Stampa

 

ProfileLe schede di Ossin, 27 gennaio 2019 - Prosegue l'importante analisi di Ron Unz su un argomento estremamente controverso. Come l'Olocausto è diventato una religione nella società globalizzata, la cui negazione è reato in molti paesi (nella foto, un momento del processo di Norimberga)     

 

The Unz Rewiev, 27 agosto 2018 (trad. ossin)
 
Pravda statunitense. La negazione dell'Olocausto – parte seconda
Ron Unz
 
Parte Prima
 
Non avevo mai accordato troppa attenzione alle questioni dell’Olocausto, ma la  biblioteca di Palo Alto organizza una vendita annuale di libri e così la mia biblioteca personale è cresciuta di centinaia di volumi nel corso degli anni, anche coi testi più importanti sull’Olocausto. Oltre allo studio classico di Hilberg, avevo The Holocaust di Nora Levin (1968), The War Against the Jews, 1933-1945 di Lucy Dawidowicz (1975), The Holocaust di Martin Gilbert (1985) e Hitler’s Willing Executioners di Daniel Goldhagen (1996). Non pretendo di avere alcuna specifica competenza su questo tema e non sono affatto in grado di valutare le prove e gli argomenti offerti da queste opere voluminose. Ma decisi di valutarne la loro complessiva attendibilità, approfondendone qualche punto particolare, senza darmi la pena di leggere tutte le migliaia di pagine di cui si compongono.
 
Un momento del Processo di Norimberga
 
Prendiamo l’interessante caso del maresciallo Erhard Milch, numero due dopo Hermann Goering della Luftwaffe. Il padre era certamente ebreo e, secondo Robert Wistrich et Louis Snyder, vi sono prove di archivio che lo fosse anche la madre. Non è certo impossibile che un III Reich, ritenuto votato al fanatico progetto di sterminio di tutti gli ebrei, avesse un ebreo completo, o almeno a metà, collocato al vertice della sua gerarchia militare, ma certamente questa sconcertante anomalia richiederebbe una spiegazione minuziosa, e le origini ebraiche di Milch erano certamente conosciute durante il processo di Norimberga. Tuttavia, consultando accuratamente gli indici dei cinque volumi, complessivamente più di 3 500 pagine, Milch non compare praticamente mai, salvo qualche breve menzione del suo nome in relazione a diverse operazioni militari. O gli autori non conoscevano l’origine ebraica di Milch, o hanno cercato di tenerla nascosta per non creare «confusione». Questa vicenda non rafforza la fiducia nella loro competenza o nella loro obiettività scientifica.
 
In effetti l’affascinante e apprezzatissimo libro Hitler’s Jewish Soldiers di Bryan Mark Rigg, del 2002, nota che, oltre a Milch, nell’esercito di Hitler c’era più di una dozzina di generali e ammiragli per metà ebrei, e altrettanti che lo erano per un quarto, più un totale di circa 150 000 soldati ausiliari per metà o un quarto ebrei, gran parte dei quali ufficiali. Tutti avevano dei genitori o dei nonni interamente ebrei e la cosa pare strana in un regime che si pensa avesse l’obiettivo del totale sterminio degli ebrei.
 
C’è anche un’altra questione che pone in dubbio la qualità storica di questi cinque volumi che raccontano la narrazione standard dell’Olocausto. Qualsiasi Pubblico Ministero cerca sempre un movente e, nel caso dell’Olocausto, agli autori sarebbe dovuto venire facile. Hitler e i suoi avevano sempre sostenuto che gli ebrei avevano un ruolo predominante nel comunismo bolscevico e che dunque la lotta contro i primi serviva a impedire altri atti sanguinari da parte del secondo. Dedicare dunque il primo capitolo a questa centrale dottrina nazista sarebbe stata una buona spiegazione delle ragioni che hanno spinto i nazisti a perpetrare il loro diabolico massacro, e delle altre orribili vicende raccontate nel resto dei libri.
 
Curiosamente però, nei loro indici, i termini «bolscevichi», «comunismo» e tutte le altre varianti, quasi non compaiono. Il libro di Goldhagen del 1996 contiene solo qualche breve frase sparsa tra le 600 pagine, e le altre opere sembrano non parlarne proprio. Poiché tutti questi libri sull’Olocausto tralasciano quasi del tutto il movente autodichiarato di Hitler per le sue azioni anti ebraiche, essi sono costretti a trovare disperatamente delle spiegazioni alternative, cercando indizi nel passato profondo tedesco o abbozzando spiegazioni psicoanalitiche, e talvolta assumendo che quello che essi considerano il peggior massacro di tutta la storia dell’umanità sia stato commesso per pura malvagità nazista.
 
La ragione evidente sta nel fatto che, nella narrazione di questi autori, gli ebrei sono dipinti come vittime assolutamente irreprensibili, e anche solo fare allusione al loro ruolo nelle tante atrocità comuniste che hanno preceduto l’avvento del III Reich avrebbe dato una cattiva impressione al lettore. Quando dei sedicenti storici fanno sforzi così assurdi per nascondere fatti evidenti, si dimostrano solo dei propagandisti, e bisogna essere assai cauti nel considerarli affidabili e in buona fede.
 
In effetti la questione del comunismo ne solleva una ancora più ampia, dalle implicazioni piuttosto delicate. Talvolta due semplici componenti sono inerti se presi separatamente, ma combinati tra loro possono acquistare una forza esplosiva enorme. Sulla base delle mie nozioni storiche, alcune cose mi sono sempre sembrate evidenti, anche se le conclusioni non potevano essere divulgate, e suppongo siano sembrate evidenti anche agli altri. Nel corso degli anni, ho cominciato a chiedermi se non avessi ragione.
 
Alla fine della Guerra Fredda, il numero di civili innocenti uccisi durante la rivoluzione bolscevica e nei primi due decenni del regime sovietico era calcolato in diverse decine di milioni, comprendendovi anche le vittime della guerra civile russa, della carestie, dei Gulag e delle condanne a morte. Ho sentito dire che queste cifre sono state notevolmente ridimensionate, ridotte forse a una ventina di milioni, ma poco importa. Per quanto i nostalgici dell’URSS possano contestare questi numeri tanto elevati, essi fanno parte della storia tradizionale insegnata in Occidente.
 
Allo stesso tempo, tutti gli storici sanno perfettamente che i leader bolscevichi erano per lo più ebrei, tre dei cinque rivoluzionari scelti da Lenin come suoi successori possibili erano tali. Nonostante che solo il 4% della popolazione russa fosse ebrea, Vladimir Putin ha dichiarato qualche anno fa che gli ebrei costituivano forse l’ 80-85% del primo governo sovietico, una stima del tutto coerente con le affermazioni contemporanee di Winston Churchill, del corrispondente del Times of London, di Robert Wilton, e degli ufficiali della intelligence militare USA. I recenti libri di Alexandre Solgenitsin, Yuri Slezkin e altri hanno tutti dipinto un quadro assai simile. E prima della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei erano superpresenti nella direzione comunista, specie nella amministrazione dei Gulag e nei ranghi superiori del temibile NKVD.
 
Questi due semplici fatti sono stati diffusamente accettati negli Stati Uniti nel corso della mia vita. Ma combinateli con il numero relativamente ridotto di ebrei nel mondo, circa 16 milioni prima della Seconda Guerra mondiale, e la conclusione ineluttabile è che, paragonati al loro numero complessivo, gli ebrei sono stati i più grandi assassini di massa del XX secolo, meritando questa terribile distinzione con un margine enorme e senza che nessun altra nazionalità possa avvicinarsene, neppure da lontano. E però, attraverso uno sbalorditivo trucco di Hollywood, i peggiori assassini degli ultimi cento anni sono stati in qualche modo trasformati nelle più grandi vittime, una trasformazione tanto poco plausibile che le generazioni future ne resteranno certamente stupefatte.
 
I neocon statunitensi di oggi sono ebrei come lo erano i bolscevichi di cento anni fa, e hanno tratto grandi benefici dall’immunità politica fornita da tale inversione completamente bizzarra della realtà storica. Anche per merito della loro immagine fabbricata dai media di vittime, sono riusciti ad assumere il controllo di gran parte del nostro sistema politico, soprattutto in politica estera, e hanno passato gli ultimi anni a fare il possibile per fomentare guerre insensate contro la Russia, paese dotato di armi nucleari. Se riusciranno in questo, supereranno certamente il numero impressionante di morti accumulati dai loro antenati etnici.
 
