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Wang Hui è direttore della prestigiosa rivista culturale cinese «Dushu». Dopo i fatti del 1989, è stato inviato per un anno nella regione montagnosa dello Sha'anxi, una delle zone più povere della Cina, ai confini con lo Henan e l'Hubei. Tornato a Pechino alla fine del 1990, ha pubblicato il suo primo libro La rivolta contro la disperazione - Lu Xun e il suo mondo. Questo studio sulla principale figura della letteratura cinese moderna sottolinea il debito di quest'ultimo al pensiero di Stirner e Nietzsche, e le contraddizioni insite nel suo appoggio alla causa della rivoluzione.
Tre anni dopo, una raccolta di saggi sul 'Movimento del Quattro Maggio'1 ha confermato la fama di Wang Hui come una delle menti più indipendenti apparse negli anni novanta. Nel 1996, rimasto vacante il posto di direttore di «Dushu», è stato scelto per assumere la guida della rivista. L'anno seguente, i suoi Self-Selected Essays hanno avuto un grande impatto sui giovani intellettuali della Repubblica Popolare Cinese. In quel periodo, Wang Hui aveva cominciato a mettere in discussione le opinioni ormai dominanti nell'intellighenzia cinese. I suoi scritti sul tema della 'modernizzazione' sono apparsi in seguito sotto il titolo Riaccendere il fuoco ghiacciato (1999). La tagliente critica sociale in essi contenuta ha scosso i fautori del libero mercato, in una Cina che oggi deve misurarsi con un forte malcontento e il fenomeno di una 'Nuova Sinistra'. Nella primavera del 2000 questa espressione ha acquistato importanza, poiché le discussioni in merito a quale direzione scegliere per il paese hanno ormai raggiunto toni sconosciuti in passato. Wang Hui è stato al centro di questo conflitto, con un saggio in due volumi pubblicato di recente (La nascita del pensiero cinese moderno). (New Left Review)


Qual è l'influenza di «Dushu» nella vita culturale cinese, e come concepisce il suo ruolo di direttore?

Il primo numero di «Dushu» è stato pubblicato nell'aprile del 1979. L'articolo di apertura era intitolato Nessuna zona vietata alla lettura, e si può dire che questo sia stato lo spirito della rivista fin dall'inizio. Il primo direttore di «Dushu» proveniva dalla Commercial Publishing House di Pechino, la casa editrice storicamente più importante della Cina moderna. Un anno dopo gli successe Fan Yong, un editore progressista che aveva stretti legami con il mondo intellettuale, fin dagli anni quaranta. Penso che sia stata la figura più significativa nella storia della rivista, che negli anni ottanta, sotto la sua guida, è diventata un forum importante per nuove idee e dibattiti. Dal 1979 al 1984, la maggior parte di tali idee furono rappresentate da una vecchia generazione di studiosi o intellettuali 'ufficiali' di mentalità aperta, come Li Honglin, Wang Ruoshi e altri. Furono loro, ad esempio, a sollevare la questione dei rapporti tra marxismo e umanesimo. Successivamente, intorno al 1985, una leva di giovani intellettuali conquistò il centro della scena. Alcuni dei più attivi erano nel comitato redazionale di Cultura: la Cina e il mondo, una collana di traduzioni dirette ad introdurre dall'estero i classici del pensiero moderno, la maggior parte delle quali pubblicate dalla Sanlian Press, che era anche la casa editrice di «Dushu». La rivista ospitò numerose recensioni di questi libri, che attrassero l'attenzione di molti studenti universitari, laureati e intellettuali alle prime armi. Vi fu una grande curiosità per la filosofia, la teoria sociale e il pensiero economico occidentali. Nietzsche, Heidegger, Cassirer, Marcuse, Sartre, Freud, e ovviamente la teoria della modernizzazione e l'economia neoclassica, furono esaminati appassionatamente negli articoli di quel periodo. Non fu un processo senza resistenze: fu criticato lo stile con cui si scriveva di questi argomenti, giudicato troppo difficile e oscuro. Guardando indietro, potremmo dire che i più giovani erano interessati soprattutto all'introduzione di nuove teorie, senza necessarie implicazioni politiche, mentre la vecchia generazione aveva con la politica un rapporto molto più stretto. In questa fase, «Dushu» non fu una rivista radicale e mantenne un certo distacco dai fermenti politici della fine degli anni ottanta. Ma venne creato uno spazio per ulteriori discussioni, che nel 1989 si dimostrò non privo di importanza.
Il 1989 segnò un punto di svolta. Mentre alla fine dell'anno in altri periodici vi fu un notevole avvicendamento di direttori, a «Dushu» non avvenne alcun cambiamento, infatti il direttore Shen Changwen è rimasto al suo posto fino al 1996. In parte, ciò è accaduto semplicemente perché la rivista aveva avuto uno scarso ruolo politico diretto negli anni precedenti. Ma nel clima generale di conservatorismo e dogmatismo successivo al 1989, «Dushu» si è distinta per una maggiore apertura intellettuale. Naturalmente sulla rivista sono state esercitate pressioni, e dopo la visita di Deng Xiaoping nella Cina meridionale nel 1992, un'ondata di consumismo è dilagata nel paese. In questo contesto, Shen ha spostato la politica editoriale verso articoli di più facile lettura e discussioni meno accademiche, per rilanciare le vendite. La tiratura è passata da 50mila ad oltre 80mila copie in cinque o sei anni, ma alla rivista si continuava a imputare di non riflettere l'evoluzione della ricerca culturale in corso nel paese, di essere ancora troppo di élite.
Nel 1996 fui invitato a ricoprire la carica di direttore. Da allora, la nostra politica è stata quella di mantenere uno stile leggibile, ma preservando la rivista da preoccupazioni mercantili, sforzandoci di ricondurla al vero dibattito culturale, estendendo la gamma degli argomenti trattati oltre la letteratura e le discipline umanistiche. Abbiamo lanciato dibattiti importanti su una serie di temi: le sorti della società rurale, l'etica, l'Asia, guerra e rivoluzione, la crisi finanziaria, il liberismo, legge e democrazia, il nazionalismo, il femminismo. Tutto ciò ha reso «Dushu» un centro di dibattito, e ha fatto aumentare il suo pubblico oltre i 100mila e talvolta fino ai 200mila lettori.

Internet sembra essere esploso quest'anno come mezzo di discussione in Cina. Quali mutamenti, positivi o negativi, ciò determina nello scambio di idee, soprattutto fra le giovani generazioni?

È senza dubbio uno degli sviluppi più importanti. Soggetti differenti, di ogni tipo, in questo momento trovano sbocco sulla rete; persino il governo cinese ha tentato un approccio, sforzandosi - senza molto successo - di introdurre delle regole. Internet è importante per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, crea uno spazio in cui sono possibili discussioni fra intellettuali cinesi del continente e d'oltremare, quasi una zona oltre i confini degli Stati-nazione. In secondo luogo, permette di affrontare molte questioni espressamente politiche, che i mezzi di stampa in Cina non possono toccare. Infine, diffonde con estrema rapidità in tutto il paese informazioni di carattere locale, che diversamente non otterrebbero alcuna attenzione a livello nazionale. Offre quindi l'opportunità di collegare spazi locali, nazionali e internazionali. Tuttavia appaiono evidenti anche i suoi limiti. Le informazioni che fornisce sono comunque soggette al controllo di varie forze. Poiché in molti casi non è possibile verificarle, spesso non abbiamo alcun mezzo per sapere se una cosa è vera o falsa. La rete inoltre è il mezzo ideale per intervenire senza assumersi responsabilità, favorisce attacchi personali e denigrazioni sconsiderate, sotto la copertura dell'anonimato. Allo stesso tempo, non si presta facilmente a discussioni teoriche, che in Cina costituiscono ancora, più o meno, un ambito riservato alle riviste stampate; alcune di queste, tuttavia, stanno allestendo propri siti Internet, ed è prevedibile che in futuro i due mezzi interagiscano maggiormente.

