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Cf2R (Centre Français de Recherche sul le Renseignement), 13 gennaio 2016 (trad. ossin)
 
 
La politica estera degli Stati Uniti: un mistero?
Alain Rodier
 
 
Gli osservatori si perdono in congetture a proposito della politica estera degli Stati Uniti, cercando di individuarne le linee direttrici e, soprattutto, di capire quali siano gli obiettivi che si propone a medio e lungo termine. Un inizio di spiegazione è che l’amministrazione USA sembra essere prigioniera di una visione del mondo degna della Guerra Fredda (1945-1989)
 
Barack Obama
 
Lotta di influenza contro avversari considerati più importanti
Quando l’URSS è crollata, gli Statunitensi, leader vittoriosi del mondo libero, si sono sentiti investiti della missione (di essenza quasi divina) di trasformare gli Stati a loro immagine e somiglianza, persuasi della giustezza della loro “causa” e del carattere universale della società Made in USA.
 
Per uno strano fenomeno, la cortina di ferro non è mai veramente sparita; è stata solo spostata verso est, strangolando progressivamente la Russia con l’invasione del suo spazio strategico. I popoli che erano stati governati dai comunisti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono stati poi liberati dal loro giogo. Tuttavia sono rimasti generalmente delusi dal mondo libero, perché la realtà si è dimostrata molto diversa dal sogno. Ma la loro reazione, sapientemente orchestrata da Washington, non li ha spinti a interrogarsi sulla validità del modello di società liberale (sotto tutela USA), ma piuttosto ad accusare di tutti i mali i loro ex padroni slavi, sospettandoli delle peggiori turpitudini, in particolare di volersi riprendere quello che avevano perduto quando l’URSS è finita. Per una ventina di anni, il compito si è dimostrato relativamente facile, tanto la Russia era indebolita e incapace di reagire.
 
Gli Stati Uniti pensavano di avere risolto il problema russo, avendo riportato il paese alle dimensioni di un nano politico e militare. Si sono allora risolutamente rivolti verso la Cina, il cui sviluppo cominciava a dar loro delle preoccupazioni, Senza dubbio, il futuro degli Stati Uniti si giocherà sul Pacifico e, per Washington; è su quel versante che occorre impegnarsi. Da notare che questa idea era già assai popolare negli anni 1965/1975 e tutti ricordano il saggio di Alain Peyrefitte pubblicato nel 1973: Quando la Cina si sveglierà… il mondo tremerà. Si parlava allora di “pericolo giallo”.
 
Il Vicino e Medio Oriente, teatri che si impongono all'attenzione
Anche il Vicino e Medio Oriente passarono in secondo piano nelle preoccupazioni statunitensi, se si eccettui ovviamente “la guerra contro il terrorismo”, lanciata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che non erano veramente previsti nel programma. Colpisce che, perfino dopo gli attentati del 1998 contro le ambasciate statunitensi in Kenia e in Tanzania, Washington abbia continuato a considerare Al Qaeda come una minaccia non prioritaria. Non per colpa dei Servizi francesi che, scottati dagli attentati di Parigi del 1995, continuavano a lanciare allarmi, ma gli Statunitensi facevano orecchi da mercante. Per risolvere durevolmente i problemi in questa regione, sembrava loro evidente che i benefici delle civiltà statunitense sarebbero inevitabilmente seguiti agli interventi militari destinati a cacciare i leader retrogradi e dittatoriali di Afghanistan e Iraq.
 
Per il resto, desiderando liberarsi dei despoti, che pure avevano sostenuto per decenni nella comune lotta contro l’Internazionale comunista – ma che non avevano avuto il buon gusto di ritirarsi al momento giusto, lasciando il posto a successori eletti secondo le regole democratiche diventate universali – gli Stati Uniti decisero di servirsi dei Fratelli Mussulmani. Curiosamente costoro venivano considerati come “moderati” (1) dalla intellighenzia occidentale in generale, e da quella statunitense in particolare. E venne il tempo delle “primavere arabe” e del clamoroso fallimento della rivoluzione siriana.
 
Si sono tutti ingannati sulle capacità di resilienza di Bachar el-Assad. Perfino gli Israeliani, per quanto molto aggiornati sulla situazione del Medio Oriente, gli davano solo qualche mese di sopravvivenza. E questa errata previsione è costata loro un accordo sul Golan, che hanno respinto quando Bachar el-Assad voleva liberarsi di questo fronte per concentrare tutti i mezzi nella lotta contro la ribellione. Ecco una bella occasione mancata!
 