Frodi e confusione in tema di Olocausto
 
Siccome l’Olocausto è diventata questione importantissima solo quando i ricordi della guerra si erano dissolti, la sua storia sembra risentire della «sindrome della memoria ritrovata». Verità e bugia si confondono e la questione si presta a essere il terreno di un’enorme quantità di frodi e mentitori. Mi ricordo per esempio che, alla fine degli anni 1970, molti miei compagni di classe hanno divorato The Painted Bird di Jerzy Kosinski, forse il primo racconto popolare dell’Olocausto. Ma qualche anno dopo i media hanno scritto che questo best-seller nazionale era un plagio e l’autore alla fine si è suicidato. In effetti vi sono stati tali e tanti falsi racconti storici sull’Olocausto nel corso degli anni, da costituire un vero e proprio genere letterario.
 
Il più noto sopravvissuto dell’Olocausto è stato senz’altro Elie Wiesel, diventato per questo una vera celebrità politica. Gli è stato conferito il Nobel per la pace nel 1986, facendo di lui un «ambasciatore dell’umanità». Il giornalista Alexander Cockburn, però, ha dimostrato in modo convincente che Wiesel era un imbroglione e che la sua famosa opera autobiografica, Night, era solo una bufala letteraria.
 
Nonostante il tema emblematico dei «Sei Milioni» sia stato ripetuto all’infinito dai media, le stime dei morti sono molto variate nel corso degli anni. Per quanto non particolarmente interessato al tema, pure ho letto per decenni giornali e riviste e vi ho regolarmente trovato la notizia che la macchina assassina nazista aveva brutalmente sterminato cinque milioni di Gentili e sei milioni di Ebrei. Solo l’anno scorso ho scoperto stupefatto che queste cifre erano solo un’invenzione dell’eminente militante dell’Olocausto, allo scopo di attribuire ai non ebrei un ruolo più importante nella storia dell’Olocausto. E nonostante non si fondi su alcuna prova o ricerca, la sua disinvolta affermazione non è mai stata messa in dubbio dai veri specialisti dell’Olocausto che sapevano trattarsi di un assoluto non-senso, ed è per questo che è stata regolarmente ripetuta nei media e che l’ho letta nel corso degli anni probabilmente centinaia di volte, sempre supponendo fosse vera e dimostrata. Allo stesso modo, per decenni, ho sempre creduto che il fatto che i nazisti avessero sterminato 4 milioni di detenuti ad Auschwitz, la maggior parte dei quali ebrei, fosse indiscutibile, e Lipstadt ha fornito queste cifre come una realtà storica indiscutibile. Ma all’inizio degli anni 1990, dopo la caduta del comunismo, la cifra ufficiale è stata rivista in basso, portandola a soli 1,1 milioni. E il fatto che questa riduzione del numero ufficiale delle vittime di 3 milioni abbia avuto tanto modesto impatto sulla narrazione pubblica dell’Olocausto nei media non ispira alcuna fiducia verso le cifre e i reportage dei media su tale tema.
 
Nel corso delle due ultime generazioni, i nostri media hanno impresso questa cifra di 6 milioni tanto profondamente nello spirito di ciascun cittadino occidentale, che oramai basta dire “6 milioni” per capirsi, e chi la mette in discussione rischia la prigione in molti paesi europei. La sua origine è però piuttosto oscura. Secondo qualcuno, dei gruppi ebraici fecero pressioni sul presidente Truman perché la citasse in un suo discorso, e poi i media l’hanno ripetuta fino ad oggi. Un attivista di internet arrabbiato ha formato un grafico realizzato sugli estratti di dozzine di articoli del New York Times scritti tra il 1869 e il 1941, che parlano di 6 milioni di ebrei dell’Europa dell’est minacciati di morte, suggerendo che le cifre ufficiali dell’Olocausto siano di molto precedenti alla Seconda Guerra mondiale. Io non sarei affatto sopreso se fosse questa la fonte originale di questo numero.
 
A volte, la creazione di una nuova bufala sull’Olocausto è stata evitata solo per un soffio. Durante la maggior parte del XX secolo, Ebrei e Neri sono stati alleati stretti negli USA, i leader della NAACP (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, ndt) erano quasi tutti ebrei, come anche la maggior parte dei consiglieri bianchi di Martin Luther King Jr e una grandissima parte dei più importanti attivisti bianchi impegnati nel movimento per i diritti dei Neri negli anni 1950 e 1960. Ma, alla fine degli anni 1960, c’è stato uno scisma, giacché molti giovani militanti neri si mostrarono ostili a quella che percepivano come una schiacciante influenza ebraica, mentre altri Neri, musulmani o meno, cominciarono a schierarsi coi Palestinesi contro Israele. Questo crescente conflitto si acutizzò durante la campagna presidenziale di Jesse Jackson nel 1988, toccando il punto culminante nella città di New York agli inizi degli anni 1990. Un gruppo di cineasti ha tentato di risolvere la disputa producendo nel 1992 un gran documentario dal titolo The Liberators, che raccontava come le truppe di Neri USA fossero state tra le prime a prendere il controllo dei campi di concentramento di Buchenwald e di Dachau, liberando in tal modo le decine di migliaia di ebrei ivi detenuti. Un racconto storico di una tale risonanza simbolica profonda si è subito guadagnato l’appoggio dei leader neri ed ebraici, con Jesse Jackson a condividere la scena con dei sopravvissuti dell’Olocausto e diverse personalità ebraiche durante la prima ad Harlem, e il film ricevette una nomination agli Oscar. Tuttavia, a inizio febbraio 1993, Jeffrey Goldberg confidava a The New Republic che la storia era una bufala inventata di sana pianta. Benché la co-produttrice ebrea del film abbia denunciato rabbiosamente queste critiche come razziste e negazioniste dell’Olocausto, le accuse sono state mantenute e sono state alla fine riprese dal New York Times e da altri grandi media. Le più importanti organizzazione ebraiche e i centri dell’Olocausto che avevano promosso il film si sono affrettati a prendere le distanze e, nel 2013, perfino il Times of Israel ha ricordato il ventesimo anniversario di quella che veniva descritta come una bufala notoria. Io sospetto che, se le cose fossero andate un po’ diversamente, la storia si sarebbe talmente impressa nella narrazione canonica dell’Olocausto che chiunque oggi la mettesse in discussione verrebbe insultato e accusato di razzismo.
 
Qualche anno prima, The New Republic era infatti stato avanguardia della promozione di un’altra bufala che riguardava sempre questioni ebraiche, una bufala che avrebbe potuto avere implicazioni politiche internazionali più importanti quando Joan Peters, una sconosciuta scrittrice ebrea, ha pubblicato un’opera storica nel 1984. Vi affermava che ricerche archivistiche approfondite avevano dimostrato che i Palestinesi di oggi non erano originari della Palestina, ma immigrati recenti, attirati dall’importante sviluppo economico prodotto dalle colonie sioniste che li avevano in realtà preceduti. Le sue conclusioni scioccanti sono state oggetto di centinaia di critiche elogiative e di approvazioni accademiche nei media mainstream e di élite statunitensi, e il suo libro è diventato immediatamente un enorme best-seller. Dawidowicz e Wiesel, due eminenti personalità ebraiche dell’Olocausto, si sono fatti avanti per elogiare questo importantissimo studio che sembrava suscettibile di demolire completamente le rivendicazioni dei Palestinesi espulsi, rimodellando così la natura del conflitto in Medio Oriente a vantaggio di Israele.
 
