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Middle East Eye, 15 maggio 2018 (trad.ossin)
 
La Naqba, 70 anni dopo: le speranze dei giovani Palestinesi per il futuro
Chloé Benoist e Lubna Masarwa
 
David Ben Gurion, il Primo Ministro israeliano è noto per aver detto: « i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno ». Per quanto la fonte di questa citazione sia incerta, questa piccola frase è stata spesso associata alla speranza che le future generazioni di Palestinesi finiranno col rinunciare alle loro rivendicazioni sulla Palestina storica.
 
 
E invece ancora, questo martedì, i Palestinesi commemorano la Naqba – parola che in arabo significa « catastrofe » –, che ha segnato i 70 anni trascorsi dall’espulsione di più di 700.000 Palestinesi dalle loro case quando venne creato lo Stato di Israele, e il conflitto che ne è seguito.
 
Attualmente, più di cinque milioni di Palestinesi sono registrati come rifugiati ; più di un terzo di essi vive nei territori palestinesi occupati (soprattutto 1,3 milioni a Gaza e più di 800.000 in Cisgiordania, secondo l’UNRWA). Nel 2016, L’Ufficio centrale di statistica palestinese stimava che il 40 % dei Palestinesi dei territori occupati era costituito da rifugiati.
 
Ma, anche se quasi il 70 % della popolazione palestinese ha meno di 29 anni, i giovani – soprattutto i rifugiati – restano ai margini sul piano politico ed economico nella società palestinese.
 
« La Naqba è la mia realtà quotidiana »
 
I rifugiati intervistati da Middle East Eye – molti dei quali non hanno mai potuto visitare le terre dei loro nonni – restano però testardamente contrari all’occupazione e si impegnano per ottenere giustizia per la loro comunità.
 
Hamza, 24 anni, che lavora in un centro comunitario per giovani, vive nel campo profughi di Dheisheh, nel sud della Cisgiordania, vicino a Betlemme. E’ incredibile, secondo lui, vedere quanti bambini cresciuti nei campi conoscono comunque i loro antichi villaggi, che fanno oramai parte di Israele.
 
 
« Dicono di essere originari del loro villaggio e sanno quante persone vi vivevano e dove si trova », spiega.
 
I profughi della regione di Betlemme – nella quale vi sono il campo di Aïda e quello di al-Azza oltre a Dheisheh – hanno raccontato a MEE i ricordi trasmessi loro dai parenti che scapparono nel 1948.
 
Hanno parlato di atti di proprietà ingialliti di Beit Natif, delle pesanti chiavi di ferro che sono tutto quanto è rimasto della loro casa di famiglia a Deir Aban, dei pozzi nel cortile retrostante la casa delle loro nonne nel villaggio di al-Malha e dell’odore di salvia selvatica a Deir al-Sheikh.
 
I giovani profughi spiegano che le loro famiglie e le loro comunità hanno loro insegnato la storia della Naqba fin da quando erano piccolissimi, ma che molti Palestinesi non rifugiati, soprattutto nelle zone più ricche, non ne sono bene informati.
 
Ghaida, una discendente di rifugiati di 23 anni che vive a Aïda, ha sottolineato questo problema: « La Naqba deve essere insegnata nelle nostre scuole. Non è solo la “causa” dei rifugiati, è la “causa” di tutti i Palestinesi ».
 
Totti i giovani rifugiati con cui MEE ha parlato hanno insistito sul fatto che non considerano la Naqba come un semplice avvenimento storico cominciato e terminato nel 1948.
 
Le condizioni di vita nei campi profughi, soprattutto la povertà, il sovraffollamento, le infrastrutture di cattiva qualità e la mancanza di spazi pubblici, sono rese ancora peggiori dai frequenti raid, di giorno e di notte, delle forze israeliane, i numerosi arresti e le innumerevoli vittime dovute all’uso di proiettili veri e di gas lacrimogeni da parte dell’esercito.
 
Inas, futura avvocato di 24 anni, spiega : « La Naqba è la mia realtà quotidiana nei campi profughi. Ogni giorno l’esercito israeliano penetra qui dentro e ci spara contro, è la Naqba. Aver visto il mio vicino farsi sparare addosso e farsi ammazzare proprio davanti a casa mia, è la Naqba ».
 
 
Ghaida, che pure studia diritto, racconta quella che considera la quotidiana oppressione delle forze israeliane. Secondo lei si tratta di un tentativo deliberato di instillare una « cultura della paura e della sottomissione » tra i rifugiati.
 
« La Naqba non sono solo le terre che ci hanno rubato », dice. « Certo, le terre ci sono state rubate e dovranno esserci restituite, ma ci hanno rubato anche diritti che dovranno essere riconosciuti ».
 
« Io ho diritto a vivere in pace, ho diritto ad una buona formazione. La Naqba è l’essenza per i rifugiati, perché essi sono stati privati dei diritti dell’uomo ».
 
« I campi profughi non sono la nostra destinazione finale »
 
I giovani rifugiati restano attaccati all’idea del diritto al ritorno nella patria dei loro antenati, garantita dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite.
 
« Giustizia vuole che tutti i rifugiati possano decidere se tornare o meno [nei loro villaggi], oppure ottenere una riparazione economica », afferma Ghaida.
 
Quanto ad Hamza, lui considera il campo come una sala di attesa. « E’ questo quello che insegno ai più giovani della comunità », spiega, « che noi ci troviamo qui temporaneamente, che non è la nostra destinazione finale ».
 
 
Tuttavia la giovane generazione palestinese è frustrata dalla montagna di ostacoli che si frappone alla realizzazione dei loro sogni, soprattutto il governo israeliano e le sue politiche intransigenti, l’appoggio crescente ad Israele da parte del presidente Donald Trump e l’inerzia della comunità internazionale.
 