Questo errore di valutazione si deve principalmente al fatto che le primavere arabe avevano provocato una caduta rapidissima dei regimi tunisino ed egiziano. Logicamente, molti hanno pensato che sarebbe stato lo stesso con Bachar el-Assad, che sarebbe stato trascinato via dal “senso della Storia” (2); tanto più che gli Stati Uniti, influenzati dal pensiero neocon, mettevano in campo tutta la loro influenza per ché le cose andassero effettivamente in questa direzione. Bisogna riconoscere che i trascorsi tra il governo siriano e Washington erano assai pesanti: la guerra civile in Libano negli anni 1980 – anche la Francia ha direttamente patito i torbidi di questo periodo; le azioni terroriste fomentate da Damasco contro gli interessi occidentali, a partire dal 2003; e l’aiuto in combattenti fornito alla ribellione irachena.
 
La reazione sconciamente divertita di Hillary Clinton alla notizia dell'omicidio di Gheddafi
 
Come anche altrove, Washington ha pensato che i Fratelli Mussulmani erano il movimento ad hoc per sostenere la rivolta (siriana). Tali tesi sono state riprese con entusiasmo, soprattutto da Hillary Clinton (3) allora in affari. Seguendo il medesimo protocollo già sperimentato in Europa centrale, in Ucraina e in Egitto – attraverso ONG sedicenti indipendenti – gli Statunitensi hanno allora lanciato un’azione di influenza, utilizzando a fondo lo strumento della disinformazione. L’esempio più caricaturale è quello dell’invasione dell’Iraq nel 2003 (4).
 
La farsa di Colin Powel all'ONU, mentre "dimostra" l'esistenza in Iraq di armi di distruzione di massa mai esistite
 
Seppure il governo di Damasco non sia mai andato troppo per il sottile, le informazioni che sono state però diffuse sugli orrori che sarebbero stati commessi dalle forze lealiste erano distorte e manipolate, come era accaduto contro Gheddafi e Saddam Hussein. Come ogni disinformazione ben costruita, i professionisti della manipolazione partono da fatti reali (calvario delle infermiere bulgare, repressione feroce delle forze di sicurezza, ecc) per esaltarli e provocare l’obbrobrio nell’opinione pubblica e tra i leader mondiali, passando invece sotto completo silenzio quanto accade in paesi che veramente non rispettano i diritti dell’uomo, ma che sono considerati alleati indispensabili. A titolo di esempio, il bombardamento per errore di una scuola ad Aleppo (in Siria) da parte dei Russi suscita infinitamente più reazioni dell’analogo errore commesso dagli Statunitensi su un ospedale di Médecin sans frontières (MSF) a Kunduz, in Afghanistan. Per quanto riguarda la Siria, George Bush aveva ben avviato il lavoro, associando questo paese al cosiddetto “asse del male” (Iraq, Iran, Corea del Nord). Non aveva mai potuto digerire il fatto che, sebbene il clan Assad avesse condannato gli attentati dell’11 settembre, non avesse poi approvato l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003 (5). All’epoca anche la Francia era messa alla gogna dagli Stati Uniti, accusata di viltà. Era occorso del coraggio però a Jacques Chirac per opporsi alla volontà di Washington. In seguito i leader francesi che gli sono subentrati hanno visibilmente mutato atteggiamento, per non subire i fulmini dell’alleato statunitense.
 
Si dà ascolto ai Servizi di informazione?
Checché se ne dica, i Servizi di informazione statunitensi non erano ciechi nel Vicino Oriente in generale, e in Siria in particolare. Il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore inter-arma fino al 25 settembre 2015, si era reso ben conto che la caduta del governo di Bachar el-Assad avrebbe gettato il paese in un caos indescrivibile, nel quale gli islamisti radicali avrebbero occupato un posto dominante. Durante il suo mandato, la Defense Intelligence Agency (DIA) ha trasmesso un flusso costante di informazioni che mettevano in guardia il potere politico circa l’evoluzione catastrofica della situazione in Siria. Ma il governo semplicemente non voleva conoscere la verità. Come dice il detto popolare: “Non c’è peggior sordo, di chi non vuole intendere”. Ciò si spiega col fatto che il governo USA voleva la caduta di Bachar el-Assad nel quadro della sua idea di ricomposizione del Vicino Oriente. Tutto quanto non si conciliava con tale programma, veniva semplicemente ignorato.
 