Però un giovane studente laureato in storia a Princeton, Norman Finkelstein, molto interessato alla storia del sionismo, rimase assai sorpreso da queste scoperte e decise di approfondire. Quando ha cominciato a verificare accuratamente le note e le fonti citate, ha scoperto che erano del tutto false, e questa ricerca sedicente rivoluzionaria era solo una bufala, che qualcuno poi ha detto essere stata scritta da un servizio di intelligence e semplicemente pubblicata col nome di Joan Peters. Per quanto Finkelstein abbia ampiamente reso note le sue importanti conclusioni, esse sono state del tutto ignorate da giornalisti, universitari e organizzazioni di media, con l’unica eccezione di Noam Chomsky, e la bufala di Joan Peters avrebbe potuto minare il fondamento giuridico delle rivendicazioni palestinesi. Ma alcune pubblicazioni britanniche indipendenti hanno finito col recepire queste informazioni, e l’ondata di imbarazzo mediatico che ne è seguita ha fatto sì che le affermazioni di Peters cadessero nell’oblio. Nel frattempo Finkelstein stesso ha subito gravi rappresaglie e, secondo Chomsky, è stato completamente messo da parte dal dipartimento di Princeton e da tutta la comunità accademica.
 
Più di una dozzina di anni dopo, i lavori di Finkelstein sono stati oggetto di una seconda grande controversia. Alla fine degli anni 1990, alcune organizzazioni ebraiche internazionali tentarono di estorcere diversi miliardi di dollari alle maggiori banche svizzere, sostenendo che erano di proprietà degli ebrei europei morti durante l’Olocausto. Quando all’inizio le banche hanno resistito, affermando che non era stata presentata alcuna prova solida a sostegno di richieste tanto esorbitanti, sono state oggetto di critiche severe dai media dominati dagli ebrei statunitensi, e la lobbie ebraica ha spinto il governo USA a minacciare sanzioni finanziarie severe che avrebbero potuto distruggerle. Di fronte a simili pressioni estorsive, le banche alla fine hanno ceduto e hanno pagato la gran parte delle somme richieste alle organizzazione ebraiche che avevano guidato la campagna, in quanto gli ipotetici eredi ebraici non si potevano individuare.
 
Questo fatto indusse lo storico Finkelstein a pubblicare nel 2000 un libretto intitolato The Holocaust Industry (L’industria dell’Olocausto), nel quale critica severamente ciò che definisce una impresa ebraica mondiale con fini di lucro, impegnata a trarre ingiuste ricchezze a nome delle ipotetiche vittime dell’Olocausto, spesso con poca considerazione per la verità o la giustizia. Per quanto quasi del tutto ignorato dai media statunitensi, il libro è diventato un best-seller in Europa, e questo ha finito col costringere anche le pubblicazioni statunitensi a parlarne. Tra le altre cose, Finkelstein scrive che, più di mezzo secolo dopo l’Olocausto, il numero di sopravvissuti ufficiali è talmente cresciuto da sollevare seri interrogativi sul numero reale di persone che sono morte durante il conflitto e l’Olocausto.
 
Nel corso degli anni, mi ero già accorto che i reportage parlavano di un enorme numero di sopravvissuti all’Olocausto ancora in vita, sei o sette decenni dopo. Per esempio, ancora nel 2009, un funzionario dell’Agenzia ebraica di Israele ha giustificato le leggi che puniscono la negazione dell’Olocausto col fatto che, quasi 65 anni dopo la fine della guerra, «ci sono ancora centinaia di migliaia di sopravvissuti», una dichiarazione che sembra essa stessa una negazione abbastanza esplicita dell’Olocausto. Infatti un rilevantissimo numero dei necrologi che leggo ogni giorno sul New York Times parlano di sopravvissuti dell’Olocausto morti a 80 e 90 anni.
 
Chiunque legga dei libri di storia seri sa che gli ebrei hanno la reputazione di saper realizzare truffe colossali, cosa che non deve sorprendere data la loro notoria tendenza a mentire e a distorcere la realtà. Tra l’altro la comunità ebraica registra un abnorme numero di persone che soffrono di turbe psichiche e malattie mentali. Qualsiasi indagine sull’Olocausto conferma certamente questa valutazione negativa.
 
L’Olocausto e Hollywood
 
Nonostante che l’Olocausto abbia cominciato a imporsi alla coscienza statunitense negli anni 1960 e 1970 attraverso i grandi libri scritti da Hilberg, Levin, Dawidowicz e altri, e le loro ampie recensioni, l’impatto iniziale non fu enorme, almeno tra i non ebrei. Perfino libri di grande successo, venduti a decine di migliaia, non avrebbero potuto avere grande impatto su una popolazione di più di 200 milioni di abitanti. Sono interamente I nostri media a costruire la percezione della realtà e, per quanto gli intellettuali e la gente istruita vengano grandemente influenzati dai libri e dalla carta stampata, la maggior parte della popolazione capisce il mondo attraverso i popolari media elettronici di intrattenimento.
 
Prendiamo per esempio la pubblicazione, nel 1974, di Time on the Cross: The Economics of American Negro Slavery, un’analisi magistrale in due volumi degli economisti Robert William Fogel e Stanley L. Engerman. Utilizzando metodi quantitativi, lo studio ha ribaltato generazioni intere di ipotesi sull’istituzione sociale statunitense, dimostrando che gli schiavi neri del sud erano incoraggiati a mettere su famiglia, godendo di un regime alimentare e di cure mediche paragonabili a quelle dei bianchi, e spesso superiori a quelle dei salariati industriali del Nord. Dopo l’emancipazione, inoltre, la speranza di vita degli affrancati è diminuita del 10% e le malattie aumentate del 20%. Tutto questo è riassunto in una voce di Wikipedia.
 
Per quanto le loro tesi fossero controverse, gli autori disponevano della maggiore credibilità accademica possibile, giacché Fogel era una figura di punta di una scuola economica insignita di un premio Nobel. E le sue referenze ideologiche erano anche più solide, perché aveva dedicato la sua vita alla causa dei diritti civili dei Neri, fin dagli otto anni di militanza trascorsi nel Partito comunista, e perché il suo matrimonio, nel 1949, con una donna nera aveva violato le leggi contro il metissaggio all’epoca vigenti. Le loro conclusioni hanno quindi beneficiato di una copertura mediatica senza precedenti e hanno certamente influenzato molti storici e giornalisti. Io constato però che l’impatto a lungo termine sulle percezioni popolari a proposito di schiavitù siano state quasi nulle.
 
Al contrario, nel 1976, la rete televisiva ABC trasmetteva la mini-serie Roots, il racconto multigenerazionale di una famiglia di schiavi, in un orario di grande ascolto. La storia era quella tradizionale di una schiavitù dura, a suo dire fondata sui ricordi familiari di Alex Haley, l’autore del best-seller che reca lo stesso titolo. Ma per quanto il suo lavoro sia stato in seguito bollato come un plagio, gli ascolti sono stati straordinari e l’impatto sociale enorme in ragione dei 100 milioni di telespettatori che lo hanno seguito. Dunque l’erudizione scritta, anche la più autorevole, non ha alcuna speranza di poter rivaleggiare col prodotto televisivo.
 
Siccome le tre reti televisive sono tutte sotto il controllo ebraico, non soprende che due anni dopo, nel 1978, ABC abbia deciso di ripetere l’exploit con la mini-serie televisiva Olocausto, che ha anch’essa totalizzato un’audience di 100 milioni di telespettatori e prodotto enormi profitti. Sembra che questa sia stata la prima volta che molte famiglie statunitensi abbiano scoperto questo avvenimento colossale, ma quasi del tutto sconosciuto all’epoca.
 
L’anno dopo, William Styron ha pubblicato La scelta di Sofia, un racconto straziante sullo sterminio di bambini cristiani polacchi nelle camere a gas di Auschwitz. Per quanto la storia contraddicesse la narrazione di tutti gli specialisti ebrei dell’Olocausto, il romanzo divenne lo stesso un enorme best-seller nazionale, e ne venne fatto anche un film, nel 1982, con Meryl Streep che vinse l’Oscar per la migliore attrice. Dieci anni dopo, La lista di Schindler di Steven Spielberg vinceva sette Oscar, realizzando profitti per quasi 100 milioni di dollari.
 
