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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), aprile 2020 (trad.ossin)
 
Qualche fatto e alcune domande sul Russiagate
Éric Denécé
 
Fin dal momento della sua elezione alla Casa Bianca nel 2016, quale 45° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha visto continuamente messa in discussione la propria legittimità da parte della comunità dei servizi di informazione e dell’Establishment statunitense. Questi ultimi hanno accusato la Russia di ingerenza nel voto – ingerenza dalla quale sarebbe dipesa la vittoria elettorale di Trump – e, peggio ancora, hanno sospettato il presidente eletto di connivenza con Vladimir Putin, e addirittura di essere manovrato dal leder russo [1].
 
Il presidente Donald Trump
 
Si tratta evidentemente di una questione complessa. Chi scrive non è troppo interessato a stabilire se Trump sia innocente o colpevole, e se vi sia stata ingerenza russa nelle elezioni. Quel che è importante è di riesaminare la vicenda e il modo in cui è stata mediatizzata, per non accontentarsi della sola versione dei fatti presentata dall’Establishment statunitense anti-Trump e dai suoi media Mainstream, che è l’unica versione dei fatti che è stata ripresa in Europa e in Francia, nonostante essa sia parziale e dia conto solo di una parte dei fatti e delle circostanze.
 
Questa vicenda ci sembra sintomatica delle palesi derive della «democrazia» statunitense, del comportamento parziale dell’alta amministrazione e della comunità dei servizi di informazione, e della strumentalizzazione della giustizia e dei media a fini politici.
 
Dunque per decifrare il conflitto e le ragioni profonde di esso, ci accontenteremo di menzionare alcuni fatti e di porre qualche domanda.
 
Il contesto 
 
E’ essenziale prima di tutto inquadrare la vicenda in un contesto politico e geopolitico più generale.
 
Il deterioramento delle relazioni tra Russia e Stati Uniti
 
Dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti non hanno cessato di indebolire la Russia e di ridurre la sua influenza mondiale. Ricordiamo che, a causa della «annessione» della Crimea, Mosca è sottoposta a sanzioni internazionali per iniziativa di Washington – che però nessuno ha mai sanzionato per avere invaso illegalmente l’Iraq nel 2003, aiutato gli jihadisti in Siria a partire dal 2011 e sostenuto i Fratelli Musulmani durante le primavere arabe.
 
Questo eccessivo accanimento contro l’ex nemico, questo costante Russia Bashing ha provocato in Russia un profondo risentimento nei confronti degli Stati Uniti, ed è stato questo risentimento il motore della volontà di riaffermazione di Mosca sulla scena internazionale e della ripresa delle sue attività di intelligence e di sovversione. Di fronte questa ripresa di attività, Washington ha proceduto a reiterate espulsioni di ufficiali della intelligence e di «diplomatici» russi [2].
 
Non dimentichiamo, soprattutto, che l’informatore Edward Snowden è ancora rifugiato a Mosca, cosa che rende folli di rabbia i membri della comunità di intelligence statunitense e spiega il loro accanimento contro la Russia, il suo presidente e i suoi servizi di informazione.
 
Il fantasma del Deep State e la realtà dell’establishment
 
La nozione di Deep State compare regolarmente in teorie del complotto, spesso deliranti. Ciò non deve però occultare il fatto che esiste negli Stati Uniti, come nel Regno Unito, una «colonna vertebrale» della Nazione – dinastie familiari e ambienti affaristici (industrie, banche) oltre-Atlantico; aristocrazia e ambienti affaristici oltre-Manica, molto spesso provenienti dalle stesse scuole e ambienti sociali –, che non sono l’amministrazione dello Stato, ma influiscono sulla politica nazionale, cosa niente affatto anormale. Ciò garantisce a questi paesi una continuità nelle loro politiche nonostante le alternanze elettorali. Niente di segreto né di illegale, ed è per questo che appare più appropriato parlare di Establishment, piuttosto che di Deep State [3].
 
