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BASTA EMBARGO. PER RILANCIARE IL PROCESSO DI PACE IN PALESTINA

1. L'attacco alle navi del convoglio umanitario internazionale diretto a rompere l'embargo imposto a Gaza dal governo israeliano configura nella sostanza un vero e proprio atto di pirateria ma assai probabilmente non potrà essere sanzionato da nessun Tribunale internazionale perché Israele non ne riconosce la giurisdizione  e soprattutto perché manca una definizione univoca del reato di pirateria. L' indagine internazionale da tutti invocata rischia di concludersi con l'ennesima ipocrita condanna formale di uno Stato che da anni non rispetta nessuna delle Risoluzioni che le Nazioni Unite hanno adottato per dare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Una iniziativa di indagine sulla quale si registrano già gravi dissociazioni, come emerge dal voto dell'Italia in seno al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, un ennesimo allineamento del nostro paese ai diktat delle lobby ebraiche che evidentemente continuano a condizionare anche il governo italiano, un voto che isola l'Italia nel contesto europeo ed internazionale.
Toccherà ai giudici nazionali indagare sui reati commessi dagli agenti israeliani durante l'assalto alla nave pacifista turca Mavi Marmaris in rotta per Gaza. Il rientro degli attivisti umanitari della “Freedom Flotilla” sequestrati per giorni dal governo israeliano, o il diverso trattamento riservato ad altri navi umanitarie, comunque vittima di gravi violazioni  delle regole di diritto internazionale marittimo, non potranno fare dimenticare le vittime, che alcuni cercano già di criminalizzare, ed i numerosi feriti di cui non si sa ancora nulla. Che fine faranno gli aiuti e le stesse navi umanitarie?
Ciascun paese, che abbia avuto propri cittadini coinvolti nel blocco navale e nella successiva deportazione di massa attuati da Israele, potrà indagare e processare gli autori degli abusi criminali compiuti nell'attacco alle navi umanitarie, e l'intera catena di comando che ha ordinato e gestito le operazioni. La giurisdizione penale interna si può fondare infatti sulla nazionalità delle vittime, anche se i fatti si sono verificati in acque internazionali, in aperta violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Nel caso dei pacifisti italiani trattenuti per giorni in stato di detenzione arbitraria dallo Stato Israeliano, senza potere comunicare con i parenti o con avvocati di fiducia, si tratterà di verificare, sulla base delle loro testimonianze, le vicende individuali. In ogni caso la loro liberazione non può cancellare i reati di percosse, violenza privata aggravata, se non di sequestro vero e proprio, che sono stati compiuti ai loro danni. Ma la risposta giudiziaria ad una strage programmata così cinicamente con giorni di anticipo non può essere certo sufficiente, la questione è tutta politica, e si sono già visti gli effetti delle lobby ebraiche sulla posizione degli Stati Uniti, al punto che persino Obama si è messo dalla parte degli israeliani nel tentativo di rabbonire il potente alleato turco, perno della strategia della Nato in medio-oriente e nello scacchiere delle guerre “umanitarie” in Irak ed in Afghanistan. All'attacco di Israele contro le organizzazioni pacifiste internazionali che volevano portare i loro aiuti a Gaza occorre fornire una risposta politica immediatamente operativa, come ha fatto l'Egitto che ha riaperto immediatamente il confine con Gaza, rompendo in questo modo l'isolamento che era stato inflitto a quella città, già martoriata dalle bombe al fosforo dell'operazione “Piombo fuso”.
Occorre una nuova strategia politica contro la “soluzione finale” che Israele sta imponendo a Gaza ed a tutti i palestinesi. Bisogna impedire che gli assalti delle forze speciali  alle navi umanitarie si ripetano ancora, con il rischio di troncare qualunque possibilità di dialogo di pace, che pure in questi ultimi tempi sembrava mostrare una qualche ripresa. E questa risposta politica non può che venire dall'Europa. Senza giustizia, una giustizia che lo stato di Israele ha dimostrato di non garantire, non ci potrà essere pace, e le convenzioni internazionali riconoscono il diritto alla resistenza contro occupazioni violente ed arbitrarie, come le tante occupazioni militari realizzate per decenni da Israele contro tutte le risoluzioni ( oltre un centinaio) delle Nazioni Unite, che sono rimaste lettera morta.   
2. Dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001, l’Unione europea, al fine di intensificare la lotta contro il terrorismo, adottava la "Posizione comune del Consiglio del 27 dicembre 2001”, relativa a misure specifiche per la lotta al terrorismo (2001/931/PESC). Il Consiglio europeo stabiliva quindi una lista delle organizzazioni terroristiche,  che attualmente include circa 50 organizzazioni, tra cui il PKK ( Partito dei lavoratori kurdi), il movimento delle Tigri Tamil (LTTE), il movimento separatista basco (Eta) ed Hamas. Non fanno più parte della lista altri movimenti, che in passato hanno praticato azioni terroristiche, ma che hanno ceduto le armi ( come l'IRA irlandese) o sono direttamente arrivate al governo, con il beneplacito delle grandi potenze mondiali ( come l'UCK in Kosovo).
La risoluzione comune 2001/931/PESC  si applica “a persone, gruppi o enti implicati in atti di terrorismo (...) secondo quanto deciso da un'autorità competente” e per autorità competente si intende «autorità giudiziaria». La decisione di iscrizione sulla lista nera deve essere basata su “prove ed indizi seri e credibili, ovvero su una condanna”. Basta una decisione del Consiglio Europeo, anche sulla base di elementi sommari, e una organizzazione viene qualificata come “terroristica” con conseguenze assai gravi, più che per i beni confiscati, per le persone che vi sono iscritte, che solo per questo possono essere indagate per terrorismo.  E  gli orientamenti comunitari sono sempre più incerti. Anche se la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha annullato il provvedimento con il quale nel 2002 il Partito dei lavoratori curdi (PKK) era stato inserito nella lista nera, la stessa decisione era stata smentita da un successivo aggiornamento della lista nel dicembre del 2007.  Un altro intervento della Corte di giustizia di Lussemburgo sulla lista dei gruppi terroristici revocava il blocco dei fondi imposto alla Fondazione Al-Aqsa con sede in Olanda, ma più recenti richieste di cancellazione di Hamas dalla lista, dopo le stragi di Gaza, restavano inascoltate.
L'inclusione nell'elenco delle organizzazioni terroristiche è legata all'evoluzione della situazione politica nei diversi territori di crisi, e da tempo si contesta la legittimità della lista, per la totale assenza di garanzie che contraddistingue la condizione giuridica di tutti coloro che appartengono alle organizzazioni che vi vengono comprese. L'iscrizione nella lista nera comporta infatti un passaggio dalla responsabilità penale individuale e dalla presunzione di innocenza  caratteristiche dello stato di diritto, alla responsabilità penale collettiva e ad una vera e propria presunzione di colpevolezza, propria degli stati di polizia. Basta che il Consiglio Europeo adotti una lista di organizzazioni considerate di stampo terroristico e gli stati membri sono obbligati a congelare i fondi di queste gruppi, mentre è ancora più grave la sorte delle persone che risultino iscritte o in contatto con queste organizzazioni, come si è verificato proprio lo scorso anno, con decine di arresti in tutta Europa quando il governo singalese, durante la rioccupazione delle province tamil, portava a compimento nel silenzio della comunità internazionale, un eccidio di cui oggi si vorrebbero cancellare le tracce.  Anche il Consiglio d'Europa ha criticato la lista nera europea, definendo "completamente arbitraria" la procedura usata dall’Ue per includere persone e gruppi tra le organizzazioni terroristiche. Per Dirk Marty, già componente del Consiglio d’Europa, “trovarsi su questa lista equivale ad una condanna a morte”. Una condanna a morte che adesso rischia di essere estesa agli operatori umanitari ritenuti fiancheggiatori di terroristi.