Sul piano politico, nel corso degli anni ottanta la scena cinese era divisa convenzionalmente in due categorie, riformisti e conservatori, una dicotomia in cui ciascuno dei due elementi esprimeva specifiche e distintive valutazioni di sé e dell'altro.
A un certo punto degli anni novanta, le condizioni sono cambiate, la gente ha iniziato a parlare di liberali e poi, ancora più recentemente, di 'Nuova Sinistra'. Cosa c'è dietro questi sviluppi?

Verso la fine degli anni settanta, i termini 'conservatori' e 'riformisti' indicavano, rispettivamente, coloro che ancora mantenevano le cariche ottenute negli ultimi anni del periodo di Mao - definiti anche, in modo irridente, 'fanshipai' [gli incerti, a volte gli opportunisti - NdT] - e i sostenitori convinti della politica di Deng. A quel tempo, i conservatori erano personaggi come Hua Guo Feng e Wang Donxing, l'ex responsabile della sicurezza di Mao, mentre teorici quali Deng Liqun o Hu Qiaomu appartenevano all'ala riformista del Partito. Alla fine degli anni settanta Deng Liqun era decisamente radicale: mentre Hua Guo Feng era ancora presidente del Pcc, egli teneva conferenze alla Scuola centrale del Partito, attaccando molto duramente i conservatori e criticando persino lo stesso Mao. Ma dopo la 'campagna contro l'inquinamento spirituale' del 1983, cambiò la geografia politica. Hu Quiaomu pubblicò un famoso articolo sull'umanesimo socialista, attaccando Zhou Yang, Wang Ruoshi, Su Shaozhi ed altri intellettuali - generalmente di mentalità più aperta -; e cambiò anche il giudizio su Deng Liqun. Quando Hu Yaobang diventò Segretario generale del Pcc, Hu Qiaomu e Deng Liqun vennero identificati come conservatori. Tutti questi uomini appartenevano comunque all'area di Deng Xiaoping. Le stesse fluttuazioni si riscontrano nella collocazione di cui fu oggetto Li Peng, considerato nel 1989 il conservatore per eccellenza. Noto soprattutto come figlio adottivo di Zhou En-Lai, divenne vice primo ministro alla metà degli anni ottanta. A quel tempo, il suo atteggiamento risultava alquanto ambiguo, non era affatto chiaro se fosse un conservatore o un riformista radicale. La differenza fra le due posizioni era evidente fra i leader di partito della vecchia guardia, ma appariva molto più sfumata nella nuova generazione.
Con i severi provvedimenti del 1989, furono invece senza dubbio i conservatori a prendere il potere. Ma la definizione non si adatta così facilmente a Deng Xiaoping. Dopo il 'Quattro Giugno'2, egli ebbe una serie di incontri con Yao Yilin, Li Peng e altri, nei quali ribadì la necessità di proseguire le sue politiche di riforma, e scelse come successore Jiang Zemin, un politico più conciliante di Li Peng, ma più forte di Zhao Ziyang. Così negli anni novanta divenne molto difficile attribuire un contenuto reale alle categorie di 'riformista' o 'conservatore'. In certo senso, l'intera 'politica di riforma' divenne più radicale che non al tempo di Zhao Ziyang. Contro di essa, all'interno delle strutture del potere, non si levò più alcuna voce contraria. Lo stesso Li Peng realizzò in qualità di primo ministro numerose riforme, seguendo le indicazioni di Deng.
Fu in questo contesto che cominciò a verificarsi un cambiamento nel vocabolario politico cinese. Possiamo datarne l'inizio intorno al 1993. Nella primavera del 1992 Deng Xiaoping fece un viaggio a Shenzhen, nel Sud del paese, durante il quale diede il via ad una spinta totale verso la modernizzazione dell'economia cinese, nel senso di basarla sulle regole del libero mercato. Il risultato immediato fu un boom incontrollato dei consumi - con alto tasso di inflazione - a Shangai, Guangdong e anche a Pechino. Questo esito del viaggio nel Sud impressionò molti intellettuali. La maggior parte di essi all'inizio aveva accolto positivamente la nuova, potente ondata di politiche riformatrici. Ma quando videro la logica del mercato prevalere in tutti gli ambiti della vita quotidiana, e la cultura che ne conseguiva, cominciarono ad avvertire una certa disillusione. Negli anni ottanta la concezione dominante fra gli intellettuali cinesi era stata - per usare le parole del tempo - un 'Nuovo Illuminismo', assai favorevole alle priorità della 'Porta aperta' e alla liberalizzazione economica avviata dal governo di Deng. Questi parametri cominciarono ad essere messi in dubbio dallo sviluppo di due dibattiti. Nel 1993 la rivista di Hong Kong «Ventunesimo secolo», pubblicò un saggio di un giovane economista cinese del Mit, Cui Zhiyuan, dal titolo Una seconda emancipazione. L'articolo sosteneva che se la prima emancipazione intellettuale era stata quella dal marxismo ortodosso, ora doveva seguirne un'altra, che liberasse dai rigidi presupposti del 'Nuovo Illuminismo'. Cui Zhiyuan attinse a tre diversi filoni di pensiero: gli studi di critica del diritto statunitensi, il marxismo analitico occidentale, e le teorie originali di una 'nuova evoluzione'. Per i lettori cinesi, la caratteristica sorprendente del suo saggio era il tranquillo riferimento al marxismo analitico? Non che qualcuno conoscesse il significato di quell'espressione: ciò che colpiva era l'uso del termine 'marxismo' in sé, da tempo quasi un tabù per molti intellettuali. Cui Zhiyuan andò poi avanti e scrisse - in collaborazione con Roberto Unger - una serie di articoli sul futuro delle riforme in Russia, quasi un monito ai sedicenti riformisti cinesi. Nello stesso periodo, un altro giovane studioso impegnato negli Stati Uniti, Gan Yang, pubblicò su «Ventunesimo secolo» alcuni articoli sulle imprese delle municipalità e dei villaggi, identificandole come una forma di proprietà intermedia, né statale né privata, la via peculiare cinese alla modernità. E così la prima rottura con il pensiero dominante venne da uno studente d'oltremare.
Un altro importante dibattito si aprì l'anno seguente, questa volta su «Dushu», allorché alcuni intellettuali di primo piano criticarono la crescente commercializzazione della vita in Cina, in quanto distruttiva del suo 'spirito umanistico'. Il tema fu lanciato da alcuni studiosi di Shangai; il che è piuttosto logico, se consideriamo che Shangai è il più grande centro di consumi della Cina, e che i suoi intellettuali hanno subito - prima e più profondamente dei loro omologhi di Pechino - lo shock della feroce ondata neoliberista successiva al viaggio di Deng nel Sud.
In modo del tutto indipendente - un po' di tempo prima, in realtà - il gruppo intorno alla rivista «Xueren» («Gli studiosi»), con il quale ero in rapporto, aveva sollevato alcune questioni critiche, a partire dal movimento del 'Quattro Giugno'. A suo avviso, gli intellettuali del 'Nuovo Illuminismo', anziché studiare la realtà del paese, avevano importato nel processo di riforma le idee occidentali, commettendo un grave errore.
Si è cominciato così a parlare di una 'Nuova Sinistra', maggiormente critica verso il capitalismo e più consapevole dell'esperienza di Eltsin.

L'uso del termine 'liberale' era già diffuso?

