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Le Grand Soir, 24 dicembre 2014 (trad.ossin)


Chi sono i neo conservatori?

Justin Vaisse



Bisogna privarsi dell’analisi del fine analista Justin Vaisse, solo perché è stato invitato da Laurent Fabius a dirigere, dal 1° marzo 2013, il centro di riflessione della diplomazia francese al Quai d’Orsay? Questo articolo, scritto in francese, è stato pubblicato nel dicembre 2012 nella rivista USamericaine Brookings. I titoli dei paragrafi sono del presentatore


E’ stato in occasione della guerra d’Iraq del 2003, che hanno contribuito a provocare, che i neo conservatori statunitensi hanno attirato l’attenzione del mondo e sono diventati parte integrante del paesaggio delle relazioni internazionali. Essi erano apparsi però già da molto tempo sulla scena politica statunitense. La loro storia risale alla Guerra Fredda, ed è abbastanza complessa. In un primo tempo interessati soprattutto alle questioni di politica interna, i neo conservatori hanno cominciato a interessarsi delle questioni di politica estera negli anni 1970 e, soprattutto, 1980. Giacché continuano a giocare un ruolo importante nel dibattito statunitense, e conservano soprattutto una apprezzabile influenza in seno al partito repubblicano, è una storia in tre tempi che conviene conoscere.


La prima età

Agli inizi, negli anni 1960, i neo conservatori sono dei banali “liberali da guerra fredda”, vale a dire degli attivisti e intellettuali appartenenti agli ambienti liberal (nel senso statunitense del termine, dunque di sinistra) e sono fortemente anticomunisti – alcuni di loro avendo perfino flirtato col trotskismo in gioventù. All’epoca dunque non hanno nulla in comune col movimento conservatore statunitense moderno, nato nel 1955 intorno a William Buckley e al giornale National Review, e che comincia ad animare il partito repubblicano (opposizione all’intervento dello Stato, valorizzazione della responsabilità individuale e dei valori morali). In questo momento i futuri neo conservatori considerano questo movimento come eccentrico ed estraneo al loro universo politico: figli della crisi degli anni 1930 e del New Deal, essi pensano che lo Stato federale abbia un ruolo importante da giocare nell’economia e nella società.

A farli evolvere è il finimondo degli anni 1960 e il volgersi a sinistra della ideologia liberal: la rivolta studentesca, le sommosse urbane, il nazionalismo nero che rimpiazza la lotta per i diritti civili (che essi hanno sostenuto). I neo conservatori si distinguono opponendosi alla direzione che gli altri liberal vogliono imprimere al liberalismo, in quanto, da un lato, intendono sostituire i temi tradizionali di concreto progresso sociale con le nuove questioni identitarie (orientamento sessuale e liberalizzazione dei costumi, minoranze, quote e discriminazione positiva, uso delle droghe, ecc) e, dall’altro, concepiscono il ruolo dello Stato federale, non come finalizzato a promuovere questo progresso sociale come nel New Deal, ma ad abolire tout court la povertà e imporre l’uguaglianza a qualsiasi costo, attraverso vasti programmi utopici – in parole povere, l’ingegneria sociale.

Coloro che, nel corso degli anni 1960 e 1970, vengono stigmatizzati dai loro compagni come “nuovi conservatori”, come “neo conservatori”, sono intellettuali di centro sinistra, in maggioranza sociologhi e politologhi newyorkesi (Irving Kristol, Nathan Glazer, Daniel Bell, Seymour Martin Lipset, Pat Moynihan, Norman Podhoretz, ecc), soprattutto collaboratori della rivista The Public Interest. E’ questa la prima fase del movimento neo conservatore. Questi intellettuali non si oppongono allo Stato previdenziale per principio come fanno i conservatori, ma sottolineano la necessità della prudenza nelle politiche sociali. Valorizzano per esempio la legge delle conseguenze inattese delle politiche pubbliche, secondo la quale gli effetti imprevisti e indesiderabili dei programmi sociali sono più importanti degli effetti voluti – per esempio i sussidi per le ragazze madri povere diventano uno strumento di emancipazione precoce degli adolescenti nei confronti delle famiglie, così aggravando il problema della precarietà, invece di risolverlo.