Nel 2003 l'Italia, con l’attuale Ministro degli Esteri Frattini, si fece promotore dell’inserimento di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione Europea. Una posizione di aperto sostegno con le componenti del governo israeliano che da sempre intendono negare qualunque possibilità di negoziazione con questa organizzazione, ormai maggioritaria sia nei territori occupati della Cisgiordania che nella striscia di Gaza. Un sostegno da parte dell'Italia che ha favorito oggettivamente l'operazione “Piombo fuso” su Gaza e il successivo embargo economico contro una popolazione già vittima dei bombardamenti . Ed adesso gli israeliani hanno dichiarato che in futuro continueranno a fare uso delle armi per impedire a chiunque di portare aiuti umanitari a Gaza. Un' avvertimento allarmante proprio mentre altre navi umanitarie, dopo la Rachel Corrie, stanno per fare rotta verso Gaza.  
L’Unione Europea deve trovare autonomia politica ed unità di intenti dopo che la posizione italiana incrina unr fronte che si era ricostruito dopo l'attacco degli israeliani alla Freedom Flotilla. Ma se alcuni governi proseguono le loro politiche violente, l'Europa dei popoli deve chiedere la cancellazione di Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche, e una riapertura delle trattative con tutte le parti in causa, per andare nella direzione della pace, pace e sicurezza che non sono separabili, che non si possono difendere con le bombe, con i rapimenti e con gli attentati mirati. Questo volevano dire i pacifisti internazionali bloccati dagli israeliani prima di avvicinarsi a Gaza, questo vuole il popolo della pace che sta manifestando in questi giorni in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese.
In base alla  risoluzione comune 2001/931/PESC è previsto un aggiornamento obbligatorio della lista nera con cadenza semestrale, ma “in qualsiasi momento” il consiglio può procedere ad un riesame individuale. Se si vuole dare una prospettiva alle speranze di pace in Palestina, e se si vuole impedire un avvitamento della crisi in una nuova spirale di violenza, occorre che l'Unione Europea riveda la lista delle organizzazioni terroristiche, a condizione che queste rinuncino al terrorismo e partecipino ai negoziati di pace, come è stato fatto in Irlanda con l'IRA, dove il processo di pace si è potuto perfezionare anche attraverso la cancellazione di questa organizzazione dall'elenco europeo delle organizzazioni terroristiche.
3. La politica di aggressione portata avanti in questi ultimi anni da Israele, culminata con l'operazione “Piombo fuso” dello scorso anno, ed adesso con l'attacco alle navi del convoglio umanitario, può essere battuta con  una maggiore convergenza tra gli stessi palestinesi, da troppo tempo divisi in fazioni sulle quali i paesi più forti hanno perseguito le loro politiche su scala mondiale e regionale. Durante l'attacco di Israele contro Gaza si è  ritrovata una nuova unità, e quella stessa unità va rinforzata durante questi giorni di crisi sul blocco delle navi umanitarie. Come lo scorso anno, a Gaza, la resistenza non era costituita soltanto da Hamas, ma da tutte le forze palestinesi presenti in quella città, adesso questa nuova escalation militare contro gli attivisti umanitari deve essere contrastata da una riunificazione di tutto il popolo Palestinese, nella differenza dei diversi orientamenti politici, ma nel segno di uno stato nuovo da costruire.
Anche le organizzazioni umanitarie ed i movimenti, in Italia e nel resto d'Europa, devono dare prova di unità. I palestinesi, tutti, e le organizzazioni che li rappresentano  non possono restare isolati, come in passato. Dove non vuole arrivare la politica occorre che i cittadini che credono nei valori della solidarietà e della pace costruiscano un nuovo fronte di resistenza e di proposta, anche in l'Italia, malgrado e contro le posizioni assunte dai suoi governanti, per  il riconoscimento di uno stato palestinese. Per la pace in tutta l'area, occorre rompere l'embargo e soccorrere la popolazione di Gaza, imponendo ai governi la ripresa di un dialogo di pace che restituisca voce e autodeterminazione al popolo palestinese. Solo queste potranno essere le precondizioni per garantire stabilità e sicurezza a tutto il medio-oriente, e  per disinnescare altre minacce del terrorismo internazionale, un terrorismo che cresce sulle scelte militari di governi che praticano sistematicamente l'uso delle armi contro i civili, come ha fatto ancora in questi giorni il governo israeliano.  

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo