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Conferenza internazionale di solidarietà coi prigionieri palestinesi

A pochi giorni dall’ammissione della Palestina all’ONU in qualità di Stato osservatore, si è svolta a Bagdad, nei giorni 11 e 12 dicembre 2012, una Conferenza Internazionale di solidarietà con i prigionieri arabi e palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

Qualche polemica ha contrassegnato la vigilia di questo avvenimento, con l’appello al boicottaggio della conferenza firmato da diversi  avvocati, intellettuali, artisti e militanti arabi (primo firmatario Sabah Al-Mukhtar, presidente dell’associazione degli avvocati arabi e membro del Comitato esecutivo del BRussels Tribunal). L’accusa, rivolta al governo iracheno, è quella di voler sfruttare la sofferenza dei palestinesi per accreditarsi di fronte alla opinione araba, dimenticando le moltissime discriminazioni e le violenze settarie contro i Palestinesi, che si sono registrate in Iraq dopo l’aggressione del 2003 e l’ascesa al potere dell’attuale governo.

La conferenza ha avuto comunque luogo, con la partecipazione di oltre 150 invitati provenienti da più di 70 paesi (8 italiani, quattro dei quali di Ossin e di Anci-Campania), sebbene in uno scenario di ferite aperte e non rimarginate, in una Bagdad ancora segnata dalla guerra e dall’ occupazione, nonostante l’evidente tentativo del governo iracheno di trasmettere, attraverso questa iniziativa, una immagine di normalità.

In una Bagdad ancora terrorizzata dal timore di sanguinosi attentati, come dimostrato dai muri di difesa, dai ripetuti posti di blocco, dai carri armati e dai cani anti-esplosivo, messi a difesa della cittadella internazionale, all’interno della quale si è svolta la conferenza e tra le cui barriere di cemento armato i partecipanti sono rimasti tutto il tempo rinchiusi, senza possibilità di uscire.

Da segnalare un piccolo colpo di scena tutto italiano, con l’affidamento (e la sua accettazione) della direzione di una sezione di dibattito a Barbara Contini, ex governatrice della provincia di Dhi Qar (quella di Nassiriya) ed attuale senatrice del gruppo finiano di Futuro e Libertà. Inevitabile il collegamento col recente (ed imprevisto) voto favorevole dell’Italia all’ammissione della Palestina all’ONU e qualche suggestione su un possibile abbandono della linea ottusamente filo-Israele tenuta dall’Italia nell’ultimo ventennio.
 
La detenzione amministrativa
I lavori si sono aperti con gli interventi del primo ministro palestinese, Salam Fayyad, del suo omologo iracheno, Nouri al Maliki e del Segretario Generale della Lega araba, Nabil Al-Arabi. In particolare, Fayyad ha affermato che sono stati quasi 750.000 i prigionieri palestinesi e arabi arrestati dalle forze di occupazione israeliane dal 1967, tra i quali 13.000 donne e 25.000 bambini, nella flagrante violazione delle convenzioni internazionali.



M. Roland Weyl



Numerosi interventi (ricordiamo in particolare quello di Maitre Roland Weyl, avvocato a Parigi) hanno avuto ad oggetto la detenzione amministrativa, il mostruoso strumento pseudo-giuridico che, insieme alle uccisioni mirate, segnano la diversità e la lontananza dello Stato di Israele dalla comunità dei popoli civili e dai principi più elementari del diritto internazionale.

La detenzione amministrativa è un arresto che prescinde dalla commissione di qualsiasi reato. Essa è decisa sulla base di dossier segreti. Non vi è un capo di imputazione e dunque il prigioniero non sa neppure perché è stato arrestato, non vi è possibile intervento di un avvocati perché non c’è processo, e non ci sono limiti di durata. Essa dipende dalle decisioni segrete e inappellabili delle autorità di sicurezza israeliane.

Sul piano strettamente giuridico, si osserva che essa è una eredità della funesta legislazione di emergenza inglese del 1945, che Israele ha entusiasticamente fatta propria. Solo dall’anno 2000, si calcola infatti che ben 20.000 ordini di detenzione amministrativa siano stati emessi a carico di palestinesi. Dati più precisi resi noti dal Ministero dei prigionieri rivelano che esse sono state 1678 da aprile 2008 a luglio 2009 e che, ad oggi, sono 230 i detenuti amministrativi nelle prigioni dell’occupazione.

Destinatari di questi provvedimenti, che sfidano (impunemente) la coscienza civile e il diritto internazionale, sono uomini, donne e bambini. Senza distinzioni: sono stati detenuti ben 23 deputati palestinesi e 3 ex ministri.  Il deputato Mohammad Toutah e l’ex ministro Khaled Abou Arafa sono stati arrestati nei locali della Croce Rossa Internazionale ad al-Qods (Gerusalemme), nella quale i militari israeliani hanno fatto irruzione, scardinandone le porte, senza minimamente preoccuparsi del carattere di istituzione internazionale del luogo.

Frequente il ricorso dei prigionieri allo sciopero della fame. E’ stato ricordato il caso di Cheikh Khedr Enan, che ha ottenuto di essere liberato dopo uno sciopero della fame di 66 giorni.


I bambini detenuti
Particolarmente toccante la terza sessione del 2° giorno, quella diretta dalla senatrice Contini, che ha ospitato le testimonianze di alcuni ex prigionieri e loro familiari. Tra loro, Nagat Elfalougy, una madre che ha parlato del divieto posto da Israele alla possibilità che ella possa anche solo rendere visita ai suoi due figli condannati all’ergastolo. “Israele ci priva dell’umanità” ha detto, nel corso di un intervento talmente toccante che la signora palestinese che lo traduceva in francese è scoppiata ad un certo punto in lacrime, interrompendo la traduzione.