Non nel suo significato attuale. Il governo, ovviamente, aveva lanciato una campagna contro il 'liberalismo borghese' nel 1986, per non parlare del 1983. Ma il termine era ancora usato, in prevalenza, nel modo in cui Mao lo aveva impiegato nello Yan'an, riferendosi a una condotta disdicevole sul piano personale e alla mancanza di disciplina. Da parte sua, il 'Nuovo Illuminismo' non ha scelto il liberalismo, inteso nel senso più classico, come modello; ma ha teso a rivolgersi a un diverso tipo di socialismo. Fang Lizhi, ad esempio, al ritorno da un viaggio in Scandinavia, sostenne la validità anche per la Cina di un socialismo nordico, nella tradizione di Bernstein. L'illustre filosofo Li Zehou si definiva un marxista, non un liberale. Wang Yuanhua, direttore della rivista 'Nuovo Illuminismo', affermò apertamente di essere marxista. Su Shaozhi ha pubblicato ricerche sulle riforme in Jugoslavia, Polonia e Ungheria. In quel periodo, l'ispirazione di questa generazione era ancora socialista, piuttosto che liberale. L'unica eccezione di rilievo è rappresentata dal politologo Yan Jaqi, che effettivamente è risalito all'illuminismo europeo, al tempo della Costituzione americana e alla fase iniziale della rivoluzione francese, e si è interessato della divisione dei poteri nella tradizione di governo liberale. Ma in generale, dalla fine degli anni settanta alla metà degli ottanta, il 'Nuovo Illuminismo' - i cui intellettuali di maggior prestigio erano molto vicini al governo - ancora parlava dei meriti del socialismo. Fu alla fine degli anni ottanta che il clima cambiò. Le teorie di Hayek vennero discusse da un numero crescente di persone, anche se ben pochi le avevano lette. Friedman fu ricevuto con entusiasmo da Zhao Ziyang. I consiglieri economici del governo premevano per realizzare privatizzazioni su larga scala.

Quindi l'attuale autodefinizione di 'liberali', da parte degli intellettuali cinesi, data dalla fine degli anni novanta? Negli anni ottanta, nessuno poteva dire apertamente: «Sì, sono liberale». Ma all'indomani del 1989, nella situazione determinata dalla radicalizzazione delle politiche ufficiali di riforma, questo termine poteva descrivere un misto di appoggio e critica nei confronti del governo: approvazione della liberalizzazione economica, ma dissenso nei confronti della censura o della violazione dei diritti umani. È corretto ritenere che questa sia diventata un'opinione condivisa?

Approssimativamente sì, ma con molte sfumature di giudizio. Molti liberali di Shangai hanno vissuto con grande disagio la commercializzazione della cultura, ad esempio. Inquietudini che sono emerse durante il dibattito sullo 'spirito umanistico'. Altri erano preoccupati per l'aumento delle ineguaglianze sociali. In realtà, i liberali cinesi non hanno dato un senso concreto a questa definizione di sé, finché non hanno scoperto un antagonista intellettuale. I primi fermenti di una visione più critica dell'apertura ufficiale al libero mercato risalgono al 1993-94, come ho detto. Ma fu solo nel 1997-98 che l'espressione 'Nuova Sinistra' venne usata diffusamente, per indicare posizioni diverse dall'opinione generale. I liberali la usarono fidando nella connotazione negativa dell'idea di 'Sinistra' nel tardo maoismo, per affermare implicitamente che la 'Nuova Sinistra' rappresentava un ritorno al passato, alla Rivoluzione culturale. Fino a quel momento, essi avevano più spesso tacciato come 'conservatore' chiunque criticasse la corsa al libero mercato. A partire dal 1997, il metro di valutazione è cambiato. La tipica definizione accusatoria è diventata 'Nuova Sinistra'.

Come si spiega il cambiamento?

Corrisponde a un mutamento del clima culturale. Nel corso degli anni novanta, si sono levate voci critiche sempre più numerose contro l'indirizzo generale impresso alla società cinese. Persino alcuni economisti - una comunità molto ortodossa - nutrivano dubbi sul fatto che il paese fosse sulla strada giusta; studiosi come Yang Fan hanno presentato una serie di dati tutt'altro che rassicuranti. Nel 1997 la rivista di Hainan «Tianya» ha ospitato un mio saggio, scritto quattro anni prima (all'epoca nessuno aveva voluto arrischiarsi a pubblicarlo), sul fallimento delle varie versioni della 'modernizzazione', che si concludeva con un'aspra critica al genere di modernità capitalista che era stata offerta al paese dall' 'Era delle Riforme'. All'inizio non vi sono state reazioni aperte, sebbene io sia stato bruscamente richiamato all'ordine in privato e siano circolati giudizi poco lusinghieri sul mio conto. La risposta pubblica è stata il silenzio, ma di quel saggio si è parlato molto. Poi «Ventunesimo Secolo», di Hong Kong, ha pubblicato due o tre articoli di intellettuali del continente che attaccavano le mie posizioni. Ciò ha rotto il ghiaccio, e diversi studiosi hanno seguito quella scia, con giudizi ostili sulla stampa della Rpc, specialmente a Guangzhou. Questa ostilità nasceva anche dal fatto che la rivista da me diretta metteva volutamente in discussione il sapere tradizionale fra gli intellettuali. La tiratura è aumentata, e da qui ha preso avvio una serie di dibattiti, che hanno destato molto interesse fra i giovani. Nello stesso anno, ho pubblicato una raccolta di saggi, concernenti soprattutto i problemi della Cina contemporanea, che ha venduto piuttosto bene. All'Università di Pechino, gli insegnanti hanno trascorso interi semestri a discuterne con gli studenti.

È andato avanti, da allora, un processo di differenziazione politica?

Nel 1998 è scoppiata la crisi finanziaria in Asia. Ovviamente ciò ha scosso ogni cieca fede nel mercato mondiale. Improvvisamente il capitalismo non sembrava più in grado di offrire garanzie assolute di stabilità e prosperità. I liberali sono stati costretti su posizioni difensive. Ma hanno ricevuto un colpo assai peggiore nel 1999, con il bombardamento dell'ambasciata cinese di Belgrado. Per molti liberali cinesi, profondamente filo-occidentali, approvare qualsiasi iniziativa americana è ormai quasi un riflesso condizionato. Pertanto, di fronte all'ondata di indignazione sorta fra la gente comune e alle manifestazioni spontanee degli studenti, con il governo su posizioni di retroguardia, essi d'un tratto si sono ritrovati isolati. La sensazione di aver perso credibilità nei confronti degli studenti è stata particolarmente dolorosa. Alcuni hanno paragonato lo scoppio di collera popolare alla rivolta dei Boxer, considerandolo un'espressione di xenofobia irrazionale, mentre altri hanno rimproverato alla 'Nuova Sinistra' di aver favorito un nazionalismo primitivo, che ha solo rafforzato il governo. Molto poco di tutto ciò ha trovato spazio sui mezzi di comunicazione, ma si è accumulato un fondo di tensioni soffocate, che ha invaso la scena pubblica per tutto quest'anno, allorché la 'Nuova Sinistra' è diventata bersaglio di una violenta offensiva liberale. In realtà, persone come me sono state sempre riluttanti ad accettare questa etichetta, che ci è stata appiccicata addosso dai nostri avversari. In parte, ciò avviene perché non abbiamo alcun desiderio di essere associati alla Rivoluzione culturale, o a quella che potrebbe definirsi la 'Vecchia Sinistra' o il Pcc dell'epoca riformista. Ma anche per il fatto che l'espressione 'Nuova Sinistra' è occidentale, e possiede un complesso di connotazioni assai specifiche - generazionali e politiche - in Europa e in America. Il nostro contesto storico è cinese, non occidentale, ed è in dubbio che una categoria così evidentemente importata dall'Occidente possa essere utile nella Cina di oggi. Questa sensazione si è rafforzata con la guerra nei Balcani. Sono stati così numerosi gli intellettuali occidentali autodefinitisi 'di sinistra' e schierati in difesa della campagna della Nato, che non è affatto desiderabile prendere in prestito da loro questa parola. Quindi piuttosto che di 'Nuova Sinistra' in Cina, preferisco parlare di intellettuali critici. Ma l'espressione probabilmente è destinata a rimanere.

