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L’orient le jour, 10 maggio 2021 (trad. ossin)
 
Cheikh Jarrah o la storia di un’interminabile spoliazione
Soulayma Mardam Bey
 
La lotta per preservare l’identità palestinese in questo quartiere di Gerusalemme est è emblematica di una lunga storia di esilio forzato, di espropriazione e di colonizzazione israeliana
 
Attivisti e residenti si oppongono alla continua occupazione del quartiere Cheikh Jarrah a Gerusalemme (19 marzo 2021). Foto AFP
 
« Stiamo diventando invisibili a Gerusalemme, relegati ai margini della città, dove non ci possono vedere, nascosti dietro muri di cemento, dietro Kafr Aqab. Ma noi lottiamo per restare visibili e non ci faremo mandare da nessuna parte in silenzio ». Jalal Aboukhater, uno scrittore di 26 anni, viene da Beit Hanina, quartiere palestinese a nord di Gerusalemme, vicino a Ramallah. Il riferimento a Kafr Aqab, è ad un sobborgo arabo che Israele considera parte di Gerusalemme ma che ha, a partire dalla seconda Intifada, progressivamente isolato dalla Città Santa con una barriera di cemento, respingendolo geograficamente in Cisgiordania, in nome della lotta contro il terrorismo.
 
Fin da piccolo, e oggi con ancora più tenacia, Jalal Aboukhater partecipa alle mobilitazioni in appoggio e difesa dei residenti palestinesi di un altro quartiere di Gerusalemme, l’emblematico Cheikh Jarrah, in ebollizione da diverse settimane. Mentre Gerusalemme est si è trasformata, all’inizio del Ramadan, in terreno di scontro tra Palestinesi e poliziotti israeliani che impediscono ai primi l’accesso ai luoghi di culto; mentre gruppi israeliani di estrema destra non esitano ad aggredire i residenti arabi della città, chiedendone l’espulsione, il caso di Cheikh Jarrah viene ad aggiungersi ad una situazione già di per sé esplosiva. Nel mirino della rabbia palestinese, la sorte di quattro famiglie – al-Kurd, Iskafi, Qassim e Jaouni – delle quali un tribunale israeliano ha decretato l’espulsione all’inizio dell’anno, accogliendo le richieste delle associazioni di coloni ebrei e riconoscendo i loro diritti di proprietà nel quartiere. Per i residenti palestinesi di Gerusalemme questa è la prova definitiva dei disegni israeliani di sradicare la loro presenza dalla città. Dalla loro città. Le quattro famiglie attendevano per oggi la decisione della Corte Suprema israeliana, ma la giustizia israeliana ha preferito annullare l’udienza già fissata, con la scusa di una calendarizzazione inopportuna: il 10 maggio è per Israele la « Giornata di Gerusalemme », che celebra l’annessione della città da parte dello Stato ebraico nel 1967. Per le quattro famiglie minacciate, sembrano aprirsi al momento due sole strade: lasciare le proprie case ai coloni o raggiungere un accordo pagando un canone e riconoscendoli come proprietari.
 
« Coloni occidentali »
 
Attualmente Gerusalemme est ospita più di 300 000 Palestinesi e quasi 210 000 coloni israeliani. Considerate come illegali dal diritto internazionale – che resta fedele al paradigma dei due Stati, con Gerusalemme Ovest come capitale israeliana e Gerusalemme est come capitale della Palestina – queste colonie vengono incoraggiate fortemente dallo Stato ebraico che vorrebbe impossessarsi dell’intera città. Le attuali scene di violenza nelle strade sono le più significative dal 2017. Venerdì sera, più di 220 persone, per la stragrande maggioranza palestinesi, sono rimaste ferite sulla Spianata delle Moschee, nel luogo dove i Palestinesi si riuniscono spesso numerosi per condividere l’iftar.
 
« Conosciamo tutti Cheikh Jarrah. E’ un quartiere che attraversiamo sempre quando ci rechiamo alla Città Vecchia o alla moschea di al-Aqsa », spiega Jalal Aboukhater. In questi luoghi ci sono una moschea ed una tomba eponima del XII secolo – lo sceicco Jarrah è stato uno dei medici di Saladino –, diverse missioni diplomatiche e uffici di organismi internazionali, e anche la tomba di Simeone il Giusto, venerato dagli ebrei ultraortodossi e spesso presa a pretesto per sostenere i progetti di espansione coloniale.
 