Nel corso degli ultimi decenni, si può dire che, almeno due volte, l’Establishment statunitense abbia preso in mano più o meno direttamente i destini del paese a causa delle limitate competenze del presidente eletto: con Ronald Reagan in primo luogo (1981-1989) – ex-attore già «diretto» da Rumsfeld e Cheney – e soprattutto con George W. Bush poi (2001-2009), guidato dai neoconservatori, primi tra tutti il vice presidente Dick Cheney e il segretario di Stato alla Difesa, Donald Rumsfeld.
 
La strana Giustizia di uno Stato che non è più davvero una democrazia
 
Coloro che invocano «giustizia» nella lotta ingaggiata contro Donald Trump omettono di dire che si tratta della «loro» idea di giustizia, che peraltro strumentalizzano a loro profitto [4]. Inoltre questo tipo di giustizia è propria degli Stati Uniti, dove le regole del diritto sono fondamentalmente diverse da quelle prevalenti in Europa. La «giustizia» negli USA è un’arma, un modo di agire e una fonte di business. Tutto dipende dalla pressione esercitata sugli accusati, dal patteggiamento coi giudici (cfr. la testimonianza del francese Frédéric Pierucci, arrestato nell’ambito del caso ALSTOM[5]) e dagli importi finanziari da ottenere, cosa che appare assai discutibile secondo i canoni vigenti nel nostro continente.
 
E’ importante inoltre ricordare che, dopo il 2001, il Dipartimento della Giustizia (DoJ) ha convalidato senza battere ciglio i programmi di sorveglianza elettronica di massa della popolazione, permesso arresti e detenzioni arbitrarie e l’attività degli agenti provocatori, ha convalidato le Renditions [6] e le prigioni segrete all’estero e legalizzato la tortura coi suoi giuristi, nell’ambito della Global War on Terror.
 
Occorre inoltre sapere che questa «giustizia» non è politicamente neutrale. Infatti, almeno fino a metà mandato di Trump, FBI e DoJ erano molto più vicini ai Democratici che ai Repubblicani, eredità legittima dell’era Obama. Questa situazione si è tradotta in numerose fughe di notizie contro Donald Trump verso i media nel corso delle indagini sul Russiagate. L’obiettività di FBI e DoJ deve dunque essere valutata con prudenza.
 
La capacità di mentire delle élite statunitensi
 
Prima di accordare un qualche credito a coloro che ritengono di appartenere al «campo della verità» – la comunità dei servizi di informazione e l’Establishment, che ritengono di essere gli unici depositari dell’interesse nazionale –, val la pena ricordare alcune delle vergognose menzogne di cui le élite politiche statunitensi sono state capaci nel 2003 per giustificare l’invasione dell’Iraq, nonostante l’opposizione dell’ONU.
 
Non dimentichiamo nemmeno che, dopo l’11 settembre, la comunità dei servizi di informazione, soprattutto la NSA, ha nascosto al Congresso e al presidente G. W. Bush – ma non al suo entourage neoconservatore – alcuni dei suoi programmi di sorveglianza di massa. Ricordiamo anche che, solo all’inizio del 2014, si è saputo che la CIA aveva spiato alcuni membri del Congresso che svolgevano indagini sulle prigioni segrete e ha fatto sparire prove in modo da impedire che le inchieste giungessero a qualche risultato.
 
Appare quindi difficile prendere per oro colato quello che affermano tutti questi soggetti.
 
 
Le elezioni del 2016 
 
La vittoria di Donald Trump
 
A novembre 2016, l’elezione di Trump ha colto tutti di sorpresa, probabilmente il principale interessato prima di tutti. L’Establishment, che aveva scommesso su Hillary Clinton, è stato preso alla sprovvista. Ebbene i suoi esponenti non volevano in alcun modo Trump, perché non faceva parte del «club». Ai loro occhi, è solo un parvenu, incontrollabile e inesperto, pericoloso per i loro interessi.
 
Il ruolo delle reti sociali
 
Le elezioni USA del 2016 sono state le prime in cui si è percepita la grande influenza che potevano avere le reti sociali, quando i loro proprietari – soprattutto Mark Zuckerberg per Facebook – non censuravano né esercitavano alcuna sorveglianza sulle comunicazioni elettorali.
 
Nell’occasione, molte persone hanno diffuso informazioni e dichiarazioni di ogni genere, amplificando i movimenti di opinione, la confusione e la disinformazione. Che poi possa essere anche successo che qualche Stato straniero abbia voluto testare la sua capacità di turbare o influenzare una elezione, è più che probabile.
 