Con una Hollywood in maggioranza ebrea, non sorprende che si sia sviluppato un genere cinematografico enorme sull’Olocausto. Secondo Finkelstein, Hollywood ha prodotto circa 180 film sull’Olocausto solo tra il 1989 e il 2004. Diversi miliardi di dollari sono stati investiti nel corso degli anni in questa impresa. Per la maggior parte della gente comune, «vedere è credere», e come si potrebbe seriamente dubitare della realtà dell’Olocausto dopo ver veduto tutte le camere a gas e le montagne di cadaveri di ebrei assassinati costruite da scenografi hollywoodiani molto ben pagati? Dubitare dell’esistenza di Spiderman e dell’incredibile Hulk sarebbe quasi altrettanto assurdo.
 
Solo un 2% di Statunitensi è di origine ebraica, mentre forse un 95% ha radici cristiane, ma la lista di film sui cristiani fornita da Wikipedia sembra piuttosto misera al confronto. Pochissimi di questi film hanno avuto ampia diffusione, e la selezione si estende fino a comprendere Il Mondo di Narnia, che non contiene alcuna menzione del cristianesimo. Una delle rare eccezioni su questa lista è La Passione di Cristo di Mel Gibson del 2004, che fu costretto a finanziarsi da solo. E, nonostante l’enorme successo finanziario del film, uno dei più importanti di tutti i tempi, esso ha fatto di Gibson un paria assai criticato in una industria sulla quale aveva prima regnato come una grande star, soprattutto dopo che è circolata la notizia che suo padre era un negazionista dell’Olocausto.
 
 
Per molti versi, Hollywood e i media di intrattenimento in generale forniscono oggi la base spirituale unificatrice della nostra società profondamente laica, e la schiacciante predominanza dei film sull’Olocausto su quelli che hanno per tema il cristianesimo ha implicazioni evidenti. Nel frattempo, nel nostro mondo globalizzato, il sistema intrattenimento/media statunitense domina totalmente l’Europa e il resto dell’Occidente, di modo che le idee qui prodotte condizionano la mente di centinaia di migliaia di altre persone, che se ne rendano conto o meno.
 
Nel 2009, papa Benedetto XVI ha cercato di chiudere la disputa nata col concilio Vaticano II nella chiesa cattolica e riconciliarsi con la setta secessionista che si ispirava a san Pio X. Ma la cosa è finita in controversia mediatica quando si è scoperto che il vescovo Richard Williamson, uno dei principali esponenti di questa setta, era da tempo un negazionista dell’Olocausto e pensava anche che gli ebrei dovessero convertirsi al cristianesimo. Per quanto le altre numerose diversità dottrinarie fossero negoziabili, il rifiuto di accettare la realtà dell’Olocausto non lo era, e Williamson è rimasto fuori dalla Chiesa cattolica. Poco dopo è stato anche incriminato per eresia dal governo tedesco.
 
Alcuni critici in internet lasciano intendere che, nel corso delle ultime generazioni, alcuni aggressivi militanti ebrei siano riusciti a convincere le nazioni occidentali a sostituire il loro cristianesimo tradizionale con una nuova religione, l’Olocaustismo, e la vicenda Williamson sembra confermarlo.
 
Facciamo l’esempio del magazine satirico francese Charlie Hebdo. Finanziato da interessi ebraici, ha attaccato per anni il cristianesimo, talvolta anche in modo grossolanamente pornografico, e allo stesso modo offende l’islam. Simili iniziative sono state ritenute dai politici francesi come la prova dell’assoluta libertà di pensiero garantita nella patria di Voltaire. Ma non appena uno dei suoi principali caricaturisti ha fatto una innocente battuta sugli ebrei, è stato immediatamente licenziato e, se la pubblicazione avesse messo in ridicolo l’Olocausto, sarebbe stata certamente chiusa immediatamente, e tutti i suoi dipendenti avrebbero potuto essere incarcerati.
 
I giornalisti occidentali e i difensori dei diritti umani hanno spesso espresso sostegno alle attività audaci e trasgressive delle militanti di Femen, finanziate dagli ebrei, quando profanavano le chiese in tutto il mondo. Ma gli stessi si ribellerebbero se qualcuno facesse altrettanto nei confronti della crescente rete internazionale dei musei dell’Olocausto, la maggior parte dei quali costruiti con fondi statali. Inoltre una delle fonti sotterranee del conflitto occidentale con la Russia di Vladimir Putin sembra il fatto che egli ha restituito al cristianesimo una posizione privilegiata in una società in cui i primi bolscevichi avevano distrutto le chiese con la dinamite e massacrato migliaia di preti. Le élite intellettuali occidentali erano molto più disponibili con l’URSS i cui leader erano risolutamente anti cristiani.
 
La crescita e la repressione della negazione dell’Olocausto
 
Essendo quasi sconosciuto negli USA fino alla metà degli anni 1960, la negazione esplicita dell’Olocausto era del tutto inesistente. Ma quando il primo cominciò a essere conosciuto dopo la pubblicazione del libro di Hilberg nel 1961, è apparso anche il secondo. La diffamazione di Lipstadt contro Barnes quando lo ha definito «padrino» del negazionismo contiene un briciolo di verità. La sua rivista, pubblicata postuma nel 1968, approvando l’analisi negazionista di Rassinier, sembra essere stata la prima dichiarazioni di questo tipo pubblicata negli USA, almeno se si escluda l’opera di Beaty del 1951, che sembra però avere avuto scarsa eco di opinione.
 
Verso la fine degli anni 1960, un editore di destra, Willis Carto, si imbatté in un manoscritto breve e grezzo, forse scritto qualche anno prima e, non preoccupandosi delle sottigliezze giuridiche, decise di stamparlo. Il presunto autore gli ha fatto poi causa per plagio e, pure se la vicenda alla fine si è risolta, la sua identità si è scoperta essere quella di David L. Hoggan, un protetto di Barnes con un dottorato in Storia a Harvard e un incarico a Stanford. Il suo desiderio di anonimato mirava ad evitare problemi per la sua carriera, ma fu scoperto e non ha più avuto incarichi accademici.
 
Nel frattempo, Murray Rothbard, il padre fondatore del libertarismo moderno, era da sempre un fervente assertore del revisionismo storico e grande ammiratore di Barnes, per decenni la figura dominante in questo campo. Barnes aveva anche fatto una breve allusione al suo scetticismo a proposito dell’Olocausto in un lungo articolo pubblicato nel 1967 sul Rampart Journal, una pubblicazione libertarien di breve durata, e questo ha avuto un’eco in quella cerchia ideologica. Sembra che agli inizi degli anni 1970, la negazione dell’Olocausto sia diventata un argomento di discussione nella comunità libertarien, piena di ebrei ma accanitamente libera pensatrice, e questo ebbe conseguenze importanti.
 
Un professore di ingegneria di Northwestern, Arthur R. Butz, partecipava ad un’iniziativa libertarien in quel periodo quando ebbe modo di leggere un pamphlet che denunciava l’Olocausto come una bufala. Non aveva mai riflettuto sulla questione, ma venne colpito da un’affermazione così scioccante, e cominciò ad approfondire l’argomento all’inizio del 1972. Giunse subito alla conclusione che si trattava di un’affermazione probabilmente corretta, e trovò delle prove, ivi comprese quelle citate nel libro incompiuto e anonimo di Hoggan, tanto sommario che decise dovesse essere arricchito e reso più completo. Ha cominciato a lavorarci negli anni seguenti, con la diligenza metodica di un ingegnere di formazione accademica. La sua opera più 

importante, The Hoax of the Twentieth Century, è stata pubblicata per la prima volta nel 1976 ed è subito diventato il testo centrale della comunità negazionista dell’Olocausto, una posizione che sembra conservare ancora oggi, nonostante che, con tutti gli aggiornamenti e gli allegati, superi oramai le 200 000 parole. Nonostante non si faccia menzione di questo libro ancora inedito nel numero di febbraio 1976 di Reason, è possibile che già se ne parlasse nei circoli libertarien e che questo abbia riacceso l’interesse per il revisionismo storico.

 
Butz era un professore di ruolo e rispettabile della Northwestern, e la pubblicazione del suo libro sull’Olocausto è immediatamente diventato un piccolo avvenimento coperto dal New York Times e da altri media, a gennaio 1977. Lipstadt in uno dei suoi libri gli dedica un intero capitolo dal titolo «Entering the Mainstream». Stando a un articolo del dicembre 1980 scritto da Dawidowicz, alcuni donatori e militanti ebrei si sono subito mobilitati per far pagare a Butz le sue opinioni eretiche, ma all’epoca il rigore universitario era rigido e Butz è sopravvissuto, un esito che sembra avere grandemente irritato Dawidowicz.
 