E anche se i rifugiati considerano il governo israeliano come il principale responsabile della violazione dei loro diritti, considerano anche l’Autorità Palestinese (AP), guidata dal presidente Mahmoud Abbas, responsabile del mantenimento dell’occupazione israeliana, del mantenimento dello status quo a detrimento dei loro diritti e dei loro bisogni.
 
Sami, un 21enne residente a Dheisheh, afferma: "L'AP non riconosce che le terre del 1948 sono quelle dove erano i nostri villaggi, e questo crea frustrazione tra noi ».
 
Agita le braccia enfaticamente, mentre i suoi amici annuiscono. « Noi paghiamo un prezzo elevatissimo per restare qui e resistere, solo per vedere che alcuni partiti politici palestinesi non si preoccupano veramente del diritto al ritorno ».
 
Mohammed, 23 ans, sottolinea fino a qual punto il criticatissimo coordinamento in materia securitaria tra l’AP e le autorità israeliane metta a tacere la resistenza nei territori occupati, specialmente in Cisgiordania, dopo che l’AP ha perso il controllo politico di Gaza a favore di Hamas nel 2007.
 
« Tra popolo e governo non c’è fiducia, sostiene. « In Cisgiordania, chi vuole combattere l’occupazione si troverà contro molti esponenti del governo ; sarà l’AP ad attaccarlo prima che lo faccia Israele. Noi ci battiamo quindi contro due avversari ».
 
Scuola di fortuna aperta per I bambini palestinesi durante la Naqba del 1948 (Wikicommons)
 
L’Autorità palestinese, guidata da Fatah, ha visto la sua immagine erodersi presso i Palestinesi per diverse ragioni, soprattutto la mancata indizione di elezioni presidenziali dal 2005, la sua acquiescenza ai termini e alle politiche israeliane ritenute dannose per il popolo palestinese, o ancora per la sua accettazione della soluzione “a due Stati”, che comporterebbe la rinuncia al diritto al ritorno.
 
Più del 50 % delle persone intervistate in un sondaggio realizzato nel marzo 2018 dal Centro Palestinese di ricerca politica e di inchiesta ha dichiarato di considerare l’AP come un peso per il popolo palestinese.
 
« L’AP può anche rinunciare al diritto al ritorno per dare soddisfazione a Israele e agli Stati Uniti, ma questo non sarà accettato dal popolo, afferma Hana, 23 anni. Noi non abbiamo sofferto e sacrificato vite perché un partito politico possa vendersele».
 
Mentre i dirigenti politici non riescono a risolvere il conflitto israelo-palestinese da sette decenni, la soluzione sembra allontanarsi col passare del tempo.
 
« Ci sono oggi tre generazioni di Israeliani che sono cresciute sulla nostra terra e tre generazioni di Palestinesi che sono cresciute nei campi», spiega Ghaida.
 
« Questo cambia la situazione per coloro che vivono qui. Questo complica il nostro ritorno a casa e io non penso che possiamo tornare alla situazione del 1948 ».
 
Niente dura in eterno
 
Tuttavia, nonostante gli immensi ostacoli, i giovani profughi mantengono la speranza di trovare una giusta soluzione per la loro vita, anche se non sono unanimi nella scelta delle forme di resistenza da adottare, che sia la lotta armata, le manifestazioni pacifiche, la sensibilizzazione internazionale, il movimento BDS (« Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni ») o una combinazione di tutte.
 
 
« Questa generazione ha conosciuto la Naqba, la Naqsa [la “sconfitta” del 1967] e le politiche dell’occupazione israeliana contro di noi », precisa Mohammed.
 
 « Ci sono movimenti di giovani, non solo tra i rifugiati, ma anche nel nord e nel sud, nei campi, nei villaggi. Il ruolo dei giovani è importantissimo, li vediamo studiare la politica e approfondire la causa palestinese per impegnarsi nella costruzione del nostro futuro».
 
L’assenza di sanzioni significative da parte della comunità internazionale contro le ripetute violazioni del diritto internazionale commesse da Israele non ha fatto altro che rafforzare la convinzione dei rifugiati che la chiave del loro destino è nelle loro mani.
 
« Io non mi aspetto nulla dalla comunità internazionale, ma solo da noi, il popolo palestinese », afferma Sami.
 
Molti pensano che un sollevamento popolare palestinese dovrebbe per prima cosa rivolgersi contro l’Autorità palestinese, e poi rivolgersi contro Israele.
 
Anche a causa del fatto che circa tre quarti dei Palestinesi sono troppo giovani per ricordarsi dell’epoca che ha preceduto la creazione dell’Autorità palestinese nel 1993, la disillusione generalizzata nei confronti delle istituzioni politiche palestinesi ha persuaso molti Palestinesi che la strada della liberazione passi per una sollevazione contro il governo Abbas.
 
« Un movimento di giovani che combatta contro l’Autorità palestinese per avere un’altra leadership è il solo modo di cambiare le cose, prosegue Hamza. Solo una rivolta giovanile può rovesciare i dirigenti e cambiare la situazione ».
 
In fin dei conti, I giovani rifugiati si sono dichiarati determinati a continuare a difendere i loro diritti, 70 anni dopo.
 
Inas conclude : « Bisogna che le cose peggiorino perché la situazione migliori, ma qualsiasi cosa succeda, l’ingiustizia prima o poi finirà. Non può durare in eterno ».
 
Mohammed mantiene anche lui la speranza. « Come la speranza è rimasta in mio padre, mio nonno, mia madre e nella mia famiglia, oggi vive ancora in me. Se non manteniamo la speranza, non potremo costruire una generazione ».