All’epoca, però, il controllo di questo tipo di iniziativa sfuggiva ancora a chiunque, a Facebook in primo luogo, ma anche a coloro che erano impegnati, o avrebbero potuto essere impegnati, in operazioni di manipolazione delle elezioni o di ingerenza, vale a dire Repubblicani e Democratici, e i Russi. Tutto lascia pensare che eventuali operazioni messe in campo all’epoca avessero carattere sperimentale, in quanto non vi era sufficiente conoscenza dei risultati che si sarebbero potuti ottenere per garantire la riuscita dell’operazione. Per contro, non c’è alcun dubbio che, dopo il 2016, sulla base degli esperimenti condotti in questa occasione, i Russi – o qualunque altro Stato – hanno analizzato, misurato, osservato e tratto insegnamenti.
 
L’offensiva dei media mainstream
 
Nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha intrattenuto rapporti conflittuali coi media, denunciandone l’influenza da lui considerata particolarmente nefasta. Fin dal novembre 2016, i media mainstream, soprattutto i due più famosi, il New York Times e il Washington Post – i cui dirigenti appartengono all’Establishment – hanno immediatamente preso posizione contro il nuovo ospite della Casa Bianca a causa, tra l’altro, del suo populismo e delle sue posizioni nei confronti di alcune minoranze. Fin da subito, è cominciato un martellamento contro il nuovo eletto. Il New York Times e il Washington Post, come molti altri commentatori politici, hanno paragonato Trump a Hitler ! Questo dà un’idea del livello di tolleranza e di responsabilità di questi media, come anche del livello del dibattito politico di oltre-Atlantico. Certo, non si può negare che il nuovo inquilino della Casa Bianca sia una personalità atipica, populista e che volentieri agisca da provocatore. Ma è sufficiente questo per farne un nazista?
 
Occorre ricordare che questi media Mainstream sono gli unici ad essere letti, ripresi e citati in Europa e in Francia. E’ assai raro che i media favorevoli a Donald Trump – che sono altrettanto numerosi degli avversari e altrettanto attivi – vengano presi in considerazione, cosa che rende estremamente squilibrata la nostra informazione, senza che ce ne rendiamo nemmeno conto [7].
 
 
Il Caso
 
L’ipotetica ingerenza russa
 
E’ difficilissimo certificare che gli attacchi informatici e la manipolazione delle reti sociali siano da attribuirsi ai servizi russi o ai loro ausiliari. Da tener presente che un’operazione clandestina ben congegnata non è rilevabile e che le prove informatiche di un eventuale coinvolgimento russo… potrebbero essere state fabbricate ad arte da altri.
 
Se vi fosse davvero stata ingerenza russa, a che cosa mirava? Far vincere Trump o far perdere Hillary Clinton? Perché si accusa il GRU e non il SVR, da cui peraltro proviene Putin e al quale è più vicino, e che è il servizio che generalmente è incaricato degli interventi politici clandestini all’estero?
 
Perché i Russi hanno lasciato tante tracce (cfr. la riunione di Jared Kouchner e Don Trump Junior, nel luglio 2016, con quattro Russi alla Trump Tower; cfr. anche i contatti del generale Mike Flynn con l’ambasciata russa a Washington) ? Tecnicamente si sarebbe dovuto fare di tutto per evitare che un’operazione di ingerenza – che non neghiamo affatto possa esservi stata – fosse scoperta, sia perché ne avrebbe decretato il fallimento, sia per i rischi enormi che avrebbe comunque comportato.
 
Gli errori dei democratici e di Hillary Clinton
 
Senza le falle nel sistema di sicurezza del Partito democratico – da ricordare che non ha assunto le misure adeguate per proteggere il suo sistema di informazione – e le importanti negligenze di Hillary Clinton – che ha utilizzato un server di messaggeria personale non protetto – non sarebbe probabilmente successo niente. Gli attacchi rivolti a Donald Trump non devono far dimenticare questo fatto essenziale: i Democratici e Hillary Clinton hanno una gran parte di responsabilità nella loro disfatta elettorale. Ed è legittimo chiedersi se non abbiano approfittato del Russiagate per nasconderlo o autoassolversi.
 