Storicamente, nelle società tardo-comuniste o postcomuniste si è teso a distorcere i termini Sinistra e Destra, attribuendo loro i significati più diversi. Sembra che oggi in Cina, dopo un lungo periodo in cui nessun termine aveva più alcun valore, sia riaffiorata l'idea di una 'Nuova Sinistra'. Cosa ne è del Centro o della Destra? Anche queste parole sono state recuperate, oppure si tratta ancora di scatole vuote, in attesa che forze adeguate ne prendano possesso?

Finora nessuno le ha rivendicate. Ma ciò non significa che esse non abbiano riscontro nella realtà. Un buon numero dei nostri liberali rappresenta una destra cinese contemporanea. Ciò vale in particolare per quegli economisti che invocano la privatizzazione e il libero mercato senza alcun dubbio o limite, privi della minima distanza critica. Essi hanno mutuato da Hayek l'idea che il mercato sia un ordine economico spontaneo. In Cina - sostengono - la liberalizzazione economica è l'unica strada per la prosperità e la democrazia; non che ad essi stia molto a cuore che la democrazia esista o meno, ma essa viene invocata in un impeto retorico. Solitamente queste persone lavorano con le grandi società e il governo. Uno come Fan Gang, che appartiene alla mia generazione, potrebbe essere un esempio rappresentativo. Altri liberali occupano una posizione di Centro. Questi hanno scoperto che l'introduzione del libero mercato non genera un ordine economico spontaneo, giacché il mercato non è libero, ma determinato completamente dai monopoli politici e dalla corruzione pubblica. Sono quindi fortemente critici della realtà attuale, e chiedono sia giustizia sociale che crescita economica. Ma, almeno finora, essi hanno teso ad idealizzare la liberalizzazione economica all'estero - non solo in Europa o in America, ma anche nell'Est europeo e in Russia - come la strada 'giusta', che la Cina ha smarrito. He Qinglian e Qin Hui rappresentano questa posizione. Qin Hui ha scritto numerosi articoli esaltando i piani di privatizzazione cechi e russi come strumenti per garantire una base economica di partenza uguale per tutti i cittadini.

Come potrebbe essere definita la posizione della Sinistra su questi problemi economici e sociali?

Esistono una serie di punti di vista diversi. Cui Zhiyuan, per esempio, pone l'accento sul bisogno di inventiva istituzionale e teorica, e invoca una combinazione 'repubblicana', basata su principi chiari per quanto riguarda l'ordinamento politico e differenti sistemi di proprietà economica. Ha scritto vari articoli sulla rivista «Strategia e Management» e su altri periodici specializzati. La sua preoccupazione principale è che sia mantenuto un equilibrio tra amministrazione centrale e locale, libero mercato e pianificazione. Ma per i liberali è fonte di molta apprensione qualsiasi critica al governo centrale per aver ceduto alle province tanti poteri, sia in campo fiscale, che in altri ambiti.

Ma in quale misura questo argomento differenzia nei fatti una 'Nuova Sinistra' da un Centro liberale? Molti liberali critici sottolineano - non con minor forza - il ruolo che hanno la politica e il potere nella determinazione dei mercati, e la necessità di correggere le ingiustizie sociali derivanti da questa situazione.

La differenza è molto profonda. Per questo genere di liberali, l'introduzione dell'economia di mercato rappresenta l'unica strada da seguire in Cina. Ai loro occhi, le distorsioni nel funzionamento del mercato sono dovute solo all'assenza di una riforma del sistema politico, ma se la Costituzione fosse rivista per tutelare i diritti dei cittadini, allora si avrebbe una società ragionevolmente giusta e un grado soddisfacente di equità sociale. A mio parere, questa è un'illusione. La democrazia politica non verrà da un mercato legalmente imparziale, garantito dagli emendamenti costituzionali, ma dalla forza dei movimenti sociali contro l'ordine esistente, e dall'interazione fra questi movimenti, le discussioni pubbliche e l'innovazione istituzionale. Questo punto è fondamentale. Noi certamente abbiamo imparato molto dalle esperienze e dalle teorie occidentali, ma rifiutiamo l'implicita conclusione che tutte le questioni sollevate in questo momento dagli intellettuali critici cinesi provengano dall'America o dall'Europa. Al contrario, esse sono in continuità con le mobilitazioni sociali della fine degli anni ottanta in Cina. Come mai, nel 1989, la risposta dei cittadini di Pechino alle manifestazioni studentesche fu così energica e attiva? In larga parte, a causa del cosiddetto doppio sistema di prezzi e del criterio ineguale adottato nell'introduzione dei contratti salariali. In quella fase il governo impose per due volte una riforma avventurista del sistema dei prezzi, generando inflazione senza alcun vantaggio per la gente comune. I lavoratori subirono quindi le conseguenze negative degli accordi che erano stati costretti a firmare dagli industriali, e i loro posti di lavoro divennero a rischio. La gente avvertiva le diseguaglianze create dalle riforme, e i fenomeni crescenti di corruzione: c'era una vera rabbia popolare nell'aria. Ecco perché la cittadinanza si riversò nelle strade, solidarizzando con gli studenti. Il movimento sociale non è mai stato una pura e semplice richiesta di riforme politiche, ma è scaturito dall'esigenza di giustizia economica e uguaglianza sociale. La democrazia che la gente desiderava non era soltanto una struttura giuridica, bensì un valore sociale globale. Questa grande esplosione di sentimento popolare, alla fine degli anni ottanta, ha costituito il retroterra storico del lavoro degli intellettuali critici degli anni novanta.
È evidente l'abisso esistente fra questo modo di considerare il mercato, e il punto di vista neoliberale. Per i neoliberali, in un libero mercato il sistema dei prezzi è il meccanismo di segnalazione di un sistema spontaneo di scambio, di contro alle distorsioni della pianificazione centrale. Ma i fallimenti di Zhao Ziyang dimostrano che il sistema dei prezzi non è mai un ordine spontaneo. È sempre istituito e diretto a qualcuno. La gente avverte questa verità, e si ribella. Ma, dopo l'intervento armato dell'esercito contro il movimento del 'Quattro Giugno', i cittadini hanno perso la possibilità di protestare, e la riforma dei prezzi, avviata sotto il tiro delle armi, ha avuto successo. La liberalizzazione economica in Cina non ha avuto origine dal sistema di scambi spontaneo, ma da atti di violenza, dalla repressione del movimento sociale da parte dello Stato. Possiamo riconoscere la stessa logica se esaminiamo il lato straniero della medaglia, poiché il mercato - in quanto sistema - non è mai stato in Cina soltanto una questione nazionale. La Rpc ha sempre intrattenuto rapporti commerciali con l'estero: con l'Urss e l'Europa dell'Est negli anni cinquanta e all'inizio dei sessanta, e persino durante la Rivoluzione culturale con il mondo esterno, attraverso Hong Kong. Ma la politica della 'Porta aperta' di Deng Xiaoping ha richiesto un inserimento molto maggiore della Cina nel mercato mondiale. Come avvenne questo processo? Un passo decisivo fu l'invasione del Vietnam da parte della Cina nel 1978. Una delle motivazioni di quell'attacco - altrimenti privo di senso - a un piccolo paese vicino, fu il desiderio di stabilire nuovi rapporti con gli Stati Uniti. L'invasione fu offerta come regalo politico a Washington, e divenne il biglietto d'ingresso per la Cina nel sistema mondiale. Qui la violenza fu la precondizione di un nuovo ordine economico.
I neoautoritari dei tardi anni ottanta e i neoliberali della fine degli anni novanta non nominano mai la guerra contro il Vietnam; e alla metà del decennio scorso hanno spesso accusato il movimento del 'Quattro Giugno' di essere troppo radicale. Essi concentrano l'attenzione sulla necessità di libertà politiche fondamentali, e su questo noi siamo d'accordo. Ma appena ci si sposta dai principi generali alle questioni particolari, le differenze diventano evidenti. Essi vogliono separare la sfera politica da quella economica, mentre noi siamo convinti che i problemi di entrambe siano strettamente collegati; non sempre è possibile distinguere tra i due ambiti, o stabilire quale sia più decisivo. Per esempio, quando noi sostenemmo che era molto importante che i contadini venissero coinvolti nelle elezioni di villaggio, laddove i candidati ufficiali rischiavano la sconfitta, Liu Junning - un politologo cinese emergente - rispose: «Non ne abbiamo bisogno; queste elezioni sono totalmente corrotte; ciò che conta sono le riforme del parlamento e del sistema giudiziario». Ma il punto è se ancora crediamo nella partecipazione delle masse alla politica di riforma.