Il generale Joseph Dunford, succeduto a Dempsey, ha dichiarato, fin dall’assunzione delle funzioni: “Se parliamo di una nazione che potrebbe costituire una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti, io indicherei la Russia. Se guardate a quello che fanno, è non meno che allarmante”. E’ sbalorditivo osservare questa giravolta degna dei neocon più ultrà, che risponde ad una volontà esclusivamente manichea di umiliare la Russia, dopo il crollo dell’URSS, indicandola come l’avversario prioritario (6).
 
Sempre per compiacere il potere politico (cui, è vero, deve il suo posto), il generale Dunford ha anche dichiarato, a proposito della Siria: “Gli USA devono cooperare con i partner turchi per mettere in sicurezza la frontiera nord della Siria (…) noi dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare le forze di opposizione siriane valide, vale a dire ‘i moderati’, a combattere gli estremisti”. Dunford ha capito una cosa: per essere credibile, bisogna seguire la direzione del vento.
 
E tuttavia, in qualche cerchio ristretto, si mormora che il presidente Obama sia un po’ irritato per come si comporta il suo omologo Recep Tayyip Erdogan. Mail presidente USA è bloccato dal fatto che ha un bisogno cruciale della base aerea di Inçirlik, geograficamente ben situata per ben realizzare la sua politica di influenza nel Vicino e Medio Oriente.
 
Erdogan, un alleato ingombrante
Erdogan gioca un ruolo estremamente torbido in Siria. Al pari dei suoi Servizi di informazione, anche lui ha pensato che il suo ex grande amico Bachar el-Assad sarebbe rapidissimamente caduto quando sono cominciate le rivolte del 2011. Essendo vicino ai Fratelli Mussulmani – cosa che non può non essere gradita a Washington, come abbiamo detto prima – ha deciso di scommettere tutto sulle “primavere arabe”, aiutando massicciamente i ribelli della Siria (ma anche dell’Egitto, della Libia e della Tunisia), senza troppo preoccuparsi delle loro reali motivazioni. Gli attivisti siriani e i volontari stranieri hanno trovato dunque un Turchia una base di retrovia particolarmente apprezzata.
 
Un episodio poco conosciuto è, secondo le autorità cinesi, il probabile coinvolgimento dei servizi segreti turchi nel trasporto dei volontari uiguri che volevano arruolarsi nel Movimento Islamico dell’est del Turkestan. Alcuni sono stati trovati in possesso di passaporti turchi. Inutile dire che Pechino è assai irritata per simili comportamenti, considerati non amichevoli.
 
Il fallimento dei Fratelli Mussulmani in Egitto, la resilienza del governo siriano, le reazioni della Russia e dell’Iran hanno tagliato corto alle ambizioni di Erdogan di diventare il leader del mondo mussulmano sunnita. Si faceva certamente delle illusioni giacché i Turchi – Storia oblige – non godono certo di una buona reputazione tra gli Arabi. Non avendo più nulla da perdere, il capo di Stato turco si affida a fughe in avanti, regolando i suoi conti coi Curdi che non gli hanno garantito il sostegno elettorale che si aspettava, dopo la sua politica di apertura interrotta brutalmente tra il 2013 e il 2015. Se tollera la presenza degli Statunitensi a Inçirlik, è perché essa costituisce una moneta di scambio con il loro assordante silenzio nei confronti della sua politica repressiva verso i Curdi, i giornalisti che non gli sono asserviti e tutti quelli che gli si oppongono.
 
Una cosa meno conosciuta è il gioco internazionale che Erdogan continua a portare avanti. Per esempio, la Turchia sta per installare una base militare di 3000 uomini in Qatar, tutte le spese a carico dell’emirato. Quest’ultimo si è anche impegnato a compensare un eventuale deficit di rifornimento di gas da parte della Russia. Da parte sua, l’Arabia Saudita dovrebbe comprare da Ankara centinaia di veicoli blindati. Questo asse Ankara-Riyadh- Doha dovrebbe contrastare l’influenza di Teheran e della Russia nel Vicino Oriente, cosa che non può non essere gradita a Washington.
 
Le relazioni con l’Arabia Saudita
Tuttavia le relazioni privilegiate intrattenute storicamente da Washington con l’Arabia Saudita attraversano momenti di turbolenza, dovute a due fenomeni:
- L’indipendenza energetica degli Stati Uniti, grazie allo sfruttamento del gas scisto; per reazione, Riyadh impone un prezzo basso al petrolio, con ciò rendendo il gas scisto e le estrazioni in acque profonde molto meno attrattive (7);
- Il fatto che la politica estera degli Stati Uniti si rivolge sempre più all’Estremo Oriente, giacché Washington è convinta che sarà lì che si giocherà il suo futuro a lungo termine, trascurando il Vicino Oriente, pur mantenendo la sua protezione verso lo Stato di Israele;
- L’accordo sul nucleare iraniano voluto da Obama con, alla fine, la revoca delle sanzioni contro l’Iran, che Riyadh considera come la maggiore minaccia.
 