Le irregolarità delle investigazioni dello FBI
 
L’Ispettore generale del DoJ, Michael Horowitz, ha consegnato al Congresso ai primi di dicembre 2019 un rapporto di quasi 500 pagine concernente le irregolarità commesse dallo FBI nell’inchiesta avviata nel 2016 contro Donald Trump e la sua squadra della campagna elettorale. La sua testimonianza è schiacciante per quanto riguarda i comportamenti del Bureau.
 
Il rapporto rivela che, nel corso di questa inchiesta, alcuni agenti e parte della gerarchia dello FBI si sono resi colpevoli di affermazioni distorte, di errori importanti e di non aver portato taluni fatti a conoscenza della Foreign Intelligence Surveillance Court (FISC) quando hanno chiesto mandati per sottoporre a sorveglianza Carter Page, uno dei consiglieri di Trump, nella speranza di dimostrare che era connivente coi servizi russi e di poter proseguire le loro investigazioni segrete contro il futuro presidente. Horowitz ha anche rilevato che un avvocato dello FBI ha modificato un e-mail ricevuta dalla CIA, per cancellare la circostanza che Page collaborava con l’agenzia.
 
Il rapporto aggiunge ancora che il Bureau non ha informato la FISC del fatto che il «dossier Steele» – nome di un ex ufficiale della intelligence estera britannica – sul quale si era appoggiato lo FBI pe giustificare le sue investigazioni, era stato pagato dal gruppo della campagna elettorale di Hillary Clinton e dal Comitato nazionale democratico, e che era stato smentito dalle autorità britanniche.
 
Nel corso della sua audizione, Horowitz non ha solo constatato «alcune irregolarità», ha osservato che l’intera inchiesta dello FBI era stata compromessa: «il sistema ha fallito. I più alti esponenti del governo hanno usato la legge a scopi personali».
 
Le inverificabili dichiarazioni di James Comey
 
L’ex direttore dello FBI, in servizio dal 2013 al 2017, viene dalla comunità dei servizi di informazione e fa parte dell’Establishment: è stato vice-presidente di Lockheed-Martin e consigliere giuridico di Bridgewater Associates, un importante fondo di investimenti. Se passa per essere una persona onesta, non necessariamente dobbiamo considerarlo neutrale.
 
James Comey ha dichiarato ai Congressmen e alla stampa di «essere stato oggetto di pressioni» e ha affermato che il presidente Trump lo ha silurato per «interferire nella conduzione dell’inchiesta sulla Russia», senza dimostrare in alcun modo tali affermazioni. Esse tuttavia hanno rafforzato i sospetti e gli attacchi contro la Casa Bianca.
 
La Commissione d’inchiesta bipartisan del Congresso
 
Le testimonianze dinanzi la Commissione di inchiesta bipartisan del Congresso, istituita per chiarire questa vicenda, si sono dimostrate per nulla convincenti e irrefutabili. La commissione si è peraltro auto-dissolta perché le sue audizioni non portavano da nessuna parte e i Repubblicani e i Democratici non hanno trovato un accordo sul punto.
 
L’inchiesta di Robert Mueller
 
Robert Mueller, ex-direttore dello FBI (2001-2013), è stato nominato procuratore speciale nel marzo 2017 per condurre un’inchiesta sui rapporti tra Donald Trump e la Russia. Poteva disporre a tale fine di 20 procuratori e 40 agenti dello FBI.
 
Mueller è ricorso a un metodo generalmente utilizzato contro i capi mafiosi: accerchiare e indebolire Trump colpendo il suo entourage. Le accuse rivolte da Mueller agli esponenti dell’entourage presidenziale non riguardavano la vicenda in esame, gli amici del presidente sono stati infatti sistematicamente inquisiti con altre accuse, pur di metterli sotto inchiesta e farli crollare. L’accordo che veniva successivamente loro offerto era semplice: la loro collaborazione nella vicenda russa contro il ritiro delle accuse o la riduzione della pena.
 
