Stampa



Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 29 marzo 2015 (trad.ossin)



Yemen: Iran-Paesi sunniti, la guerra è cominciata


Alain Rodier



Dall’estate 2014 gli Al-Houthi sono all’offensiva in Yemen, attraverso il loro braccio armato, il gruppo Ansarallah. Queste tribù di religione zaydita (un ramo dello sciismo), sono appoggiate con discrezione dall’Iran, che ha trovato il modo di contrastare l’influenza dell’Arabia Saudita attaccandola alle spalle, l’altro fronte essendo costituito da quello siro-iracheno, senza considerare la più sorda minaccia costituita dalla mobilitazione sciita in Bahrein.
Partiti dal loro feudo di Saada, nel nord est del paese, nell’estate 2014, gli Al Houthi, guidati dal loro capo Abdel Malek, hanno conquistato la capitale Sanaa in settembre, poi le province della costa ovest, in alleanza con le forze rimaste fedeli all’ex presidente Ali Abdallah Saleh.



Il valzer dei presidenti


Saleh è uno sciita zaydita (1), che è stato per lunghi anni in contrasto con gli Al-Houthi, a cagione delle loro aspirazioni autonomiste. Allo stato attuale è un feroce avversario dei Fratelli Mussulmani, rappresentati in Yemen dal potente partito Al-Islah, che appoggia il governo legittimo. Saleh si oppone anche ai salafiti-jihadisti. Egli è stato costretto ad abbandonare la presidenza dopo la “rivolta yemenita” del 2011, sotto l’influenza delle primavera arabe.

Nel gennaio 2015, il suo successore – che è anche il suo ex vice-presidente – Abd Rabbou Mansour Hadi, è stato a sua volta costretto a rinunciare al mandato, dalla pressione degli Al-Houthi e dei militari felloni, e ha presentato le sue dimissioni al Parlamento, che le ha rifiutate. Ritenuto un “corrotto”, è stato posto agli arresti domiciliari, da cui è riuscito però a fuggire e a rifugiarsi a Aden, dove sono stanziate truppe lealiste e Comitati di resistenza popolare, che raggruppano milizie sunnite  a lui leali. Il presidente Mansour Hadi ha allora ritirato le dimissioni  e chiesto aiuto alla comunità internazionale. Si trova oggi in Arabia Saudita, ed ha partecipato al summit della Lega Araba tenuto al Cairo il 28 marzo. Oggetto principale di questa importante riunione era originariamente la lotta contro Daech. Le circostanze fanno sì che all’ordine del giorno vi sia oramai soprattutto lo Yemen.



Guerra su tutti i fronti


Il 20 marzo, forze di Al Qaeda nella Penisola Araba (AQPA) si sono impadronite per breve tempo della città di Al-Houta, capoluogo della provincia di Lahj, situata a nord di Aden (2). Gli Statunitensi che mantenevano una postazione militare di cento elementi delle forze speciali nella base aerea di Al-Anad (3), a una trentina di chilometri a nord di Al-Houta, l’hanno allora evacuata d’urgenza. Ciò avveniva dopo l’evacuazione dell’ambasciata statunitense di Sanaa di metà febbraio. I marine che ne assicuravano la protezione erano stati costretti ad abbandonarvi le armi, dopo averle rese inservibili. Senza volere fare paragoni, l’episodio ha ricordato la triste evacuazione nel panico dell’ambasciata USA a Saigon, nel 1975, alla fine della guerra del Vietnam. Ciononostante, sei mesi fa il presidente Obama proclamava perentoriamente, parlando della strategia statunitense di cooperazione con lo Yemen contro il terrorismo di origine salafita-jihadista: “la proseguiremo con successo per anni”.  Corre voce che gli Al-Houthi avrebbero sequestrato documenti dettagliati sulle operazioni segrete dei servizi statunitensi in Yemen e, in particolare, scoperto l’identità di una parte delle loro fonti…


Nello stesso tempo gli Al-Houthi e le forze speciali fedeli all’ex presidente Saleh si impadronivano dell’aeroporto di Taiz, la terza città del paese che controlla la più importante via di comunicazione tra Sanaa e Aden. Taiz è situata a 140 chilometri a nord della capitale yemenita. Di là, sono avanzati verso ovest, in direzione del porto di Mocha. Questo si trova sullo stretto di Ba bel-Mandeb, che controlla l’ingresso nel mar Rosso (e dunque l’accesso al canale di Suez).