Transizione

Mentre questi neo conservatori originali si spostano progressivamente a destra (essi controbattono che è il liberalismo a virare a sinistra), comincia una seconda età del movimento. Esso si sviluppa non più all’interno dei circoli intellettuali newyorkesi, ma a Washington, tra gli attivisti democratici che reagiscono alla presa del potere nel partito da parte della Nuova Sinistra, con la nomina di George McGovern a candidato per le presidenziali del 1972. Il partito si spacca tra “un’ala McGovern”, di tendenze di sinistra e isolazioniste, che sembra interessata solo alle minoranze (Neri, Latini, donne, giovani…) e un’ala centrista che cura di mantenere il legame tradizionale con la classe operaia bianca (la maggioranza silenziosa) e il cui eroe è il senatore Henry Scoop Jackson. Questi “Scoop Jackson Democrats”, o neo conservatori della seconda età, si oppongono alla deriva a sinistra del loro partito, la tentazione isolazionista, e la politica di distensione con l’URSS che l’accompagna, e propugnano un ritorno alla tradizione di Franklin Roosevelt, e soprattutto Harry Truman o John Kennedy: concreto progresso sociale all’interno, anticomunismo deciso in politica estera.


La seconda età

Poco a poco è questo secondo aspetto a prendere il posto più importante nel movimento, mano a mano, soprattutto, che gli Stati Uniti sembrano declinare e l’URSS imbaldanzirsi, nella seconda metà degli anni 1970. I neo conservatori attaccano inesorabilmente tutti coloro che propugnano una politica di accomodamento e di distensione con l’URSS, stigmatizzando la loro mancanza di fede negli Stati Uniti e mettendo in guardia il paese sul pericolo crescente che lo minaccia, pretendendo un aumento del bilancio militare e la rescissione degli accordi di limitazione delle armi nucleari. La missione degli Stati Uniti, dicono, è di difendere le democrazie (soprattutto Israele), o i regimi alleati che, pur non essendo democratici, contribuiscono alla lotta contro il totalitarismo sovietico (Taiwan, Corea del Sud, Turchia, ecc). E per battere l’URSS non bisogna negoziare, ancor meno mantenere dei rapporti commerciali, perché questo servirebbe solo a legittimare “l’impero del male” agli occhi del mondo e a prolungarne l’esistenza – con trasferimenti di tecnologie e vendite di cereali, ecc – ma bisogna adottare un atteggiamento duro, mirante ad accentuare le contraddizioni del regime per cambiarlo. Questa idea di cambiare il regime, invece di accordarsi con esso – sarà ripresa dai neo conservatori degli anni 1990 e 2000 per i piccoli “imperi del male” (Iraq, Iran, Corea del Nord, ecc).

Questi neo conservatori di seconda età finiscono con l’allontanarsi dal Partito Democratico: avevano sperato che il presidente Jimmy Carter (1977-1981) sarebbe stato il loro uomo, ma quest’ultimo si rivela fin troppo fiacco nei confronti dell’URSS e, nell’estate del 1980, la maggior parte di loro si schiera con Ronald Reagan, cui forniranno l’ispirazione ideologica – i freedom fighters (combattenti per la libertà) della dottrina Reagan in America Centrale e in Afghanistan, “l’impero del male”, la creazione del National Endowment for Democracy (NED), col compito di favorire l’esportazione della democrazia, ecc. I democratici Jeane Kirkpatrick, Richard Perle, Elliott Abrams, Max Kampelman, Carl Gershman e molti altri vi lavorano. I democratici neo conservatori vanno infine al potere, ma – ironia della Storia – per servire un presidente repubblicano. Peraltro si può notare una certa convergenza tra i conservatori della prima età, quella della seconda età (soprattutto raccolti intorno alla rivista Commentary) e il movimento conservatore nel suo insieme – anche se ciascuno conserva la sua identità ideologica.


I neo conservatori di oggi

Quanto ai neo conservatori di oggi, quelli della terza età, essi sono eredi diretti della seconda età. Dopo una traversata nel deserto seguita alla caduta del Muro di Berlino, e diversi annunci di decessi prematuri a metà degli anni 1990, un nuovo avatar del neo conservatorismo apparse nel 1995 attorno al settimanale The Weekly Standard, questa volta chiaramente collocato a destra, lato repubblicano, e quasi esclusivamente centrato sulla politica estera. I neo conservatori del 1990-2012 vogliono Stati Uniti interventisti, in modo unilaterale se occorre, che plasmino il sistema internazionale piuttosto che lasciare che altre forze – magari ostili – lo facciano, Stati Uniti che favoriscano la democrazia contro la tirannide, certamente per ragioni morali, ma anche perché è il solo regime che assicuri la pace e la sicurezza a lungo termine (le democrazie non si fanno la guerra tra di loro). Per questo gli Stati Uniti devono restare forti militarmente: nella loro visione del mondo, l’hard power resta la chiave delle relazioni internazionali, e gli Stati Uniti non devono lasciare erodere i propri margini di superiorità, né contro La Cina, né contro altre potenze.