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Da diversi decenni, gli abitanti palestinesi del quartiere devono vedersela con le manovre dei coloni per impossessarsi dei luoghi e sottrarli alla loro identità araba. Negli anni 1970, alcune organizzazioni di coloni hanno quindi intentato un’azione giudiziaria, affermando che quella zona apparteneva in origine a delle famiglie ebraiche e tentando in tutti i modi di espellere le famiglie palestinesi che vi abitavano. E’ così che Cheikh Jarrah è diventato la lente di ingrandimento della infinita via crucis degli abitanti palestinesi di Gerusalemme, la narrazione della lenta spoliazione di una popolazione privata della sua « indigenità », riportata allo status di « ospite ». « C’era in passato, prima del 1948, un piccolo quartiere ebraico, che ospitava soprattutto ebrei yemeniti. Ma, oggi, questi sono dei coloni nuovi, principalmente ashkenaziti, occidentali. Sono Francesi, Statunitensi, sono religiosissimi e nazionalisti e vogliono rendere la loro presenza visibile e possibile nei nostri quartieri palestinesi », confida Jalal Aboukhater.
 
Per molti Palestinesi, il quartiere è doppiamente simbolico, ospitando da un lato i dolorosi ricordi dell’esilio forzato di ieri; testimone dall’altro di una Nakba che non finisce mai, esacerbata dalla violenza del discorso dei coloni. « Voglio che Gerusalemme sia ebraica », confidava al New York Times Yonatan Yosef, ex portavoce dei coloni di Cheikh Jarrah, nell’edizione del 7 maggio. « Questa terra appartiene alla nazione ebraica, al popolo ebreo ». In realtà, il distretto ha ospitato le più precoci espansioni dei quartieri arabi di Gerusalemme oltre le mura di cinta della città,  alla fine del XIX secolo. « Per ragioni di sicurezza fissate dagli Ottomani, le famiglie dei notabili musulmani si sono trasferite nella zona nord della città e le classi medie musulmane, cristiane ed ebree nella zona ovest », nota Salim Tamari, redattore capo del Jerusalem Quarterly e di Hawliyyat al Quds, nonché professore di sociologia all’Università di Birzeit. Grandi movimenti si sono avuti con l’esodo (forzato dalle truppe israeliane, ndt) del 1948 : gli abitanti palestinesi di trentanove villaggi situati nella zona ovest di Gerusalemme sono stati espulsi verso la zona est della città, per quanto allora le espressioni « ovest » ed « est » non fossero molto usate. Più precisamente, nella parte orientale della città, allora amministrata dalla Giordania, si rifugiarono alcune famiglie palestinesi espulse dalle città e dai villaggi situati in quel che oggi è Israele, e si installarono a Cheikh Jarrah. Così, nel 1956, 28 famiglie di rifugiati palestinesi, espulse dalle loro case nelle città costiere di Jaffa e Haïfa nel 1948, trovarono rifugio nel settore di Karm al-Jaouni a Cheikh Jarrah, grazie ad un accordo tra il Regno di Giordania e l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNRWA). L’accordo prevedeva che queste famiglie potevano acquistare il titolo di proprietà dopo tre anni di permanenza, e in cambio di ciò avrebbero dovuto rinunciare al titolo di rifugiati.
 
Tuttavia la guerra del 1967 portò all’occupazione israeliana di Gerusalemme est – annessa unilateralmente nel 1980 – della Cisgiordania e di Gaza. « Vi sono due aspetti simbolici che occorre sottolineare. Nella Città Vecchia vi era un importante quartiere ebraico, ma una sola famiglia su 2000 vanta un reale diritto di proprietà. Le altre 1999 famiglie che vi abitano attualmente sono canadesi, statunitensi, francesi o russe e non hanno alcun legame con quelli che vi vivevano in precedenza. Ciò vale per Cheikh Jarrah come per il resto di Gerusalemme », sottolinea Salim Tamari. « Per altri versi, non viene consentito alle famiglie palestinesi che hanno perso le loro proprietà a Gerusalemme ovest, quando sono state cacciate verso Gerusalemme est, incluso Cheikh Jarrah, di reclamare i loro diritti di proprietà confiscati a Ovest », aggiunge.
 
