espresso la loro opinione


La condanna di due difensori dei diritti umani a cinque e dieci anni di prigione in Arabia Saudita aggrava il bilancio di questo paese in materia di attacchi alla libertà di espressione, ha dichiarato Amnesty International lunedì 11 marzo, quando ha adottato questi due militanti come prigionieri di opinione.


Abdullah bin Hamid bin Ali al Hamid, 66 anni, e Mohammad bin Fahad bin Miflih al Qahtani, 47 anni, co-fondatori della Associazione saudita per i diritti civili e politici, una organizzazione di difesa dei diritti umani che aiuta molte famiglie di persone incarcerate senza accuse e senza processo, sono stati condannati alla pena, rispettivamente, di cinque e dieci anni di prigione.


E’ stata loro applicato anche il divieto di lasciare il territorio nazionale per una durata uguale a quella della pena, da eseguirsi dopo che avranno scontato quest’ultima.


Il tribunale ha inoltre ordinato lo scioglimento dell’associazione, la confisca dei beni ad essa intestati e la chiusura dei suoi profili sui social network.



Mohammad bin Fahad bin Miflih al Qahtani


La condanna di Abdullah al Hamid e di Muhammad al Qahtani dimostra pienamente l’incapacità delle autorità saudite a tollerare le opinioni contrarie”, ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio-Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.


“Bisogna liberare immediatamente e senza condizioni questi due difensori dei diritti umani che sono detenuti solo per avere esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione, e sono per questo dei prigionieri di opinione”.


Sabato 9 marzo 2013, il Tribunale penale di Riyadh ha dichiarato Abdullah al Hamid e Mohammed al Qahtani colpevoli di una serie di reati: disobbedienza e infedeltà al sovrano, messa in discussione della integrità dei rappresentanti dello Stato, tentativo di attentato alla sicurezza e di incitamento al disordine, con l’invito a organizzare delle manifestazioni, divulgazione di false informazioni a gruppi stranieri e creazione di una organizzazione non autorizzata.


L’accusa di messa in discussione dell’integrità di rappresentanti dello stato sarebbe da collegarsi al fatto che essi avrebbero accusato la giustizia di utilizzare come prove delle confessioni strappate con la forza.


Secondo alcuni giornalisti e militanti che erano presenti, il processo era aperto al pubblico, ma vi erano numerosi elementi delle forze di sicurezza in abiti civili, che hanno riempito la sala e di fatto impedito a taluni difensori dei diritti umani di assistere all’udienza.


Nel 2008 Abdullah al Hamid ha scontato una pena di quattro mesi di prigione per “incitamento a manifestare”, dopo avere indetto una manifestazione non violenta di donne che chiedevano la liberazione o un giusto processo per i loro parenti, detenuti senza accuse e senza giudizio.


Nel maggio 2005, è stato condannato a sette anni di prigione dopo essere stato dichiarato colpevole, tra l’altro, di “dissidenza e disobbedienza al sovrano” per avere auspicato una riforma politica nel 2004. Venne poi, insieme ad altri, liberato in virtù di una grazia reale concessa l’8 agosto 2005.


Costituita nel 2009, l’Associazione saudita per i diritti civili e politici è una delle rarissime organizzazioni indipendenti di difesa dei diritti umani dell’Arabia Saudita ed è una delle più attive.


Nel 2012, Mohammed Salh al Bajady, uno degli altri fondatori di questa organizzazione, è stato condannato a quattro anni di prigione e ad una interdizione di uscita dal territorio dello stato della durata di cinque anni, dal Tribunale penale speciale di Riyadh, costituito per giudicare i fatti di terrorismo. I suoi avvocati non furono autorizzati a rendergli visita dopo il suo arresto, né ad assistere al processo.


Si comunicò loro che il tribunale non riconosceva il diritto di assistenza in giudizio e non hanno potuto quindi nemmeno entrare nella sala di udienza, nonostante avessero atteso diverse ore davanti al palazzo di giustizia. Da quel momento Salh al Bajady ha fatto diversi scioperi della fame, ma lo hanno minacciato di punizione e di alimentazione forzata se avesse continuato.


“Il ruolo dei difensori dei diritti umani, qualsiasi sia il paese interessato, è quello di mettere in discussione e criticare le autorità se ritengano che si siano rese responsabili di atti reprensibili”, ha proseguito Philip Luther.


“Invece di sanzionare i militanti per questi motivi e per la creazione di organizzazioni di difesa dei diritti umani, le autorità saudite dovrebbero aprire un dialogo con essi. Cosa che sarebbe utile a tutti nel paese".


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