Una delle peggiori torture inflitte dall’occupante israeliano ai prigionieri palestinesi è infatti il divieto di incontro coi familiari, come è emerso anche dalle altre testimonianze, quelle di Fatma Ezzaq, Ahmad Gabara e Mahmoud Bakr Hegazy.



We'aam Ettammimy



Barbara Contini accoglie We'aam al tavolo dei conferenzieri



E quella di We’aam Ettammimy, un bambino di 12 anni che è stato detenuto per una settimana nelle carceri israeliane e sottoposto a vari interrogatori. Ha raggiunto il tavolo dei conferenzieri con un’aria serissima e, pur nell’emozione di parlare al microfono di fronte ad una platea attentissima di adulti, si  è mostrato molto sicuro di sé. Lui è uno dei moltissimi bambini che la crudele occupazione israeliana imprigiona per un nonnulla: una pietra lanciata, un insulto, uno sguardo ostile.

Arresti dovuti all’ossessione securitaria in cui vive Israele, certo, ma anche all’arroganza che viene dalla certezza dell’impunità. E soprattutto arresti finalizzati a un obiettivo preciso, specie quando colpiscono  bambini: la intimidazione, il monito, la lezione, perché i Palestinesi imparino fin da piccoli ad accettare l’occupazione e non osino ribellarsi.

Lo ha detto We’aam, 12 anni, con grande fermezza: “Cercano di spezzare la nostra volontà, ma noi continuiamo ad essere determinati nella nostra lotta”.


Liberare la Palestina dai Palestinesi
“Quella israeliana non è una vera occupazione, è piuttosto una lenta espulsione dei Palestinesi dal loro territorio”. Queste le parole di Pierre Lafrance, ex ambasciatore francese in Iran e in Pakistan,  oggi pensionato impegnato nel campo della solidarietà internazionale.

Ha accettato di rispondere ad alcune domande su quanto aveva detto nel suo intervento ufficiale, premettendo di essere venuto a Bagdad su invito dell’ambasciatore iracheno presso la Lega Araba (“E’ un mio vecchio amico – ha spiegato - col quale condivido alcune idee sulla Palestina”).

Ha suscitato la nostra curiosità il fatto che dal palco dei conferenzieri avesse parlato di pena di morte in Israele. “E’ stato un lapsus – ci ha confessato – in effetti in Israele non c’è la pena di morte, e tuttavia un ergastolo senza possibilità di misure alternative o riduzioni di pena, scontato per di più in condizioni detentive terribili, non è molto diverso dalla pena di morte”.

Aveva anche detto che Gaza è una prigione a cielo aperto. “E’ così – ci ha confermato – Gaza è una specie di articolazione del sistema detentivo israeliano. La detenzione dei palestinesi, per Israele, ha una duplice funzione: quella tipica del ‘sorvegliare e punire’ di cui ha parlato Foucault, e quella – indiretta – di provocare disperazione e di spingere i Palestinesi a fuggire dalla loro terra.



L'ambasciatore Pierre Lafrance



Quella israeliana non è una vera e propria occupazione, è piuttosto una lenta espulsione dei Palestinesi. Con i nuovi insediamenti, l’appropriazione di terre e risorse palestinesi e, anche, con meccanismi oppressivi e detentivi, Israele mira ad un risultato molto preciso: diminuire il numero di Palestinesi presenti in Palestina, liberare la Palestina dai Palestinesi.
Non è un genocidio, è piuttosto una epurazione. Ma non etnica, dal momento che la maggior parte dei Palestinesi discendono da ebrei convertiti”.

Il perché di questa politica di epurazione è nel sentimento che di sé hanno gli Israeliani e nell’identità che coltivano.  “Gli ebrei – ha spiegato l’ambasciatore – si considerano uniti da una stessa discendenza. Anche se si sono molto mescolati nel corso dei secoli, si considerano una razza (come discendenza in senso biblico), un popolo eletto, che ha dei diritti sulla terra promessa.

Quando l’ambasciatore di Israele all’ONU ha protestato contro l’ammissione della Palestina, ha detto che i legami degli Ebrei col territorio della Palestina sono millenari ed ha ironicamente aggiunto che tali legami non sono stati certo decisi dall’ONU”.

“In realtà – ha aggiunto Lafrance  – la vera ragione per la quale gli israeliani hanno accolto con tanto dispetto l’ammissione della Palestina all’ONU è che hanno paura di essere messi sotto accusa nelle corti internazionali per i crimini che commettono nei territori occupati”.

L’ambasciatore Lafrance è anche convinto che il peggio per i Palestinesi sia il mantenimento dello status quo. “Lo status quo è una lenta espulsione dei palestinesi dal loro territorio – ha ripetuto - Israele è spinta in questa impresa non solo da ragioni di carattere politico e da interessi strategici, ma dalla idea stessa che gli Israeliano coltivano di sé, quella di essere il sale della terra, il popolo eletto contro tutti”. 



Lettura del comunicato finale della conferenza



Conclusioni sobrie e leggermente sottotono, dopo due giorni di interventi serrati. Il comunicato finale ha ovviamente ribadito la solidarietà di tutti gli intervenuti con il popolo palestinese in lotta per la sua liberazione, ed ha annunciata l’iniziativa del Governo iracheno di  costituire un fondo di 2 milioni di dollari per realizzare un centro di riabilitazione e recupero degli ex prigionieri palestinesi.