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ProfileIntervento, 18 maggio 2018 - Intervista a Nicola Quatrano sul programma del costituendo governo 5stelle-Lega, in materia di giustizia (nella foto, Nicola Quatrano)   

 

Il Dubbio, 18 maggio 2018
 
C'è sempre un nuovo più nuovo del nuovo che ti innova
Intervista a Nicola Quatrano
 
Intervista all’ex magistrato magistrato anticamorra Nicola Quatrano sulla misure in materia di giustizia minorile inserite nel contratto Lega-M5S
 
L'ex magistrato napoletano, oggi avvocato, Nicola Quatrano
 
«Come gettare benzina sul fuoco». Nicola Quatrano, storico magistrato anticamorra del Tribunale di Napoli e oggi avvocato, commenta così le proposte di modifica del sistema giustizia e dell’ordinamento penitenziaro contenute nel contratto Lega- 5 Stelle: previsioni che «rischiano solo di peggiorare la situazione e che vanno contro ogni logica di riduzione del danno».
 
La bozza di contratto prevede che, “a fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali da parte di minori, occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità e l’esecuzione della pena per il minore”. E’ una possibile risposta a un fenomeno che effettivamente esiste?
 
Il problema della crescita della violenza giovanile esiste e una risposta serve. Questa di inasprire le pene, tuttavia, è la più semplice e anche la più sbagliata. Certo, capisco che faccia gioco nel mercato del consenso, eppure si tratta di un fenomeno che in qualche modo è frutto proprio dell’inasprimento delle pene.
 
In che modo la violenza giovanile è un prodotto del sistema penale attuale?
 
Le cosiddette “paranze dei bambini”, le violenze dei giovani latinos al nord, le bande dello spaccio a Milano sono tutte espressioni di un disagio che si alimenta di esclusione sociale. Il fenomeno dell’esclusione sociale giovanile è riconosciuto anche da Lega e 5 Stelle quando parlano della disoccupazione, ma è questo stesso disagio che può assumere forme violente: si tratta di ragazzi che si sentono di contare meno di niente e che cercano nella violenza una manifestazione di riscatto del proprio essere nulla. Questo quadro non giustifica le loro azioni, ma dovrebbe condizionare l’approccio alla questione: se il tema è quello dell’esclusione, non è possibile combatterlo con ancora maggiore esclusione attraverso il carcere, ma si dovrebbero mettere in campo progetti di inclusione sociale.
 
La soluzione prospettata dalla bozza di contratto di governo, quindi, peggiorerebbe la situazione?
 
Aumentare le pene, abbassare l’età di imputabilità, togliere i bambini ai mafiosi: sono tutte parole d’ordine facili e di grande successo, ma chi le pronuncia gioca col fuoco, perchè alimenta più che reprimere questi fenomeni.
 
Altra parola d’ordine è la “certezza della pena”, che viene inteso come un ridimensionamento tranciante delle misure alternative al carcere.
 
Quella della pena certa è una falsificazione della realtà: la pena deve essere certa, ma il carcere non è la sola forma di pena e la stessa Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla riabilitazione. La semilibertà e la liberazione anticipata oppure l’affidamento in prova sono delle pene che nel caso specifico vengono ritenute più adeguate a tutelare la società, perchè servono ad evitare che il detenuto incappi nella recidiva grazie ad un percorso di reinserimento sociale. Anche in questo caso siamo davanti a un punto del programma che suscita l’applauso dell’opinione pubblica, vittima di una percezione alimentata dai professionisti della paura, ma che non serve a nulla. Se il detenuto non ha speranza di recupero, chi delinque continuerà a farlo per sempre e non mi sembra un’intelligente prospettiva criminologica.
 
Quale sarebbe, invece, una linea intelligente?
 
Guardi, non dico di tornare a Cesare Beccaria, ma almeno ad Alfredo Rocco, che licenziò un codice penale fascista ma che era splendido rispetto alle innovazioni annunciate in questi giorni, perchè almeno era ispirato al principio della riduzione del danno. Partiva, cioè, dall’idea pessimistica ma realista che non è possibile impedire la commissione di reati e che dunque bisogna indirizzare il delinquente a commettere quelli meno gravi, grazie ad una distinzione molto accurata delle pene.
 
Alzare la pena per i reati di furto non ha senso, in questa logica?
 
Io credo che serva un sistema penale secondo il quale chi decide di rubare, preferisca commettere furto semplice e non rapina a mano armata. Se invece le due sono sullo stesso piano dal punto di vista della pena, è evidente che si incoraggia la rapina.
 
A fronte di un inasprimento delle pene, è prevista anche la legittima difesa domiciliare.
 
Una previsione che scardina il nostro sistema di difesa. Sostanzialmente, stabilisce che la protezione personale non sia più delegata allo Stato ma sia fatta in proprio dai privati. Questo stesso sistema, negli Stati Uniti, ha provocato le conseguenze sociali che tutti conosciamo in termini di violenza, ma soprattutto va contro il principio di riduzione del danno di cui prima dicevo.
 
Come si collegano l’inasprimento delle pene e la legittima difesa domiciliare, dal punto di vista della riduzione del danno?
 
Come dicevo prima, posto che un ladro che entra in casa per rubare purtroppo ci sarà sempre, l’ordinamento dovrebbe incentivare il fatto che entri disarmato. Se però il ladro sa che la pena per il furto e la pena per la rapina a mano armata è la stessa e che il proprietario di casa potrebbe legittimamente essere armato, sarà più facile che anche lui si presenti con una pistola e anche che spari per primo.
 
Esiste una ratio intorno a queste posizioni di Lega e 5 Stelle?
 
A A me sembra un modo di trovare soluzioni facili, scherzando col fuoco. La nostra società oggi è piagata dalla violenza, ma in questo modo la situazione rischia di peggiorare e solo perchè qualche forza politica smania nel mostrarsi più nuova delle altre.
 
Davanti allo scenario che ha tracciato, magistratura e avvocatura dovrebbero intervenire?
 
Certo. Non parlo tanto dell’avvocatura, che ha sempre dimostrato particolare sensibilità, penso invece che la magistratura – o almeno quella associata – abbia completamente perso di vista questi temi. Ci sono tanti singoli magistrati che la pensano in modo diverso, ma la magistratura associata non sa fare altro che chiedere leggi repressive, più tutele per i pm, intercettazioni telefoniche e prescrizioni meno lunghe.
 
Lei è stato magistrato per una vita, non le sembra un giudizio duro?
 
La magistratura in cui entrai io è quella che nel 1978 si impegnò per il referendum contro la legge Reale, che conteneva un duro inasprimento della legislazione penale durante gli anni di piombo. Era una magistratura democratica che oggi non vedo più e questa è stata una delle ragioni per cui l’ho lasciata, diventando avvocato.