Un libro così completo e dettagliato di negazione dell’Olocausto ebbe naturalmente un considerevole impatto sul dibattito nazionale, tanto più che l’autore era un professore stimato e apolitico e che un’edizione statunitense è stata pubblicata già nel 1977. Sono molto contento di avere incluso questo volume nella mia collezione di libri HTML controversi, perché chiunque possa giudicare a ragion veduta.
 
The hoax of the XXe century – Gli argomenti contro il presunto sterminio degli ebrei europei – ARTHUR R. BUTZ – 1976/2015 – 225 000 MOTS
 
L’anno seguente, le tendenze negazioniste sembrarono crescere con l’apertura da parte di Carto di una piccola casa editrice in California, l’Institute for Historical Review (IHR), che pubblicava una rivista trimestrale dal titolo The Journal of Historical Review (JHR). Sia l’IHR che il JHR si sono concentrati sul revisionismo in generale, ma col negazionismo dell’Olocausto al centro del loro interesse. Lipstadt dedica un intero capitolo all’IHR, notando che la maggior parte dei principali autori del numero del 1976 di Reason sono stati poi coinvolti in questo progetto o in altri di Carto, come anche Butz, mentre il comitato di redazione del JHR era pieno di dottorandi, spesso provenienti dalle università più rinomate. Nel quarto di secolo seguente, l’IHR organizzerà piccole conferenze, ogni uno o due anni, e David Irving ne diventerà un partecipante regolare, insieme ad altre prestigiose figure come lo storico John Toland, insignito del premio Pulitzer. 
 
IHR ha pubblicato nel 1983 The Dissolution of Eastern Europe Jewry (La dissoluzione degli ebrei dell’Europa dell’est), una dettagliatissima analisi quantitativa della demografia e dei movimenti di popolazione nel periodo della Seconda Guerra mondiale, sembra il primo studio di questo tipo. L’autore, sotto lo pseudonimo Walter N. Sanning, ha cercato di correggere l’analisi estremamente semplicistica che gli storici istituzionali dell’Olocausto accettano senza battere ciglio. Prima della guerra, nell’Europa dell’est vivevano milioni di ebrei, ma dopo la guerra sono quasi spariti. Questo fatto indiscutibile costituisce da tempo un pilastro centrale implicito della narrazione tradizionale dell’Olocausto. Ma utilizzando fonti interamente pubbliche, Sanning dimostra in modo convincente che la situazione era assai più complicata di come appare. Per esempio, vi sono ampi indizi che all’epoca un gran numero di ebrei polacchi sia stato trasferito dai Sovietici sul loro territorio, su base volontaria o involontaria, e il futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin era uno di loro. Inoltre un gran numero di ebrei sovietici molto urbanizzati furono anch’essi evacuati all’avanzare delle truppe tedesche nel 1941. L’ampiezza esatta di questi movimenti di popolazione è incerta e contestata, ma l’analisi minuziosa di   Sanning dei dati del censimento sovietico d’anteguerra e di altre fonti suggerisce che il totale si colloca probabilmente verso il limite superiore della maggior parte delle stime. Sanning non pretende che le sue conclusioni siano definitive ma, anche se esse fossero solo parzialmente corrette, esse escluderebbero certamente che siano reali le cifre tradizionali dell’Olocausto.
 
Un altro ospite regolare del IHR era Robert Faurisson. In qualità di professore di letteratura all’Università di Lyon 2, ha cominciato a esprimere pubblicamente il suo scetticismo a proposito dell’Olocausto nel corso degli anni 1970, e il tumulto mediatico che ne è seguito si è combinato a diversi tentativi di rimuoverlo dalla sua cattedra, mentre una petizione in suo favore è stata firmata da 200 professori universitari internazionali, tra cui il celebre professore Noam Chomsky del MIT. Faurisson si è arroccato sulle sue posizioni, ma gli attacchi sono proseguiti, ivi compreso un brutale pestaggio da parte di militanti ebrei che lo mandò in ospedale, mentre un candidato politico francese che condivideva le sue opinioni venne assassinato. Nel 1990, poco dopo la caduta del muro di Berlino e quando le ricerche ad Auschwitz e negli altri siti dell’Olocausto erano diventati molto più agevoli, la Francia adottò una legge che criminalizzava la negazione dell’Olocausto, la prima nazione a farlo dopo la disfatta della Germania. Negli anni successivi, molti altri paesi occidentali ne hanno seguito l’esempio, creando un precedente preoccupante di risoluzione dei conflitti scientifici attraverso processi e prigioni, una forma appena più dolce della politica praticata dalla Russia stalinista.
 
Giacché Faurisson era un erudito in letteratura, non sorprende che il suo interesse si concentrasse sul Diario di Anna Frank, generalmente considerato come il classico letterario emblematico dell’Olocausto, che racconta la storia di una ragazza ebrea morta dopo essere stata deportata dai Paesi Bassi ad Auschwitz. Egli ha dimostrato che il testo non era autentico, che era stato scritto da qualcun altro dopo la fine della guerra e, per decenni, diverse persone hanno difeso appassionatamente l’una e l’altra tesi. Io non saprei giudicare correttamente nessuno dei complessi argomenti utilizzati, che sembra comprendano anche questioni di tecnologia della penna a sfera e di aggiunte testuali, e non ho mai nemmeno letto il libro. Ma l’aspetto che più mi colpisce è il reale destino della ragazza nella narrazione ufficiale, come è raccontato nella voce di Wikipedia. Sembra che le malattie facessero strage nel suo campo, nonostante i grandi sforzi dei Tedeschi per tenerle sotto controllo, e lei sarebbe rapidamente caduta malata, per lo più allettata in infermeria, prima di morire di tifo nella primavera del 1945 in un altro campo, sei mesi dopo il suo arrivo iniziale. Mi sembra piuttosto strano che una ragazza ebrea caduta gravemente malata ad Auschwitz abbia potuto passare tanto tempo negli ospedali del campo e vi sia alla fine morta, se è vero quanto ci dicono che Auschwitz e altri campi simili erano stati concepiti per realizzare uno sterminio efficace del detenuti ebrei.
 
 
Nella metà degli anni 1990, il movimento di negazione dell’Olocausto sembrò crescere di visibilità, probabilmente aiutato dai dubbi sollevati dall’annuncio ufficiale del 1992 che il numero stimato di morti ad Auschwitz era stato ridotto di circa 3 milioni. Per esempio, il numero di febbraio 1995 di Marco Polo, un brillante magazine giapponese con una tiratura di 250 000 copie, conteneva un lungo articolo secondo cui le camere a gas dell’Olocausto erano una bufala propagandistica. Israele e i gruppi militanti ebraici subito reagirono organizzando un boicottaggio pubblicitario di tutte le pubblicazioni della casa madre, uno degli editori più rispettati del Giappone, che si è subito piegato di fronte ad una simile minaccia. Tutti gli esemplari di quel numero sono stati ritirati, i giornalisti licenziati e il magazine chiuso, mentre il presidente della società è stato costretto alle dimissioni.
 
Approfondendo la storia della negazione dell’Olocausto, ho notato uno stesso tipo di tendenza ricorrente, più spesso da parte di individui che di istituzioni. Qualcuno molto rispettato decide di approfondire questo argomento controverso e arriva ben presto a conclusioni molto diverse dalla verità ufficiale. In vario modo le sue nuove opinioni diventano di dominio pubblico, e lui viene immediatamente demonizzato dai media dominati dagli ebrei come un orribile estremista, forse anche malato di mente, e comincia ad essere perseguitato da una banda di militanti ebrei fanatici. Tutto questo comporta generalmente la distruzione della sua carriera.
 
Agli inizi degli anni 1960, lo storico di Stanford David Hoggan, ha scritto un manoscritto anonimo The Myth of the Six Million, ma quando venne messo in circolazione e la sua identità rivelata, la sua carriera universitaria è stata distrutta. Una dozzina di anni dopo, qualcosa di simile è capitata a Arthur Butz, professore di ingegneria del Nord-Ovest, e solo il fatto di essere titolare di cattedra gli ha consentito di sfuggire ad una sorte simile.
 