Queste differenze si sono già concretizzate in programmi articolati?

La gente spesso ci domanda: «Ma qual è la vostra alternativa in positivo?». La risposta sincera è che non abbiamo pronto un progetto complessivo di riforma, perché non crediamo nel tentativo di inventare un ordinamento ideale che prescinda dalle domande sociali concrete. Quando emergono i movimenti sociali, dobbiamo indagare molto attentamente sulle ragioni che hanno indotto la gente comune a prendervi parte. Nel 1989, ad esempio, i valori socialisti erano chiaramente ancora vivi per molti cittadini, ed informavano le idee di democrazia e libertà molto più delle dottrine liberali. Per cui in questo caso dobbiamo riandare alla storia della società cinese a partire dal 1949, che non si è esaurita nella dittatura del Pcc e nei fallimenti della pianificazione centrale, ma conteneva anche altri elementi, cui la popolazione era legata. Negli anni cinquanta e sessanta, ad esempio, nelle zone rurali c'era un sistema di assicurazione sanitaria cooperativa, basato sul fatto che le persone si organizzavano in proprio per aiutarsi reciprocamente, predisponendo finanziamenti e garantendo servizi. Dal momento che il sistema sanitario gestito dallo Stato sta andando a rotoli, perché non trarre qualche lezione positiva da quel metodo? Oggi in Cina vi sono ancora alcuni frammenti di socialismo, sui quali pochi di noi hanno riflettuto seriamente. Cui Zhiyuan una volta ha tentato di dire qualcosa a proposito dell'esperienza di Anshan, ma ha confuso le idee alla maggior parte dei suoi lettori e ha avuto la peggio nel dibattito che è seguito. Ma sono convinto che l'intento di fondo fosse giusto. Dobbiamo guardare con mentalità aperta alle esperienze pratiche del passato, senza cercare di copiarle. Una curiosità intellettuale scevra di pregiudizi è qualcosa di cui oggi hanno bisogno tutti gli intellettuali cinesi.

Qual è la sua opinione sulle imprese delle municipalità e dei villaggi? Diversi osservatori - Lei ha accennato a Cui Zhiyuan, ma si tratta di un punto di vista ampiamente condiviso in Occidente - le hanno identificate come istituzioni originali del periodo delle riforme: forme di proprietà collettiva ma non statale, che si sono dimostrate economicamente molto dinamiche. Altri studiosi, in Cina e all'estero, ritengono che si tratti già di aziende criptocapitalistiche, generalmente controllate dai boss locali corrotti, spesso in collusione con gli investitori stranieri per ricercare facili profitti, in spregio dei problemi dell'ambiente. Cosa ne pensa?

Di fatto, per un certo periodo queste imprese sono state un vero successo, e la loro realizzazione è stato un grande risultato. Ma dobbiamo considerare con un certo scetticismo il tentativo di sopravvalutarle, presentandole come esempi di un modello di sviluppo cinese che offre un'alternativa al sistema di mercato mondiale. Gran parte del loro successo è dovuto al sistema del duplice prezzo di vendita, entrato in vigore con le prime riforme. Le grandi aziende statali erano state costrette a vendere materie prime, come il ferro e l'acciaio, a prezzi bassi. Le Imv [Imprese delle municipalità e dei villaggi - NdT] hanno potuto utilizzare queste forniture e vendere poi i beni a prezzi superiori, incontrollati. Naturalmente, se avevano qualche capacità potevano prosperare. Molte hanno anche beneficiato di una consistente esenzione fiscale. Mentre le imprese pubbliche sopportavano un doppio carico fiscale, fino al 1998 soltanto un terzo circa delle Imv hanno pagato le tasse. In condizioni tanto vantaggiose, non sorprende che molte di esse abbiano conseguito ottimi risultati. Ma negli anni recenti sono entrate in una crisi profonda; molte sono diventate aziende private, altre si sono fuse con capitali stranieri. La capacità delle imprese dei villaggi di assorbire forza-lavoro nell'agricoltura è diminuita, determinando un aumento dell'affluenza di contadini verso le città.

Fino a che punto la crescente polarizzazione sociale tra ricchi e poveri, e l'aumento della disoccupazione, costituiscono una questione di primo piano nel dibattito pubblico attuale?

Da molti anni è in corso un grande dibattito fra gli intellettuali sulla polarizzazione sociale, con molti articoli su riviste e libri sull'argomento. Alcuni giovani pensatori hanno descritto le tendenze attuali come una forma di spietato darwinismo sociale. I liberali della vecchia generazione, studiosi quali Li Shenzhi e Zi Zhongyun, rispondono che la Cina purtroppo non ha conosciuto il darwinismo sociale, bensì il suo contrario, ovvero il socialismo come sopravvivenza del più inadatto. Questo tema quindi è oggetto di dibattiti roventi nei circoli intellettuali. In generale, però, i mezzi di comunicazione si rifiutano di affrontarlo. Sui quotidiani sono apparsi molti articoli sulle fabbriche in cassa integrazione, o sugli accordi da concludere per i lavoratori che perdono il posto; ma si discute molto poco delle sorti dei contadini che migrano verso le città in cerca di lavoro, e diventano poi una popolazione fluttuante, senza occupazione o diritti di soggiorno.

Vi sono stati cambiamenti di rilievo nella posizione delle donne nel mercato del lavoro?

La tendenza di fondo non è dissimile da quella che si affermò in Europa dell'Est e in Russia al tempo delle riforme: un ritorno alla vecchia divisione del lavoro, con una perdita di occupazione e di indipendenza da parte delle donne. Ma il processo non si è spinto così avanti. Alcune grandi società si rifiutano pubblicamente di assumere donne laureate, mentre altre sono interessate a mantenere un equilibrio fra i sessi. Senza dubbio nella Rpc la posizione sociale delle donne in generale è inferiore a quella degli uomini, anche se l'ampiezza del divario è molto diversa nelle città e in campagna. Un fenomeno significativo è di nuovo la diffusione della prostituzione, che è diventata una considerevole risorsa fiscale per le amministrazioni locali, le quali peraltro non assicurano alcuna protezione alle donne delle quali sfruttano i guadagni. In città come Guangzhou, è possibile trovare un gran numero di giovani operaie di fabbrica, pagate con salari da fame, senza alcuna forma di tutela pubblica.