Questo “wilsonismo con gli stivali” (secondo l’espressione di Pierre Hassner) si ispira in parte alle teorie dell’eccezionalità USA ed allo spirito patriottico e missionario. In questo senso, i neo conservatori della terza età – da Robert Kagan a William Kristol (figlio di Irving), da Paul Wolfowitz a Doug Feith, Max Boot ed Elliott Abrams – non hanno niente di molto “conservatore” e si collocano agli antipodi, sia delle prudenza pragmatica degli altri repubblicani, quelli della scuola realista (Richard Nixon e Henry Kissinger, George Bush padre e i suoi consiglieri Brent Scowcroft e James Baker, Colin Powel, ecc), che dello scetticismo dei neo conservatori originali, gli intellettuali newyorkesi, nei confronti dei grandi scenari politici volontaristici.  E’ questo che dimostra con evidenza la loro campagna in favore di un intervento in Iraq, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che offrono un contesto politico propizio alla loro visione. La loro influenza è stato uno dei fattori che ha pesato sulla decisione di G W Bush nel 2003, anche se i neo conservatori, da imperialisti consapevoli, ben decisi a realizzare la stabilizzazione dell’Iraq, hanno costantemente reclamato più uomini e più mezzi, contrapponendosi in tal modo a Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa.

Ciò che oggi peraltro dà ad essi la scusa per scaricare ogni responsabilità.
Nonostante numerosi osservatori abbiano pronosticato la fine del neo conservatorismo a causa del fiasco iracheno, essi restano assai presenti nel dibattito pubblico a Washington. Naturalmente non hanno alcuna influenza sull’amministrazione di Barack Obama. Ma essi costituiscono la più importante forza di politica estera in seno al partito repubblicano, al punto tale che le correnti di pensiero concorrenti – il realismo e l’isolazionismo – sembrano essere scomparse. L’entourage e il programma del candidato John McCain, nel 2008, erano essenzialmente neo conservatori, e lo stesso vale per quelli del candidato Mitt Romney nel 2012. Quest’ultimo aveva promesso aumenti nel bilancio della Difesa nonostante la gravità del deficit, e ha adottato una linea di contrapposizione dura nei confronti della Russia e della Cina, accusando Obama di essersene andato per il mondo a scusarsi per la potenza statunitense.

I neo conservatori giocano peraltro un ruolo considerevole nel dibattito di politica estera di Washington, anche oltre i circoli repubblicani. Così, quando ci fu la “primavera di Teheran” nel giugno 2010 e poi durante le “primavere arabe” del 2011, diversi di loro (Robert Kagan, Elliott Abrams, Paul Wolfowitz soprattutto) sono stati i primi a chiedere di sostenere le sollevazioni democratiche in Medio Oriente. E la cosa, d’altronde, non era affatto scontata, tenuto conto degli stretti rapporti di alcuni di loro con gli Israeliani, che pure sono stati assai sospettosi, e per lo più ostili alle primavere arabe. Ma l’idea che a lungo termine gli Stati Uniti avrebbero potuto trarre benefici dalla democratizzazione della regione ha preso il sopravvento, e i loro appelli per un’azione risoluta in Egitto o in Libia sono stati largamente ascoltati.  
 

I neo conservatori hanno un futuro?

Non v’è dubbio che il mondo sembra prestarsi sempre meno all’approccio neo conservatore. Diversamente dagli anni 1990 e 2000, il peso relativo degli Stati Uniti declina nel confronto con le potenze emergenti, e gli USA soffrono di diversi mali seri, soprattutto il debito. E tuttavia non bisogna attendersi che il movimento sparisca. Per la sua natura ciclica, il rapporto degli USA col mondo ripasserà un giorno o l'altro per una fase di estroversione, di affermazione di sé e di interventismo. Quel giorno, i neo conservatori ritorneranno influenti e peseranno sul destino degli Stati Uniti e su quello del mondo, come è stato agli inizi degli anni 1980 e agli inizi degli anni 2000. Perché, se l’ideologia neo conservatrice è storicamente datata, essa esprime anche delle correnti profonde dell’anima statunitense – eccezionalismo, wilsonismo, nazionalismo – e si appoggia ad una infrastruttura – uomini, riviste, istituzioni – che non hanno alcuna intenzione di sparire.