Fred Leuchter era unanimemente considerato uno dei maggiori specialisti statunitensi di tecnologia delle esecuzioni, e un lungo articolo di The Atlantic lo aveva presentato come tale. Nel corso degli anni 1980, Ernst Zundel, un eminente negazionista canadese dell’Olocausto, venne processato per avere espresso dubbi sulle camere a gas di Auschwitz, e uno dei suoi testimoni esperti era un guardiano di prigione statunitense che aveva una certa esperienza di simili sistemi, che raccomandò di coinvolgere Leuchter, una delle figure di punta in quel campo. Leuchter si recò in Polonia e ispezionò le pretese camere a gas di Auschwitz, poi pubblicò il rapporto Leuchter, concludendo che si trattava di una frode evidente e che era impossibile che quelle avessero potuto funzionare nel modo in cui pretendevano gli specialisti dell’Olocausto. Gli attacchi feroci che seguirono gli sono costati la sua carriera professionale e hanno distrutto il suo matrimonio.
 
David Irving era considerato lo storico della Seconda Guerra mondiale più di successo, i suoi libri si vendevano a milioni perché incensati dai maggiori giornali britannici, quando ha accettato di comparire come testimone al processo Zundel. Egli aveva sempre, in precedenza, accettato la narrazione convenzionale dell’Olocausto, ma la lettura del rapporto Leuchter gli fece cambiare opinione e concludere che le camere a gas di Auschwitz erano solo un mito. Venne immediatamente fatto oggetto di attacchi mediatici incessanti tali da danneggiare gravemente, poi distruggere la sua carriera di editore, e più tardi ha scontato anche una pena nelle prigioni austriache a causa delle sue inaccettabili opinioni.
 
Germar Rudolf era un giovane chimico tedesco che lavorava con successo nel prestigioso istituto Max Planck quando sentì parlare della controversia relativa al rapporto Leuchter, che trovò convincente ma con qualche punto debole. Allora ripetè le analisi in modo più approfondito, e pubblicò i risultati col titolo The Chemistry of Auschwitz, che confermavano quelli di Leuchter. E, proprio come Leuchter prima di lui, anche Rudolf si vide distrutte carriera e matrimonio e, giacché la Germania tratta queste questioni in modo più severo, ha finito con lo scontare anche cinque anni di prigione per la sua imprudenza scientifica.
 
Più recentemente, nel 2008, il dottor Nicholas Kollerstrom, per undici anni storico delle scienze all’University College di Londra, ha subito analoga sorte. Il suo interesse scientifico per l’Olocausto ha provocato una tempesta mediatica diffamatoria, è stato licenziato col preavviso di un giorno, diventando il primo membro di quella istituzione ad essere espulso per motivi ideologici. Aveva in precedenza scritto il paragrafo su Isaac Newton per una enciclopedia biografica sugli astronomi, e la rivista scientifica più prestigiosa degli Stati Uniti ha preteso che l’intera enciclopedia venisse ritirata dalle vendite, distruggendo l’opera di più di 100 scrittori, perché era irrimediabilmente infangata dalla presenza di un collaboratore tanto vergognoso. Ha raccontato questa terribile storia personale nella introduzione del suo libro Breaking the Spell, del 2014, che raccomando vivamente.
 
Il testo di Kollerstrom riassume bene gran parte delle prove più recenti sulla negazione dell’Olocausto, ivi compresi i registri ufficiali di Auschwitz consegnati da Gorbaciov dopo la fine della guerra fredda, che indicano che i morti ebrei erano inferiori del 99% rispetto al totale prima ipotizzato. Inoltre il numero di morti ebrei è in realtà assai diminuito una volta che sono arrivati abbondanti rifornimenti di Zyklon B, contrariamente a quanto ci si sarebbe dovuti attendere. Discute anche delle nuove prove interessanti ottenute dal decrittaggio britannico dei tempi di guerra di tutte le comunicazioni tedesche tra i vari campi di concentramento e il quartier generale di Berlino. Gran parte di questo materiale viene presentata in una interessante intervista di due ore su Red Ice Radio, disponibile in YouTube :
 
In Italia il video è stato censurato
 
La vita e la carriera di molte altre persone è stata rovinata allo stesso modo e, in molte parti d’Europa, vi sono state anche inchieste penali e condanne al carcere. In particolare, un avvocato tedesco che si era mostrato un po’ troppo audace nella sua argomentazione giuridica ha raggiunto presto il suo cliente dietro le sbarre, cosicché è diventato sempre più difficile per gli accusati di negazionismo dell’Olocausto avere una difesa giuridica efficace. Secondo Kollerstrom, diverse migliaia di persone sono attualmente in prigione in Europa per negazione dell’Olocausto.
 
Paesi nei quali la negazione dell’Olocausto è un reato
 
Il negazionismo europeo
 
Ho l’impressione che, alla fine degli anni 1960, gli ex paesi del blocco sovietico avessero per lo più cessato di mettere la gente in galera solo per avere dubitato del dogma marxista-leninista, riservando le prigioni politiche solo a quelli che si organizzavano attivamente contro il regime, mentre la negazione dell’Olocausto viene oggi trattata molto più severamente. La differenza sta nel fatto che il credo comunista è sparito del tutto e non esiste quasi più, mentre l’Olocausto è ancora una fede giovane e profondamente radicata, almeno in una piccola porzione di popolazione che esercita un’influenza assolutamente sproporzionata sulle nostre istituzioni pubbliche.
 
Un altro fattore evidente sono i tanti miliardi di dollari attualmente in gioco in quel che Finkelstein ha con ragione definito «industria dell’Olocausto». Per esempio nuove immense richieste di risarcimento sono in corso di riapertura contro la Polonia per i beni ebraici perduti o confiscati durante la Seconda Guerra mondiale.
 
Negli USA la situazione è un pochino differente, e il nostro primo emendamento protegge ancora i negazionisti dell’Olocausto dalla prigione, per quanto i tentativi dell’ADL e di diversi altri gruppi di criminalizzare il «discorso di odio» mirino chiaramente a superare questo ostacolo. Ma comunque sanzioni sociali ed economiche sono spesso utilizzate per raggiungere gli stesi obiettivi. Inoltre diversi monopoli internet sono stati progressivamente persuasi o cooptati per impedire la facile diffusione di contenuti dissidenti. Negli ultimi anni, i media hanno scritto che Google ha censurato o concentrato i risultati delle sue ricerche escludendo chi contesta la narrazione ufficiale. Ancora più inquietante, Amazon, il nostro attuale dettagliante di libri quasi monopolista, ha preso l’anno scorso la misura senza precedenti di vietare migliaia di opere sulla negazione dell’Olocausto, senz’altro per evitare che «confondano» i lettori troppo curiosi, quindi sono stato fortunato ad acquistare i miei qualche anno prima. Queste somiglianze con 1984 di George Orwell colpiscono davvero e la «cortina di ferro sugli Stati Uniti» contro la quale Beaty ci metteva in guardia nel 1951 sembra prossima a diventare una realtà.
 
Qualcuno tra i negazionisti dell’Olocausto ha tentato di aggirare questa censura e Rudolf ha creato, da qualche tempo, un sito dal nome HolocaustHandbooks.com, che consente di acquistare molti libri importanti o di leggeri online. Ma la crescente censura di Amazon, di Google e di altri monopoli internet riduce di molto la probabilità che qualcuno possa intercettare facilmente questa informazione. Ovviamente la maggior parte dei seguaci della narrazione convenzionale dell’Olocausto preferirebbe vincere le sue battaglie sul piano delle analisi invece di utilizzare mezzi economici o amministrativi per neutralizzare i loro avversari. Ma ci sono poche prove che abbia mai ottenuto qualche successo in questo campo.
 