Affrontando un argomento più propriamente politico, sarebbe corretto dire che uno dei motivi per cui - nella Cina di oggi - i confini tra i diversi campi intellettuali restano ancora indistinti è il fatto che le persone, nonostante dissentano profondamente su qualsiasi altra cosa, condividono comunque almeno un obiettivo: vogliono tutti una maggiore democrazia?

Beh, è vero che in potenza tutti gli intellettuali vorrebbero una maggiore libertà di espressione. È comprensibile che abbiano molto a cuore la possibilità di comunicare liberamente le loro opinioni. Ma dovrebbero preoccuparsi anche di quei compagni-cittadini - un numero cospicuo di persone - che hanno perso il lavoro, sono ammalati o versano in povertà, senza nessuno che si prenda cura di loro. La questione della democrazia è assai più ampia del semplice diritto degli intellettuali a non subire la censura. Dopo la repressione del movimento del 'Quattro Giugno', molti conclusero che il radicalismo aveva perso, e che dovevano esistere altre strade per la democrazia. La risposta era nell'emersione graduale della società civile con lo sviluppo dell'economia di mercato. Alla liberalizzazione economica si deve infatti la formazione di un nuovo ceto medio, in grado di fornire una solida base alle associazioni civili, senza contrapporsi direttamente allo stato. La società civile si trasformerebbe così in una democrazia. Queste idee furono elaborate per la prima volta dai liberali di Taiwan negli anni ottanta. La mia reazione fu: «Ma che genere di società civile volete? Quale struttura sociale avete in mente?».
In seguito a vari dibattiti, alcuni neoliberali sono giunti alla conclusione che in Cina manca la base sociale per una società civile, per cui la priorità è di lasciar libero il mercato, affinché possa crearla. Spostandosi su posizioni di destra, hanno spiegato che la loro preoccupazione non è la democrazia in quanto tale, ma il mercato a qualsiasi costo. Un noto economista una volta ha detto: «Gli attacchi alla corruzione sono attacchi al mercato; dobbiamo tollerare l'una per sviluppare l'altro». Alla metà degli anni novanta, il gruppo vicino a Liu Junning ha sostenuto pubblicamente che il vero liberalismo è una forma di conservatorismo, in quanto crede nell'ordine. Questo cambiamento nel significato delle parole è sintomatico/rivelatore, poiché negli anni ottanta e all'inizio dei novanta il termine 'conservatore' è sempre stato usato in senso spregiativo per descrivere chiunque fosse considerato non abbastanza entusiasta del mercato, o troppo incline a riconoscere un ruolo positivo per lo Stato. La definizione è stata attribuita a persone come Hu Angang o Cui Zhiyuan. Non tutti i liberali, ovviamente, hanno compiuto una simile sterzata a destra. Vi sono figure assai più radicali, come Qin Hui, che continuano ad insistere sull'importanza della giustizia sociale e - ancora di più - della democrazia politica. Egli sostiene che il regime cinese rimane fondamentalmente il vecchio Stato socialista di Mao, che abbiamo bisogno di sostituire con una democrazia liberale. In qualche misura sono d'accordo con questo, perché è vero che abbiamo bisogno della democrazia politica per poter risolvere quasi tutti gli altri problemi. Ma io non credo che lo Stato attuale sia soltanto una continuazione di quello precedente. Il paese non può essere descritto come socialista, e anche lo Stato è molto cambiato. Oggi è esso stesso parte del sistema di mercato. In qualche maniera svolge assai bene questa funzione; commette degli errori, naturalmente, ma rappresenta un fattore chiave nella dinamica della liberalizzazione economica. Qui Qin Hui sottovaluta questo aspetto.

Spostando il discorso sul piano culturale, le questioni del modernismo e del postmodernismo hanno destato interesse fra gli intellettuali cinesi? E le opinioni espresse a riguardo trovano corrispondenza nelle posizioni dell'arco politico?

Il postmodernismo arrivò in Cina quando Fredric Jameson tenne una serie di conferenze a Beida (l'Università di Pechino) nel 1985, pubblicate l'anno successivo in un volume intitolato Teoria culturale e postmodernismo. Fu l'inizio. Le conferenze ebbero un grande impatto sugli studenti, fra i quali vi erano Zhang Yiwu e Zhang Xudong. Nello stesso periodo un altro giovane studioso, Chen Xiaoming, decise di scrivere un libro applicando le categorie postmoderne e le tecniche decostruttive all'ultima generazione di scrittori semi-avant-garde come Yu Hua e Ge Fei. Ma si trattava soltanto di deboli fermenti. Poi è arrivato il 'Quattro Giugno'. In seguito, la maggior parte degli intellettuali è stata in silenzio per ragioni politiche. Ma intorno al 1992-94 Zhang Yiwu e Chen Xiaoming sono diventati molto attivi, scrivendo articoli sul postmodernismo per periodici come «La rivista letteraria». Erano colpiti dalla velocità con cui si andava affermando il libero mercato, e ne hanno tratto una conclusione abbastanza coerente con quanto sostenevano i teorici della società civile. Il consumismo poteva essere una forma di libertà, in grado di minare la dittatura; il che naturalmente in parte era vero. Dopo tre anni di silenzio, queste idee hanno suscitato un certo scalpore.
Per la mia generazione è stato molto più difficile analizzare il nuovo consumismo. Avevamo verificato che era qualcosa di diverso dal socialismo di Stato, ed intuimmo che differiva anche dal liberalismo, nel quale la maggior parte di noi si identificava. Fummo posti di fronte a un dilemma: se sosteniamo la riforma del mercato, come possiamo opporci al consumismo, nonostante presenti aspetti inaccettabili? Il risultato è stato il dibattito sullo 'spirito umanistico', subito dopo il quale si è sviluppata una terza discussione.
Nel 1995 «Dushu» ha iniziato a pubblicare degli articoli di Zhang Kuan, uno studente d'oltremare, sull'orientalismo. Era un tema che apriva un'altra porta all'Occidente - dove Edward Said aveva appunto sviluppato la sua teoria sull'orientalismo - ma ne proponeva anche una visione critica, riuscendo così a non offendere l'ideologia ufficiale. I liberali erano vulnerabili su questo argomento, poiché l'accettazione dei presupposti semi-orientalisti - implicita nella loro scelta del modello di democrazia occidentale - li esponeva a giudizi critici. La mia posizione differiva da quella di entrambi i campi, i liberali e i loro critici post-coloniali. Questi ultimi avevano ragione nel sostenere che dovevamo acquisire una maggiore comprensione critica dell'Occidente, del quale tuttora non sono scomparsi i retaggi coloniali e che non potrebbe mai essere per noi semplicemente un modello.
All'incirca nello stesso periodo, un articolo di Huntington, Lo scontro di civiltà, ha suscitato un ampio dibattito, al quale sia «Ventunesimo secolo» che «Strategia e management» hanno dedicato un numero speciale. Gli intellettuali liberali hanno criticato Huntington molto severamente, per aver affermato in modo implicito che il conflitto fra l'Occidente e la Cina fosse inevitabile. I sostenitori di Said hanno sottolineato come l'estrema destra in Occidente confermasse l'ossessione orientalista di una Cina come terra aliena, ostile. I primi hanno respinto la tesi di Huntington in quanto distorsione della autentica - e migliore - natura dell'Occidente, mentre i secondi l'hanno denunciata come espressione fin troppo convincente di colonialismo occidentale.
Sullo sfondo di questi discorsi su Said e Huntington c'era il contesto politico di quegli anni. A Mosca, Eltsin aveva martellato il parlamento russo con il fuoco dei carri armati, con l'approvazione degli Stati Uniti; la gente comune si è posta un'ovvia domanda: come mai la reazione americana era così diversa dall'atteggiamento tenuto nei confronti del movimento del 'Quattro Giugno'? L'ipocrisia della politica estera statunitense è stata smascherata in pieno.
Personalmente ritenevo che l'orientalismo, fino a quando fosse rimasto una teoria prevalentemente culturale, non avrebbe potuto gestire l'insieme dei problemi economici e politici che opprimevano la Cina. Era troppo inconsistente! Nel 1995 Li Shenzhi - descritto dal «New York Times» come il 'padre del liberalismo cinese' - pubblicò forse il primo articolo in Cina sulla globalizzazione, mostrando in sostanza di accettarla. Rispondendo indirettamente, scrissi su «Dushu» un breve pezzo, in cui consideravo l'opera di Samin Amir (lo avevo sentito parlare in Danimarca l'anno precedente) come una variante della teoria della dipendenza, dalla quale possiamo imparare qualcosa in Cina, senza peraltro accettare la sua idea di 'sganciare' il paese dall'economia mondiale, operazione che in qualche modo era stata tentata anche da Mao. Il mio scritto fu criticato molto aspramente da Li Shenzhi, che disse: «Quell'articolo è così di sinistra! Come hai potuto esprimerti in quel modo?». Ciò di cui parlavo era il potere del sistema mondiale - come formulazione/definizione alternativa di 'globalizzazione' - e del bisogno di una democrazia su larga scala per contrastarlo.