« Mio padre non può reclamarla »
 
Huda al-Imam è nata una sessantina d’anni fa a Cheikh Jarrah. Nell’ospedale di San Giuseppe precisamente. Le sue radici e il suo vissuto sono strettamente legate a questa terra. « Il mio bisnonno, Youssef al-Seddik, era un sufi e un imam alla moschea di al-Aqsa. E’ sepolto laggiù, alla porta Faycal », racconta colei che, nel 1998, ha fondato il centro di studi su Gerusalemme dell’Università al-Qods. Con lo sviluppo urbanistico della Città Vecchia, il padre di Huda al-Imam decise, come molti altri di investire nella nuova città, quella che oggi costituisce la parte occidentale e dove, prima della Nakba, molte famiglie musulmane e cristiane si erano istallate. « Nel 1941, mio padre non era ancora sposato e volle fare cosa gradita ai genitori comprando un terreno a Talbiya, in quella che viene chiamata colonia greca e che si trova di fronte alla colonia tedesca, dove la sua famiglia aveva costruito una casa negli anni 1920 », spiega Huda al-Imam. Ma nel 1948,  e dopo il massacro perpetrato dai terroristi ebrei di Deir Yassine il 9 aprile, vennero tutti cacciati dalle loro case. Dieci anni più tardi, suo padre costruì una casa a Cheikh Jarrah, dove Huda al-Imam ha abitato fino ad oggi. La sua lotta quotidiana è duplice : lottare contro la cancellazione dell’identità palestinese a est, ricordare quella che fu l’identità palestinese a ovest. Non ha mai dimenticato questa dimora situata nel quartiere Talbiya di Gerusalemme ovest. Si ricorda perfettamente la fuga dopo il 1967 con suo padre: attraversarono la linea verde di Cheikh Jarrah fino alla colonia greca passando per il quartiere ultraortodosso di Mea Sharim, poi attraverso la colonia tedesca. Poi tentarono di avvicinarsi alla loro casa. « Una cosa che mi ha segnato profondamente, dovevo avere sette anni. La persona che viveva nella nostra casa era uscita col cane, parlava yiddish e cercava di spiegare a mio padre che non aveva il diritto di entrare nel giardino », ricorda Huda al-Imam. Secondo gli studi di Salim Tamari, quasi il 77 % delle proprietà poste nella zona ovest di Gerusalemme apparteneva ai Palestinesi, cristiani e musulmani, prima del 1948. Ma la legge israeliana sulla Proprietà degli assenti del 1950 e quella del 1953 sull’acquisizione fondiaria ha declassato i rifugiati e gli sfollati palestinesi al rango di « assenti », e ha in un primo tempo trasferito la proprietà dei loro beni ad un conservatore e poi l’ha trasferita all’autorità dello sviluppo perché le vendesse allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. « La mia famiglia ha una casa nel quartiere di Katamon, nella zona ovest della città. Ma mio padre non può reclamarla, anche se abbiamo tutti i documenti che ne attestano la proprietà », denuncia Jalal Aboukhater. « Per contro, quando alla giustizia israeliana vengono escogitati trucchi e presentati documenti anche grossolanamente falsificati a sostegno della rivendicazione di una proprietà ebraica, allora decreta l’espulsione immediata delle famiglie palestinesi e consegna la chiave ai coloni israeliani ».
 
« Gerusalemme ha già votato »
 
Huda al-Imam come Jalal Aboukhater è oggi attivamente impegnata nel movimento di contestazione che ha invaso le strade di Gerusalemme. Ed entrambi conservano la memoria viva delle precedenti ondate di espulsione. Agli inizi degli anni 2000, 43 Palestinesi sono stati strappati con la forza dalle loro case. Nel 2008, una parte della famiglia al-Kurd ha subito la stessa sorte, seguita, nell’agosto del 2009, dalle famiglie Hanoun e Ghawi, poi dalla famiglia Shamasneh nel 2017. « Nel 2008, quando hanno espulso la famiglia al-Kurd, questa è rimasta per quaranta giorni a Cheikh Jarrah, in una tenda che i poliziotti regolarmente distruggevano. Allora hanno eretto una tenda sulla rotonda di Talbiya per rivendicare il diritto di tornare nella loro casa d’origine a Gerusalemme ovest », ricorda Huda al-Imam.
 
Malgrado la colonizzazione israeliana prima, malgrado poi gli intrighi dell’Autorità palestinese cui molti Palestinesi di Gerusalemme rimprovero la strumentalizzazione del loro calvario per giustificare il rinvio delle elezioni nazionali inizialmente previste per il 22 maggio, Huda al-Imam sembra spinta dalla forza di una nuova generazione all’avanguardia della lotta. « E’ la prima volta che sento con tale potenza questa identità palestinese unita contro l’occupazione, nonostante l’impegno e l’energia spese dagli Israeliani per sradicare la nostra identità. Forse siamo molto lontani dalla possibilità di formare uno Stato, ma siamo già certamente una nazione », dice. « E anche se la classe politica ha forse bloccato le elezioni per evitare una sconfitta nei seggi, Gerusalemme ha di fatto già votato ». 
 
 
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