A parte i vari libri di Lipstadt, che ho trovato di scadente qualità e abbastanza poco convincenti, uno dei sostenitori più energici dell’Olocausto dei due ultimi decenni sembra essere stato Michael Shermer, l’editore del magazine Skeptic, un laureato in psicologia e in storia delle scienze. Nel 1997, ha pubblicato Why People Believe Weird Things, (Perché la gente crede alle cose bizzarre), tentando di demistificare ogni sorta di credenza irrazionale, col sottotitolo che definisce tali credenze come delle «pseudo-scienze» e «superstizioni». Il testo di copertina si concentra sull’ESP, i rapimenti degli extraterrestri e la stregoneria, ma la contestazione della negazione dell’Olocausto è il vero argomento del libro, occupando tre interi capitoli. L’argomento viene trattato in modo abbastanza superficiale, e dimostra inconsistenza scientifica quando sostiene che la realtà della «razza» è un errore della destra, da tempo smentito dagli scienziati tradizionali. A proposito di quest’ultima questione, prosegue affermando che le presunte differenze tra Neri e Bianchi di cui si parla in opere come The Bell Curve di Richard Herrnstein e Charles Murray sono assolutamente pseudo-scientifiche, e fa notare che questo ed altri libri simili sono stati promossi dagli stessi gruppi filo-nazisti che predicano la negazione dell’Olocausto, dato che queste due perniciose dottrine sono strettamente legate tra di loro. Shermer ha reclutato Stephen Jay Gould, professore di Harvard, per scrivere la prefazione del libro, e questo fatto solleva ulteriori dubbi, visto che Gould è ampiamente considerato uno dei truffatori scientifici più noti del XX secolo.
 
Nel 2000, Shermer torna alla carica pubblicando Denying History, libro stavolta interamente dedicato a contestare la negazione dell’Olocausto. Ha affidato ad Alex Grobman, specialista dell’Olocausto, il ruolo di co-autore e ha riconosciuto di avere ricevuto generosi finanziamenti da diverse organizzazioni ebraiche. Gran parte del testo sembra concentrarsi sulla psicologia e sociologia dei negazionisti dell’Olocausto, tentando di spiegare perché la gente possa credere a simili assurdità. In effetti ha dedicato tanto spazio a queste questioni da essere costretto a saltare completamente fatti come la riduzione ufficiale di 3 milioni del numero di corpi rinvenuti ad Auschwitz qualche anno prima, evitando così di dover spiegare perché un simile grande cambiamento non avesse alcun impatto sulla cifra canonica dei sei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto.
 
Mentre autori come Shermer sono stati spinti da generose sovvenzioni finanziarie a rendersi ridicoli, i loro alleati estremisti più violenti hanno avuto probabilmente maggiore impatto sul dibattito sull’Olocausto. Per quanto le sanzioni giudiziarie ed economiche siano in grado di dissuadere la maggioranza dei negazionisti dell’Olocausto dal mostrare il loro volto, contro i forti e nobili che non si nascondono è stata assai spesso dispiegata una violenza extragiudiziaria.
 
Per esempio, nel corso degli anni 1980, gli uffici e i depositi dell’IHR, in California del sud, sono stati incendiati e totalmente distrutti da militanti ebrei. E anche se in Canada non si registrino molti episodi di violenza politica, nel 1995 anche la grande casa sgangherata dove viveva e lavorava Ernst Zundel, uno dei maggiori editori e distributori di letteratura sulla negazione dell’Olocausto, è stata incendiata e distrutta. Zundel era stato già fatto oggetto di diverse inchieste penali per divulgazione di «notizie false» e alla fine è stato anche imprigionato per anni, prima di essere espulso verso la natia Germania, dove ha scontato un’altra pena detentiva. Diversi altri eminenti negazionisti dell’Olocausto sono stati perfino minacciati di morte. La maggior parte degli storici e dei professori universitari sono anime tranquille, e minacce di tal genere hanno certamente dissuaso molti di loro dal trattare questioni così controverse. Allo stesso modo le pressioni finanziarie e sociali possono logorare gli individui e le organizzazioni, spingendoli a occuparsi d’altro o a essere molto meno attivi, ma il loro posto viene talvolta preso da nuovi arrivati.
 
L’anno dopo gli attentati dell’11 settembre, il JHR ha cessato le pubblicazioni. La diffusione di internet è stato probabilmente un fattore importante, e siccome l’attenzione nazionale si era totalmente rivolta alla politica estera e al Medio Oriente, l’organizzazione madre dell’IHR aveva molto ridotto le sue attività, mentre gran parte del dibattito in corso sul revisionismo e la negazione dell’Olocausto si era spostata verso altri siti online. Ma ad un certo punto il JHR ha digitalizzato diverse centinaia di articoli e li ha postati sul suo sito internet, fornendo più di tre milioni di parole di un contenuto storico di grande qualità.
 
Nei due mesi scorsi, sono rimasto più volte sorpreso nello scoprire che gli storici dell’IHR avevano pubblicato molto tempo prima articoli su argomenti molto vicini ai miei. Per esempio, dopo avere pubblicato un articolo sull’ipotesi di Souvorov secondo cui l’attacco tedesco Barbarossa avrebbe preceduto quello pianificato di Stalin per conquistare l’Europa, qualcuno mi ha informato che un critico aveva analizzato a fondo lo stesso libro di Souvorov venti anni prima in un numero di JHR. Ho trovato anche diversi articoli del transfuga della CIA Victor Marchetti, un personaggio importante per gli specialisti dell’assassinio di JFK, che era stato oggetto di scarsa attenzione nei media mainstream. E vi erano anche articoli sull’attacco israeliano contro l’USS Liberty, fatto ignorato del tutto dai media mainstream.
 
Passando casualmente in rassegna alcuni archivi, sono rimasto molto colpito dalla loro qualità, e siccome erano interamente disponibili per chiunque potesse ripubblicarli, li ho incorporati, rendendo così milioni di parole di contenuto revisionista e negazionista dell’Olocausto più facilmente accessibili ai lettori interessati. Il materiale è interamente consultabile e organizzato per autori, soggetto e periodo temporale, con qualche esempio di link qui sotto:
 
The Journal of Historical Review (JHR), numeri 1980-2002
 
Archivi degli autori :
David Irving – 11 Articoli
Arthur R. Butz – 15 Articoli
Robert Faurisson – 47 Articoli
James J. Martin – 13 Articoli
Percy L. Greaves, Jr – 8 Articoli
 
Archivi tematici :
Olocausto – 306 Articoli
Seconda Guerra mondiale – 201 Articoli
Pearl Harbor – 15 Articoli
USS Liberty – 3 Articoli
 
La parte segreta della negazione dell’Olocausto
 
Il potere economico e politico incessantemente crescente dei gruppi ebraici organizzati, sostenuti dalla creazione di immagini hollywoodiane, ha finito col vincere la parte visibile di questa guerra e schiacciare il movimento di negazione dell’Olocausto nell’arena pubblica, imponendo il rispetto di una particolare interpretazione storica con la minaccia di denunce penali nella maggior parte dei paesi euroei, e di severe sanzioni sociali ed economiche negli Stati Uniti. Ma persiste una opposizione sotterranea ostinata, di ampiezza difficilmente valutabile.
 
Pur non avendo mai nutrito troppo interesse per l’Olocausto, quando con internet la mia cerchia di amici e conoscenti si è allargata di molto, è capitato casualmente di affrontare l’argomento. Nel corso degli anni, un gran numero di persone che mi sembravano razionali si è lasciata, a un certo punto, scappare parole di estremo scetticismo a proposito di diversi aspetti della narrazione canonica dell’Olocausto, e simili dubbi sembravano rappresentare solo la punta dell’iceberg. Capitava talvolta che qualcuno di essi si mettesse a parlare un po’ troppo liberamente, o fosse preso di mira su altre questioni, e i nostri media si lanciavano allora in una frenesia di accuse e contro-accuse contro questo negazionista dell’Olocausto.
 
Per esempio, durante la campagna per la destituzione di Clinton alla fine degli anni 1990, i partigiani di Clinton pensavano che Christopher Hitchens, un eminente esperto liberal, avesse tradito le confidenze fattegli dall’assistente del presidente, Sidney Blumenthal, e il giornalista Edward Jay Epstein decise allora di dargli una lezione divulgando una nota che accusava Hitchens di essere segretamente un negazionista dell’Olocausto. Ha raccontato che, durante un pranzo nel 1995, Hitchens aveva un po’ alzato il gomito e aveva cominciato a spiegare ai suoi commensali che l’Olocausto era solo una bufala. Epstein diceva di essere rimasto talmente scioccato da simili dichiarazioni, da averle riportate poi nel suo diario. Questo dettaglio, e il fatto che gli altri commensali si sono mantenuti sospettosamente vaghi nei loro ricordi, mi hanno persuaso che Epstein probabilmente diceva il vero. Ne è seguita un’aspra disputa tra Hitchens e Epstein.
 