Quindi Cohen, l’avvocato di Trump, è stato indagato per frode fiscale perché Mueller sapeva che era al corrente degli affari immobiliari di Trump in Russia [8]. Gli inquirenti hanno setacciato la sua vita e le sue comunicazioni. Messi sotto pressione, tutti gli amici di Trump hanno finito col collaborare con la giustizia (Gates, Manafort, Cohen), senza per questo far decollare l’inchiesta.
 
La procedura di impeachment
 
Alle elezioni legislative di novembre 2018, i Democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, ma non al Senato.
 
A fine settembre 2019, Nancy Pelosi, presidente democratica della Camera dei Rappresentanti ha avviato la procedura di Impeachment (destituzione) contro Donald Trump dopo che un informatore appartenente alla comunità dei servizi di informazione statunitense aveva rivelato che il presidente aveva esercitato pressioni sul suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, chiedendogli di aprire un’inchiesta sul figlio di Joe Biden, ex-vice-presidente di Barack Obama e candidato democratico alle presidenziali del 2020. Trump e Zelensky hanno negato la circostanza. Difficile sapere se abbiano detto la verità.
 
Gli attacchi della stampa
 
Da quattro anni oramai, assistiamo a un vero e proprio accanimento dei media Mainstream contro Donald Trump, e questi attacchi sono spesso nutriti dalle fughe di notizie provenienti dalla comunità dei servizi di informazione [9], la cui veridicità è talvolta dubbia.
 
Tutte le informazioni divulgate in relazione a questa vicenda sono sistematicamente utilizzate contro il presidente e vengono diffuse solo quelle che lo accusano. Vengono poi ampiamente riprese dai media internazionali – compresi i francesi – che giudicano parziali i media favorevoli a Trump… Nessuno ha tentato di assumere una posizione inversa, partendo da una presunzione di innocenza per dimostrare l’assenza di prove.
 
Le risposte di Trump
 
Quando, di fronte a tali attacchi, fondati o meno che siano, Donald Trump reagisce, licenziando responsabili dei servizi [10] o ricorrendo legalmente al suo potere di grazia per proteggere alcuni dei suoi fedelissimi, gli avversari lo accusano di frapporre ostacoli alla giustizia. Certo Trump sembra avere agito in modo per lo meno discutibile chiedendo al presidente ucraino di aprire una inchiesta su Joe Biden e suo figlio, ma sembra però che questi ultimi abbiano commesso qualche malversazione o irregolarità. Adesso nessuno li critica per questo.
 
Allo stesso modo, paradossalmente, tutti quelli che attaccano Trump in ogni modo possibile se la prendono quando lui risponde. L’Establishment e i media accusano direttamente il presidente, capo dell’esecutivo, nell’intento di costringerlo a dimettersi, ma si scandalizzano se quest’ultimo attacca FBI e DoJ, sostenendo che in tal modo Donald Trump indebolisce le istituzioni, cosa che essi stessi non evitano di fare.
 
 
Le conclusioni
 
Nonostante le successive inchieste di Comey, della Commissione di inchiesta del Congresso, poi di Mueller, delle enormi risorse mobilitate (ufficiali e ufficiose), del sostegno della stampa (molteplici inchieste giornalistiche e attacchi ripetuti al presidente) ad oggi non si è riuscito a provare niente. Su nessuna delle due questioni.
 
L’assenza di prove di collusione Trump/Russia
 
Alla fine di ottobre 2016, lo FBI ha dichiarato di non avere trovato tracce di rapporti intrattenuti da Donald Trump con la Russia durante la campagna elettorale per le presidenziali.
 
A marzo 2019, dopo due anni di investigazioni e dopo avere ascoltato quasi 500 testimoni, Mueller ha consegnato il suo rapporto. William Barr, il procuratore generale – che non può essere accusato di essere pro-Trump – ne ha tratto una sintesi di quattro pagine che conclude per l’«assenza di qualsiasi collusione tra la squadra del candidato repubblicano e la Russia durante le elezioni presidenziali del 2016» e l’«assenza di qualsiasi ostacolo frapposto alla giustizia da parte di Donald Trump».
 
Il rapporto Mueller afferma che «il governo russo riteneva di poter trarre vantaggio da una presidenza Trump e ha cercato di fare in modo che questo risultato si realizzasse». Ma l’inchiesta «non ha accertato che esponenti della campagna elettorale di Trump abbiano cospirato o si siano coordinati col governo russo nelle sue attività di ingerenza elettorale». Mueller conclude anche «che non vi erano sufficienti prove dell’esistenza di una cospirazione per avviare iniziative giudiziarie contro i responsabili della campagna elettorale».
 
Anche se nessuna prova si è potuta acquisire contro il presidente e il suo entourage, però, il rapporto è ispirato da una presunzione di colpevolezza, ciò che denota l’orientamento deliberato di un magistrato e di una giustizia che avrebbero dovuto essere invece «obiettivi» ed «equi»… Infatti Robert Mueller afferma che «se il rapporto non può concludere che il presidente abbia commesso un crimine, non per questo lo assolve» e aggiunge: «Se fossimo certi, all’esito di una inchiesta rigorosa, che il presidente non ha certamente ostacolato la giustizia, lo diremmo chiaramente. Sulla base dei fatti e degli standard legali applicabili, non siamo in grado di pronunciare questo giudizio».
 
Da notare che John MacLaughlin – ex direttore della CIA ad interim (2004) – ha anch’egli dichiarato ad una televisione che i servizi statunitensi non avevano la prova che Trump fosse un agente di Putin, ma «pensano quantomeno che Putin lo manipoli… ».
 
Solo sospetti e non prove di ingerenza russa
 
Nel suo rapporto, Mueller dichiara che non v’è «alcun dubbio che lo Stato russo si sia intromesso nell’elezione presidenziale del 2016». Afferma che vi sono stati «tentativi multipli e sistematici» del governo russo durante la campagna «per nuocere alla democratica Hillary Clinton». Secondo lui, «una organizzazione russa ha organizzato una campagna sulle reti sociali che ha favorito Donald Trump denigrando Hillary Clinton». Hackers russi, vicini al GRU, il servizio di informazioni militare russo, hanno «intercettato messaggi del partito democratico e di un amico di Hillary Clinton, che sono stati poi diffusi in internet da siti anonimi, oltre che da Wikileaks che aveva ricevuto direttamente dai Russi i messaggi rubati». In assenza però di alcuna prova fornita a sostegno di tali asserzioni, è difficile giudicarne la veridicità.
 
L’interesse della Russia
 
Se effettivamente vi è stata una ingerenza russa, qual era il suo obiettivo, quale è stata la sua ampiezza, la sua efficacia? Ha davvero avuto una influenza reale sul voto? Quale vantaggio si è ottenuto dall’elezione di Trump? Quest’ultimo ha fatto la politica di Putin?
 
Se Trump è un agente, come comunica con i suoi ufficiali trattanti? Come agisce? Trasmette segreti ai Russi? Tutto ciò sembra assai difficile e poco realista dal momento che si tratta di un uomo sottoposto ad una sorveglianza fisica ed elettronica continua a causa delle sue funzioni.
 
Se così fosse, i Russi e Putin sarebbero davvero fortissimi, molto più della superpotenza statunitense la cui comunità dei servizi di informazione conta più di 200 000 persone e un budget colossale, infinitamente superiore a quanto spende Mosca per i suoi servizi.
 
Se, per contro, i Russi hanno realizzato nel 2016 solo un’operazione limitata, con l’intento di misurare cosa si poteva fare per influenzare una elezione straniera attraverso le reti sociali, si staranno adesso facendo un sacco di risate vedendo quale piega hanno preso gli avvenimenti. Inconsapevolmente, gli Statunitensi sono diventati i loro migliori alleati in questa operazione, attribuendole un’importanza inattesa a causa delle loro diatribe interne.
 
Accuse che si ritorcono contro
 
Se davvero vi è stata ingerenza russa ed essa ha avuto un’influenza significativa sul voto del 2016, questa sarebbe la prima volta che i servizi di informazione e di sicurezza statunitense prendono coscienza della loro vulnerabilità, e questo dovrebbe destabilizzarli, dal momento che sono sempre stati loro, da tempo, a manipolare le elezioni straniere. Non dimentichiamo quanti governi sono stati rovesciati dagli Stati Uniti (Iran, Venezuela, Ucraina, ecc.), che non hanno mai esitato a interferire nelle elezioni straniere per difendere i loro interessi (Italia) o quanti regimi totalitari sono stati sostenuti da Washington a scapito della democrazia (America latina, primavere arabe, ecc.). E chiediamoci se Eltsin sarebbe andato al potere nel 1991 senza l’appoggio di Washington…
 
 
Le conseguenze
 
Se è colpevole, Trump è davvero fortissimo – e Putin con lui. Sarebbe un genio del male, capace di ingannare tutti, che è riuscito da solo a battere l’Establishment statunitense, la comunità di servizi di informazione e una parte dell’amministrazione che gli è comunque in gran parte ostile.
 
Ma se è innocente…
 
Quale impatto per Donald Trump?
 
L’ospite della Casa Bianca è stato costantemente attaccato, da quando è stato eletto, sui rapporti suoi e della sua squadra con la Russia. Il suo mandato è stato molto turbato da queste inchieste. I suoi oppositori hanno in tal modo impedito a Trump di perseguire liberamente la politica che si era proposto, imponendogli questo argomento che ha modificato la sua agenda. E’ stata una vera diversione, ma non ha finito col nuocere veramente al presidente in carica.
 
Contrariamente a quanto percepiamo in Europa attraverso lo specchio deformante dei media Mainstream, gli attacchi contro Donald Trump non lo hanno indebolito come sembra. Una parte dell’opinione pubblica – prima di tutto i suoi elettori – sono convinti che egli sia vittima di una macchinazione e la sua popolarità non ne ha risentito. Può peraltro rivendicare le ottime performance economiche. Ha dunque serie possibilità di rielezione, tanto più che i suoi avversari democratici litigano continuamente e non sono ancora riusciti a riconquistarsi una certa credibilità. Inoltre, poco a poco, la crisi del covid-19 [11] sta relegando il Russiagate e le primarie democratiche in secondo piano nell’attualità mediatica, e questo è un vantaggio per Trump.
 
Comunque l prossima campagna elettorale presidenziale rischia di essere animata, perfino sanguinosa…
 
 
Note:
 
[1] Da notare che Donald Trump è stato anche accusato, durante la campagna elettorale e dopo l’elezione, di «molestie» e «aggressione sessuale», senza però essere condannato.
 
[2] 10 cittadini russi – tra cui Anna Chapman – sospetti di lavorare per Mosca nel 2010; 35 «diplomatici» e le loro famiglie nel gennaio 2017. 48 «agenti» e la chiusura di un consolato nel marzo 2018.
 
[3] Da notare che l’Establishment gioca con le parole quando afferma che non esiste un Deep State, per minimizzare la sua reale influenza.
 
[4] Cf. Eric Denécé, «Rapport Horowitz : le FBI dans la tourmente», Note d’Actualité n°569, avril 2020 (https://cf2r.org/actualite/rapport-horowitz-le-fbi-dans-la-tourmente/).
 
[5] Frédéric Pierucci e Matthieu Aron, Le Piège américain, JC Lattès, Paris, 2019.
 
[6] Rapimenti extragiudiziari all’estero.
 
[7] Da quando è stato eletto, Trump interviene soprattutto sulle reti sociali per evitare i media tradizionali, e ciò costringe questi ultimi a seguire Twitter per vedere che cosa dice il presidente… e a farsene eco!
 
[8] Cosa che Donald Trump ha sempre negato, avrebbe dunque mentito.
 
[9] James Comey, l’ex direttore dello FBI, ha confessato di averne organizzato alcune.
 
[10] Il più recente è Michael Atkinson, ex-ispettore generale dei servizi di informazione, che ha giocato un ruolo centrale nella trasmissione della denuncia all’origine della procedura di Impeachment del presidente. Atkinson è stato licenziato il 3 aprile 2020.
 
[11] Presi alla sprovvista dall’epidemia di covid-19, gli Stati Uniti hanno appena accettato l’offerta di aiuto di Mosca. Un aereo militare russo con a bordo respiratori e equipaggiamenti protettivi è atterrato il 1° aprile a New York. Ironia della sorte, i respiratori consegnati sarebbero stati fabbricati da un’impresa sottoposta a sanzioni statunitensi… ciò che la dice lunga sulla «flessibilità» statunitense quando sono in gioco i suoi interessi.
 
 
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