Per reagire a quello che i Saud considerano un “accerchiamento” da parte degli sciiti, Riyadh è intervenuta, in Yemen, alla testa di una coalizione di paesi arabi contro l’offensiva dei ribelli al-houthi e dei seguaci dell’ex presidente Abdallah Saleh. La situazione sembra al momento in stallo e Washington non è restia a rifornire l’alleato saudita di vari tipi di bombe, che vengono regolarmente sganciate sulle città controllate dai ribelli. Curiosamente, gli orrori di questa guerra, che vede in prima linea i civili intenzionalmente costretti alla fame dal blocco saudita, non merita le prime pagine dei media occidentali, che riservano i loro titoloni al dramma siriano.
 
Bambini yemeniti uccisi dai bombardamenti sauditi
 
Il fatto che Al Qaeda nella penisola arabica (AQPA) – il braccio armato delle operazioni estere di Al Qaeda centrale – e Daesh approfittino di questa situazione di caos per radicarsi ancor più nel paese non sembra preoccupare oltre misura né Washington né Riyadh, che pure sono obiettivi mirati dei due movimenti salafiti-jihadisti. D’altra parte, la reazione della Casa Bianca all’esecuzione capitale di 47 prigionieri il 2 gennaio scorso – tra cui Nimr al-Nimr, un alto dignitario sciita – è stata più che misurata.
 
Conclusioni
Insomma, appare evidente che l’amministrazione USA guardi alla situazione internazionale con un’ottica culturale e politica che le fa intenzionalmente ignorare la realtà sul campo, perfino quando i servizi di informazione le riferiscono con onestà quanto accade. Ma i cittadini statunitensi cominciano ad avere dubbi sulla fondatezza di questa politica, tanto più che i valori morali coi quali l’interventismo viene giustificato sono messi a dura prova: Guantanamo, le torture di Abou Ghraib, le prigioni segrete della CIA, le menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein... passano per di qua. Inoltre gli Statunitensi si sentono sempre “meno amati” e non capiscono perché. Comprensibilmente accettano sempre di meno che i loro “boys” si facciano uccidere per cause che non sono le loro. Proprio questo era stato uno dei motivi del successo elettorale di Obama, la promessa di “riportarli a casa”, promessa che la realpolitik non gli ha consentito di mantenere.
 
Gli Stati Uniti si trovano attualmente in periodo preelettorale e non sono prevedibili grandi cambiamenti nei prossimi mesi. Per contro, sarebbe forse utile che gli Europei prendano un po’ le distanze dal loro partner e mettano in discussione il servilismo che li caratterizza da anni.
 
 
Note:
    [1] Se hanno rinunciato alla violenza pura e semplice, ciò non vuol dire che abbiano smesso di usare e abusare di “pressioni” più o meno vincolanti. Il meccanismo è noto: una combinazione di aiuti sociali (i fondi forniti da alcuni Stati come il Qatar non mancano) destinati ai più poveri; la promozione di una piccola borghesia religiosa in cambio della adesione di quest’ultima alla loro visione dell’islam; e voti elettorali condizionati.
    [2] La memoria è ciò che più fa difetto agli analisti. Il « senso della Storia » tanto citato dai marxisti-leninisti doveva portare l’umanità verso le « albe che cantano », al modo sovietico. Si sa che cosa ne è stato di questo concetto.
    [3] Ufficialmente non è una neocon, ma si comporta come se fosse vicina alle loro posizioni. D’altronde la corrente neocon oltrepassa la tradizionale linea di demarcazione Democratici/Repubblicani.
    [4] Già prima dell’intervento in Afghanistan della fine del 2001 (del tutto giustificato dal rifiuto dei Talebani di consegnare bin Laden, responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001), l'autore ricorda la comparsa sulla stampa di piani di sofisticati rifugi sotterranei costruiti da Al Qaeda nella regione di Tora Bora, affermazioni rivelatesi poi più che fantasiose.
    [5] La Siria ha partecipato alla coalizione internazionale che ha combattuto la Guerra del Golfo contro Saddam Hussein nel 1990-1991.
    [6] Ovviamente la Russia rilancia la palla, indicando la NATO come la sua minaccia principale.
    [7] Ciò produce l’ulteriore effetto di ridurre i proventi petroliferi dei due fornitori non veramente amici di Riyadh, la Russia e soprattutto l’Iran.