Sarebbe corretto pensare che vi è un problema particolare nell'appropriazione della tradizione culturale in Cina, che ha origine nel modo in cui il cinese classico è diventata una lingua quasi morta, creando una barriera in qualche modo simile - anche se meno radicale - a quella determinata dal passaggio dalla scrittura ottomana al turco moderno?

È vero. Per le nuove generazioni, si tratta di un ostacolo enorme. La leva dei giovani cinesi di talento che oggi lavorano negli Usa, per esempio, è in larga parte tagliata fuori dalle risorse della tradizione classica. La maggior parte di loro si è formata nei dipartimenti di inglese della Rpc ed ha una scarsa padronanza del cinese classico. Ma c'è un altro problema, relativo alla cultura della Rpc in sé. Spesso mi chiedo come mai in Cina non abbiamo una storiografia radicale, alla stregua di quella britannica. Le ricerche sulla storia della classe operaia, o anche dei contadini, sono ancora molto limitate. Il marxismo ufficiale della Rpc ha parlato di modi di produzione, classi, capitalismo ecc., e ha ottenuto dei risultati a suo merito. Ma si trattava di una impostazione così meccanica che ben pochi studiosi oggi la prendono in considerazione. La giovane generazione si è separata quindi anche da una tradizione storiografica piuttosto recente; il risultato è stato uno spostamento di interesse dalla storia sociale a quella culturale, che è l'ambito in cui sono stati realizzati i lavori migliori da un po' di tempo a questa parte.

Uno dei temi del pensiero cinese moderno riguarda i cambiamenti nell'organizzazione della conoscenza, l'egemonia culturale. Quali sono state le discipline predominanti in campo intellettuale?

Oggi, naturalmente, la disciplina dominante in Cina è l'economia neoclassica. Questo è un portato del decennio scorso. Negli anni ottanta, la maggior parte degli economisti di primo piano, come Wu Jinlian, erano ancora persone formatesi nell'economia pianificata. Essi avevano appreso qualcosa dall'Occidente, ma si sentivano completamente a proprio agio nella struttura del comunismo di Stato, e furono abbastanza capaci di adattarlo e riformarlo, in seguito all'avvio della politica della 'Porta aperta'. Ma dopo il 1990, le idee di Hayek diventarono molto influenti. L'economia attuale - intesa nella sua accezione più rigidamente liberale - ha acquisito tra gli intellettuali, e non solo, la forza di un'etica. Gli assiomi del liberismo costituiscono quasi un codice di condotta. Quindi attualmente l'economia non è soltanto una disciplina tecnica: è diventata anch'essa una visione del mondo imperativa. Ovviamente, nessuna egemonia può mai assorbire l'intero campo culturale. Le scienze politiche o il diritto sono fondamentalmente assoggettate all'economia, in quanto roccaforti della Destra. Per contrasto, gli intellettuali critici oggi lavorano soprattutto nelle discipline umanistiche, sebbene vi sia un certo di numero radicali anche nelle scienze naturali.

I termini del dibattito sono recentemente cambiati, poiché la 'globalizzazione' è diventata la nuova parola d'ordine; in teoria, una categoria più inclusiva del solo Occidente. L'ingresso nella Organizzazione mondiale del commercio - una priorità concreta per il Pcc - ha introdotto direttamente nell'agenda politica la questione delle relazioni tra la Cina come Stato-nazione e le istituzioni del mercato mondiale. Le spinte verso la globalizzazione, con tutte le probabili implicazioni, sono state sufficientemente dibattute nel paese? E quali divisioni potrebbero derivare da questa prospettiva?