Il 25 marzo gli Al-Houthi si sono impadroniti della base aerea di Al-Anad, nel corso della loro avanzata verso Aden. Le forze lealiste, che avevano ripiegato su questa importante città costiera, sono riusciti a riprendere l’aeroporto di Aden, temporaneamente caduto nelle mani dei militari felloni del generale Abdel-Hafez al-Saqqaf, un fedele di Saleh. Il Palazzo presidenziale è stato ripetutamente bombardato da aerei “non identificati”.


Il presidente è stato messo al riparo in un “luogo sicuro”. Si saprà più tardi che è fuggito via mare verso l’Arabia saudita, a mezzogiorno del 25 marzo. Nella tarda serata dello stesso giorno, la 39° brigata putschista ha ripreso l’aeroporto di Aden.


 



Scatta la controffensiva


I ribelli yemeniti sono andati troppo oltre. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), guidato da Riyadh decide di reagire a quella che considera una minaccia diretta, attribuita apertamente a Teheran. L’Arabia Saudita mobilita circa 150.000 uomini lungo i 1.800 chilometri di frontiera con lo Yemen. Da parte loro, gli USA concentrano mezzi militari a Gibuti.


Nella notte tra il 25 e il 26 marzo, una coalizione di dieci paesi lancia attacchi aerei contro gli Al-Houthi e i loro alleati. Apparecchi dell’Arabia saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrein, del Kuwait, del Qatar (che per la prima volta si ritrova alleato con Riyadh), della Giordania, del Marocco e del Sudan si impegnano nell’operazione “Decisive Storm”. Le istallazioni militari, gli aeroporti, i depositi di tutto il paese vengono bombardati. Diversi paesi si offrono volontari per partecipare anche ad eventuali operazioni di terra, tra essi l’Egitto, la Giordania, il Sudan e anche il Pakistan. Per quest’ultimo, non è questione di intervenire in Yemen, ma di “difendere l’Arabia Saudita” da ogni aggressione esterna. L’Egitto invia d’urgenza delle navi da guerra nel Mar Rosso a fronteggiare i vascelli iraniani che già incrociano nel mare di Oman, impegnati nel contrasto alla pirateria. L’Arabia saudita impone il blocco di tutti i porti yemeniti e decreta lo spazio aereo di questo paese come zona che è vietato sorvolare. Gli Statunitensi contribuiscono con aiuti logistici e di intelligence. Soccorreranno due piloti sauditi di un F-15, costretti a lanciarsi nel mare di Oman nella notte tra il 27 e il 28 marzo. Da parte sua, la Turchia si esaspera per la onnipresenza di Teheran nel Medio Oriente. La Francia, la Gran Bretagna , la Spagna e il Belgio applaudono l’operazione saudita. Mosca, Damasco, Teheran e Hezbollah libanese protestano contro “l’intervento di forze straniere” in Yemen.


Il 27 marzo si verificano degli scontri tra Al-Houthi e milizie sunnite, alle porte di Aden. L’ex presidente Saleh propone un cessate il fuoco e l’avvio di negoziati. Gli ultimi diplomatici arabi ancora presenti a Aden (dove avevano assistito alla fuga del presidente Haidi), vengono evacuati anch’essi via mare dalla marina saudita.



Quali sono gli interessi delle diverse parti?

L’ex presidente yemenita Saleh aspira a tornare al governo, in prima persona o attraverso qualcuno dei suoi. Da parte loro, gli Al-Houthi si sono sempre sentiti abbandonati e disprezzati dal governo centrale di Sanaa. Inoltre essi sono in aperto conflitto coi Fratelli Mussulmani che sostengono il regime dell’attuale presidente Hadi. E con le questioni “d’onore”, in Yemen non si scherza.


AQPA, il ramo yemenita di Al Qaeda “canale storico”, si oppone sia al regime del presidente Hadi che agli Al-Houthi, considerati “apostati”. Il problema sta nel fatto che l’offensiva vittoriosa degli Al-Houthi ha prodotto una “unione sacra” tra i separatisti del Sud Yemen, le tribù sunnite legate al presidente Hadi, i Fratelli Mussulmani e AQPA, anche se nessun accordo globale è stato formalizzato. Niente è meglio di un nemico comune per creare delle alleanze di circostanza, anche se effimere.