Nel 2005, Hitchens ha accusato diversi oppositori alla guerra in Iraq di Bush di essere antisemiti. Come rappresaglia, Alexander Cockburn ha pubblicato qualche articolo in Counterpunch che resuscitavano la controversia del 1999, ed è stato in questa occasione che io ne ho sentito per la prima volta parlare. Da fedele lettore di Counterpunch, mi sono fatto prendere e una rapida ricerca in Google mi ha fornito i rendiconti mediatici delle esplicite accuse di Epstein. Molte tracce della disputa sopravvivono ancora nel Web, compreso un articolo del NY Daily News e parte di un articolo di MSNB e, nonostante che alcuni dei più importanti siano oramai spariti, il testo che mi ricordo di aver letto nel 2005 resta nelle pagine di diversi siti internet:
 
«Epstein afferma che Hitchens ha detto cose sbagliate sull’Olocausto il 12 febbraio 1995 – praticamente quattro anni fa – durante un pranzo con amici a New York.
Epstein rimase tanto scioccato, afferma, e ritenne tanto gravi i dubbi espressi da Hitchens che, rientrato a casa, le ha annotate sul suo diario!
Secondo il diario di Epstein: ‘Sprofondato nella poltrona e sorseggiando tranquillamente il suo vino rosso gratuito, Hitchens ha avanzato una teoria più rivelatrice di qualsiasi altra su quanto accade al teatro Hudson. La sua tesi, con grande shock per tutti quelli che lo ascoltavano, è che l’Olocausto sia una bufala costruita da una cospirazione di interessi mirante a criminalizzare la Germania’.
‘Ha spiegato che non è mai stata trovata alcuna prova di un massacro tedesco – e che gli orribili artefatti ritrovati erano stai fabbricati successivamente’, scrive Epstein nel suo diario.
‘Cosa mi dici della testimonianza dei generali nazisti a Norimberga sui campi di sterminio?’ ha chiesto Epstein.
Hitchens, secondo quanto Epstein ha scritto nel suo diario, ha risposto che ‘…sicuramente le confessioni sono state ottenute con la tortura dagli anglo-statunitensi’. Epstein ha poi chiesto ‘ma che cosa è successo agli ebrei europei?’. ‘Hitchens ha scrollato le spalle e ha detto: ‘Molti sono stati uccisi dai contadini quando fuggivano, qualcuno è morto di morte naturale, e gli altri sono in Israele».
 
Dopo aver letto questo, ho cominciato a notare che lo stesso Cockburn dava talvolta l’idea che le sue personali opinioni sull’Olocausto potessero essere un po’ eretiche, anche alla luce delle enigmatiche sottolineature sul fatto che bufale enormi sono più facili da costruire e alimentare di quanto la maggior parte delle persone immagini.
 
Pochi mesi dopo l’attacco a Hitchens, Cockburn pubblicò un articolo nel quale affermava con forza che il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, il più noto sopravvissuto dell’Olocausto, era un falsario. Mi era stato sempre insegnato che lo Zyklon B è l’agente mortale utilizzato dai nazisti per sterminare gli ebrei di Auschwitz e avevo inteso solo vagamente che i negazionisti dell’Olocausto pretendevano assurdamente che il composto fosse stato impiegato nei campi come disinfettante, per contrastare il contagio del tifo; sono quindi rimasto scioccato di scoprire, in un articolo di Cockburn, che per decenni anche il governo degli Stati Uniti aveva usato lo Zyklon B come disinfettante sugli immigrati che entravano dalla frontiera messicana. Ricordo di aver letto altri articoli sull’Olocausto nella metà degli anni 2000, ma non riesco oggi a ritrovarli negli archivi di Counterpunch.
 
15 anni fa, mi sono reso conto che molte persone bene informate sembravano essere adepti segreti del negazionismo dell’Olocausto, e questo ha certamente contribuito a rimodellare le mie opinioni fino ad allora indiscusse sulla questione. Il fatto che un occasionale articolo di un negazionista dell’Olocausto venga scoperto, fatto a pezzi e poi distrutto dai media spiega facilmente perché le posizioni pubbliche su questo tema restino tutte unanimi. Avendo molte altre cose da fare, non penso di avere mai avuto una conversazioni con qualcuno su questo soggetto controverso, e nemmeno uno scambio di mail, ma ho mantenuto gli occhi e le orecchie aperte, e dubbi enormi mi avevano preso già molti anni prima che mi dessi la pena di leggere il mio primo libro sulla questione.
 
Nel contempo, il crollo di fiducia subito verso la nostra narrazione ufficiale, quella che io chiamo la Pravda statunitense, e su tante altre questioni controverse, ha pure avuto una grande importanza. Quando mi sono accorto, con gran dispiacere, che non potevo più credere ad una sola parola di quanto i nostri media e i nostri politici dicono dei più importanti avvenimenti di qui e di adesso, la loro credibilità sugli argomenti controversi anche più lontani nel tempo è del tutto sparita. Per questo sono diventato assai sospettoso ed ero pronto ad ascoltare anche altre versioni sull’Olocausto, e ho finito col leggere libri di entrambe le tendenze contrapposte.
 
Il futuro del negazionismo dell’Olocausto
 
Per molti anni dopo la Seconda Guerra mondiale, si è scritto assai poco sull’Olocausto. Ma, a partire dagli anni 1960, l’interesse verso il tema è talmente cresciuto che sono stati scritti migliaia, forse decine di migliaia di volumi sull’argomento. I quindici o venti libri che ho letto sono quindi solo una piccola parte. Io vi ho investito solo qualche settimana di lettura e di ricerca, e la mia conoscenza dei fatti è niente a confronto di quella dei tanti che hanno dedicato molti anni o decenni della loro vita a questa attività. E’ evidente quindi che quanto ho qui scritto contiene senz’altro molti errori grossolani che altri potranno facilmente correggere. Ma talvolta un nuovo giunto può notare cose che possono essere sfuggite ai professionisti esperti, e può anche meglio comprendere i punti di vista di coloro che non hanno mai prestato molta attenzione alla questione.
 
Tutte le conclusioni che ho tratto sono evidentemente di carattere preliminare, e i lettori devono avere ben presente il fatto che io sono solo un dilettante nella materia. Ma, pur da persona estranea che esplora questo argomento controverso, penso sia molto più probabile che improbabile che la narrazione tradizionale dell’Olocausto sia almeno sostanzialmente falsa, ed è del tutto possibile che lo sia quasi interamente.
 
Nonostante questo, la potente attenzione accordata dai media all’Olocausto nel corso degli ultimi decenni, l’ha collocata in una posizione centrale nella cultura occidentale. Non mi sorprenderebbe se occupasse nella mente della maggior parte della gente comune uno spazio maggiore della stessa Seconda Guerra mondiale, e possedesse dunque una più forte realtà apparente.
 
Alcune forme di credenze condivise, però, possono essere larghe un miglio, ma profonde un pollice, e le convinzioni occasionali di persone che non hanno mai approfondito il tema possono cambiare rapidamente. La presa, inoltre, sulla coscienza collettiva di dottrine che sono state a lungo imposte da severe sanzioni economiche e sociali, spesso accompagnate da sanzioni penali, può essere assai più debole di quanto si immagini.
 
Fino a trenta anni fa, la dominazione comunista sull’URSS e i suoi alleati del Patto di Varsavia sembrava assolutamente permanente e irremovibile, ma le radici del consenso erano marce ed esso era solo una facciata vuota. Un giorno poi è giunta una raffica di vento, e tanto è bastato perché tutta la gigantesca struttura crollasse. Io non sarei sorpreso se la nostra attuale narrazione dell’Olocausto finisse col subire la medesima sorte, con conseguenze forse spiacevoli per quelli che l’hanno tanto sostenuta.