I problemi della globalizzazione furono sollevati per la prima volta intorno al 1994 - nel corso di una conferenza - da un certo numero di intellettuali, che in seguito si sono autodefiniti liberali. Uno di essi sostenne che se la Cina non avesse compiuto in fretta le riforme, non sarebbe riuscita ad inserirsi nel trend principale della globalizzazione. Un altro illustrò la prospettiva illuministica dell'approssimarsi di una pace perpetua. All'incirca nello stesso periodo, «Strategia e management» pubblicò un articolo critico nei confronti della globalizzazione, di Samir Amin, quindi il dibattito sul tema ebbe inizio effettivamente in quell'anno. Allora ero convinto che la globalizzazione, in quanto tale, fosse una astrazione fuorviante: l'avvento dei sistemi di informazione ad alta tecnologia e di altre innovazioni, infatti, non può oscurare il fatto che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, ma semplicemente all'ultima fase di una lunga storia, che potrebbe essere definita come l'intero processo di sviluppo del capitalismo, dall'epoca coloniale e imperialista in avanti. In altre parole, la globalizzazione non è un concetto neutrale, associato ad un processo naturale. È necessario comprendere come la forza dominante si sia diffusa in tutto il mondo.
In queste prime discussioni le idee non erano formulate molto nettamente, e fu chiaro che, nonostante le differenze di posizioni tra la destra e la sinistra, i sentimenti in proposito erano abbastanza ambivalenti, su entrambi i fronti. Vi era la sensazione diffusa che accettando la globalizzazione, la Cina sarebbe andata incontro a molti rischi e pericoli, ma come potevamo evitarla? Anche chi oggi si oppone all'ingresso nella Omc - come Cui Zhiyuan - non sostiene che «la Cina non dovrà mai entrare nella Omc». La posizione è piuttosto la seguente: «Per il momento la Cina dovrebbe attendere. Prima di questo passo, occorre realizzare ancora molti cambiamenti». La maggior parte della sinistra ritiene che il governo abbia manifestato troppa fretta di entrare nella Omc, e che sarebbe stato opportuno un approccio più cauto. Naturalmente, i liberali di destra - economisti come Zhou Qiren e Fan Gang, dell'entourage di Zhu Rongji - sono ansiosi di far entrare la Rpc nella Omc prima possibile. Rongji è un primo ministro che ha perso fiducia nella capacità del governo di risolvere i problemi delle imprese pubbliche, e spera che il capitale straniero si affermi come forza trainante della riforma economica. Ma nel frattempo è chiaro a tutti che se la Cina ha potuto evitare la crisi dell'Est asiatico nel 1998, ciò è avvenuto solo grazie alla forza dello Stato nazionale, che l'ha protetta dal contagio dei mercati finanziari. Si tratta di un elemento che anche i fautori più entusiastici della globalizzazione non possono non ricordare.
Il bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado da parte della Nato ha dimostrato con forza un'altra realtà. Il mercato mondiale, come è ormai evidente, non costituisce soltanto uno spazio per la competizione: occorre puntellarlo con una quantità imponente di strutture politiche e militari. Ciò rende molto difficile sostenere che lo Stato-nazione, a prescindere dai cambiamenti che possono essere intervenuti, sia andato sparendo. Al di là degli schermi della Nato, del Fmi o della Omc, il globalismo americano opera come un'altra versione del nazionalismo. Dopo la distruzione dell'ambasciata, si è sviluppato un dibattito indiretto fra Zhu Xueqin, lo studioso di Shanghai che è forse l'esponente liberale di maggior rilievo oggi in Cina, e il sottoscritto sulla guerra dei Balcani e sulla reazione popolare a quel conflitto. Zhu Xueqin ha sostenuto che il nazionalismo ha rappresentato la forza più pericolosa della storia della Cina moderna. Dobbiamo quindi entrare nel sistema mondiale alla massima velocità, in quanto il globalismo è decisamente migliore del nazionalismo. Ho risposto che era un'illusione pensare che questi elementi potessero essere contrapposti in modo così semplice. Il nazionalismo, in quanto forza storica, non è solo un sentimento soggettivo, che ha trascinato la gente nelle strade, ma anche un insieme di relazioni sociali, su cui poggiano gli Stati che garantiscono il funzionamento del mercato mondiale. Questo tipo di nazionalismo è una struttura parallela di capitalismo globale, non il suo contrario, e deve essere senz'altro oggetto di una riflessione critica.
È necessario distinguere tra differenti tipi di nazionalismo. Mentre gli Stati nazionali sono rimasti passivi o in silenzio di fronte all'azione della Nato in Jugoslavia, la popolazione cinese si è riversata nelle strade, talora persino lanciando mattoni. È stato un fatto positivo. Una protesta spontanea di questo genere è un movimento sociale con un potenziale di democrazia. Può anche essere utilizzato dal governo strumentalmente come nel caso dei Boxer: Zhu Xueqin non aveva torto, quando segnalava questo pericolo. Ogni movimento sociale contiene diverse possibilità di sviluppo, che è nostro compito esplorare e analizzare, appoggiando quelle che si muovono in una direzione democratica; vi è una logica, in questo ragionamento. Il genere di nazionalismo che stiamo esaminando è un movimento di resistenza contro l'imperialismo. Ma se consideriamo gli intellettuali della prima parte del secolo, vediamo che quando personalità come Zhang Taiyan o Lu Xun parlavano di nazionalismo, concentravano la loro attenzione su altre nazioni oppresse dall'imperialismo: Grecia, India, Polonia, paesi africani. Essi tentarono di coniugare il nazionalismo con il cosmpolitismo. Tale atteggiamento sottendeva quella che ho definito una logica che contraddice o trascende se stessa: l'adesione alla modernità in quanto progetto generò una contro-logica che rese quegli intellettuali critici anche verso il nazionalismo. Essi sapevano che anche se avessero trasformato la Cina da impero in Stato-nazione, gli obiettivi nazionalisti non sarebbero stati facilmente raggiungibili in una cornice nazionale.
Lo stesso tipo di dialettica è evidente nella tradizione rivoluzionaria cinese. Dopo gli anni venti, il movimento comunista cambiò direzione, prefiggendosi con sempre maggiore convinzione il traguardo della liberazione nazionale. Mao disse che il conflitto nazionale con il Giappone era diventato la principale contraddizione sociale all'interno della stessa Cina. Ma la rivoluzione non poteva essere compressa in un progetto puramente nazionalista. La sua logica contraddittoria la spingeva oltre questo limite, alle prime forme di internazionalismo riscontrabili nella Conferenza di Bandung o nella visita di Zhou En-Lai in Jugoslavia. In quella fase, il Pcc tentava di aiutare i paesi del Terzo mondo ad allearsi e condurre una lotta comune per l'indipendenza nazionale e l'uguaglianza internazionale. Quei giorni sono finiti da tempo. Ma dovremmo considerare queste eredità oggi, quando riflettiamo sulle manifestazioni contro la globalizzazione, in Cina o altrove. Esse rappresentano espressioni di protesta locale contro forze esterne, ma il loro potenziale democratico potrà svilupparsi realmente solo se saranno in grado di collegarsi a realtà omologhe di altri paesi, per diventare un fattore di democrazia a livello mondiale. In un sistema mondiale in cui il capitale attraversa ogni confine, i conflitti sociali - in linea di principio - non dovrebbero più essere confinati così facilmente entro strutture nazionali. Ma non riusciamo ad avere un'idea precisa di queste lotte, potenziali o effettive. L'internazionalismo è un termine fuori moda, gravato da troppe connotazioni che risalgono al diciannovesimo secolo, o all'inizio del ventesimo. Dobbiamo rivedere il suo significato, o inventarne di nuovi, per il nostro attuale contesto storico.
Come reagirono i liberali - tuttora la maggioranza degli intellettuali cinesi - alla guerra nei Balcani? Probabilmente lo scoppio del sentimento popolare generò in loro un certo smarrimento, visto che si rivolgeva contro quelle stesse potenze occidentali, cui molti guardavano con sconfinata ammirazione; deve essere sembrato un attacco a quello che in qualche modo era il loro ideale. Ma allo stesso modo deve essere stato difficile per loro difendere i bombardamenti della Nato...
La guerra per loro ha rappresentato un momento di profonda crisi. Mentre noi appoggiavamo il movimento popolare contro i bombardamenti, essi lo avversavano. Il loro dissenso dalle manifestazioni di protesta non si fondava solo sulla simpatia per l'Occidente, o sulla preoccupazione per l'uso che ne faceva il governo, ma anche sulla loro visione delle masse popolari nel lungo periodo. La maggior parte dei liberali considera favorevolmente le persone comuni, finché contribuiscono allo sviluppo del mercato in qualità di consumatori. Per loro il pericolo di un nazionalismo popolare è nel fatto che le masse possano diventare non solo troppo critiche nei confronti dell'Occidente, ma anche troppo attive, e abbandonino il ruolo passivo di consumatori per quello più attivo di cittadini e militanti. Hanno paura della partecipazione popolare, ricordandone sempre gli esempi negativi e considerando raramente il potenziale positivo dei movimenti sociali quale condizione della democrazia. Poiché gli stessi diritti civili sono storicamente ancorati alla struttura dello Stato-nazione, la tradizione del liberalismo occidentale collega direttamente il nazionalismo alla democrazia. Ma i liberali cinesi non hanno mai riflettuto su queste relazioni, continuando a credere soltanto nella politica della 'Porta aperta' e nel sistema globale. Ciò di cui la Cina ha bisogno è entrare nella 'corrente principale' - questo è il termine che usano - e poi tutto andrà a posto. Per i liberali, l'integrazione nel sistema globale è l'unico lasciapassare per la democrazia. A causa di questa mancanza di fiducia nel potenziale democratico dei movimenti sociali, i liberali stanno progressivamente perdendo seguito fra i giovani. Se si naviga in Internet, si trovano molte opinioni critiche su di loro. In questo senso sono piuttosto isolati, nonostante continuino a rappresentare la corrente principale negli ambienti intellettuali. Anche qui, tuttavia, molti si sono spostati su posizioni meno neutrali, rispetto alla destra e alla sinistra. E diminuiscono progressivamente coloro che si definiscono semplicemente liberali.

(Traduzione di Tiziana Antonelli)

note:
1  Movimento di riscossa nazionalistica, composto da studenti, borghesia mercantile e primi nuclei operai contro le decisioni filogiapponesi della Conferenza di Versailles alla fine della prima guerra mondiale.
2  Il quattro giugno 1989 è il giorno della repressione del movimento di Tien-An-Men.

 

source: La rivista del manifesto, marzo 2001