Aiutando con forniture d’armi e addestramento gli Al-Houthi, Teheran “accerchia” il suo avversario saudita (4). Inoltre, se gli Al-Houthi riuscissero a impadronirsi durevolmente delle coste occidentali dello Yemen, i pasdaran potrebbero inviarvi delle forze in grado di minacciare direttamente lo stretto di Babel-Mandeb, che controlla il Mar Rosso e dunque il Canale di Suez. Essi sono già in grado di chiudere lo stretto di Ormuz, grazie soprattutto alle tante batterie di missili suolo-mare, che hanno dispiegato in postazioni fortificate lungo la costa iraniana e nelle isole vicine (5). Per contro Teheran si scontra con un problema geografico vitale: lo Yemen è lontano e i rifornimenti ai ribelli possono essere impediti dalla imposizione di un blocco aereo e marittimo che già si sta organizzando. A più lungo termine, l’Iran non dispone dei mezzi finanziari per sostenere un eventuale nuovo governo, anche solo se limitato alla parte ovest del paese. Infatti dovrebbe provvedere ai bisogni elementari di una popolazione che è già estremamente povera.


Tutti i paesi sunniti della regione temono la possibile chiusura del Mar Rosso, cosa che provocherebbe una vera catastrofe per le loro economie. E’ addirittura una questione di vita o di morte per i regimi attuali dell’Egitto e del Sudan, per i quali una grave crisi economica avrebbe conseguenze fatali.


L’Arabia saudita si scontra oramai apertamente con l’avversario sciita iraniano. E’ riuscita ad assicurarsi l’alleanza del Qatar – e questa è una vittoria politica – del Pakistan – e questo le assicura un peso politico-militare impressionante – del Marocco e dei paesi del Golfo, e questo era del tutto prevedibile. La libera circolazione degli idrocarburi nel Medio Oriente è il punto cruciale di questa crisi. Prova ne sia il fatto che il prezzo del petrolio è aumentato del 6% il giorno dopo l’avvio dell’operazione “Decisive Storm” (6). La contraddizione nasce dal fatto che Riyadh ha anche altri nemici mortali: i Fratelli Mussulmani e AQPA. Sembra che la famiglia Saud abbia scelto di fissare un ordine di priorità: in primo luogo occuparsi dell’Iran e dei suoi alleati yemeniti, per poi colpire i Fratelli Mussulmani e AQPA. Non è certo che sia stata la scelta migliore, giacché i salafiti-jihadisti rappresentano oggi un pericolo di destabilizzazione assai più incombente dell’Iran, per i governi arabo-mussulmani.


Enormi incognite si profilano all’orizzonte. Che ne sarà del negoziato 5+1 sul nucleare iraniano? Quale sarà l’atteggiamento di Israele, anch’essa interessata alla libera circolazione nel Mar Rosso? I salafisti-jihadisti approfitteranno della situazione per intensificare la loro iniziativa?


Il Medio oriente si sta ricomponendo sotto i nostri occhi, ma i tamburi di guerra che risuonano non promettono niente di buono. Non si tratta di uno scontro di religione (7), ma è una questione di influenza politica: l’Arabia saudita, il Qatar, la Turchia e gli altri contro l’Iran e i suoi alleati: il mondo sunnita contro “la mezzaluna sciita”.



Note:


1. Gli zayditi rappresentano il 35% della popolazione dello Yemen.

2. Il 20 marzo, tre kamikaze si fanno esplodere nelle moschee sciite Al-Hashood e Badr di Sanaa, provocando più di 142 morti e 3000 feriti. L’operazione viene rivendicata da Daech, che annuncia altre operazioni future dello stesso tipo. Sembra infatti che l’azione sia stata posta in essere da alcuni elementi di AQPA che hanno  dichiarato fedeltà al “califfo Ibrahim”.

3. Era una base utilizzata per attività di addestramento dell’esercito yemenita, ma soprattutto funzionava come scalo per droni utilizzati per operazioni speciali.

4. A nord, l’Iraq e la Siria; a sud, lo Yemen.

5. L’altro mezzo, più temibile, è rappresentato dalle mine marine che possono essere disseminate da aerei, navi o sottomarini.

6. Prima di abbassarsi nuovamente il giorno successivo, su pressione di Riyadh.

7. Poco i leader mussulmani fanno riferimento nelle loro dichiarazioni alle divergenze religiose esistenti tra gli sciiti e i sunniti.