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Storia di uno schiavo
Nicola Quatrano

Bilal è nato schiavo, anzi lo era già prima di nascere, apparteneva al padrone quando era ancora nel ventre della madre. Come un capretto,come un vitello, come i frutti degli alberi e i suoi semi, così è anche il figlio della schiava. Di sua madre porta il nome, Bilal ould Rabah (Bilal figlio di Rabah) e dall’età di sei anni ha cominciato a lavorare: guardiano di capre. Lontano dalla madre, le sorelle schiave in un’altra famiglia, il dovere di far contento il suo padrone per guadagnarsi il paradiso.

Bilal è forte, muscoli possenti, il padrone debole, non ha mai lavorato, ma picchiava il suo schiavo col bastone e la cintura. Bilal avrebbe potuto abbatterlo con un solo colpo, ma non ha mai pensato di ribellarsi, schiavo della paura prima che del bastone: sua madre gli diceva che chi si ribella va all’inferno. E l’inferno é terribile, peggio di qualsiasi altra cosa.

Bilal non sapeva leggere né scrivere e non conosceva la vita. Un giorno un uomo a cui il padrone l’aveva prestato per un lavoro, lo ha pagato. Solo in quel momento ha capito che il lavoro ha un prezzo. Poi il padrone si è fatto consegnare i soldi che aveva guadagnato ed ha rimproverato l’uomo che glieli aveva dati.

Bilal aveva diciassette anni e ha deciso di fuggire.

Poi la padrona pretendeva che la sorella tirasse dal pozzo l’acqua per le capre, ma la sorella non poteva: era incinta e lo sforzo era troppo. Bilal ha detto alla padrona: “Mia sorella non può”. La padrona ha detto: “Deve”.  Bilal è stato irremovibile e ha detto no. La ribellione ha fatto infuriare la padrona, che è andata a chiamare sua madre. Le due donne sono tornate hanno picchiato la sorella. Bilal è intervenuto ed ha picchiato loro.
Sono arrivati tutti i padroni, volevano bastonare Bilal, appenderlo a un albero per i polsi e accendere un fuoco sotto i suoi piedi, la punizione per lo schiavo ribelle. Ma questa volta lui non si è sottomesso, ha opposto resistenza. Ne è nata una gran rissa. Alla fine è intervenuto il padrone più vecchio, che ha detto agli altri: “Lasciatelo stare questo schiavo, oramai è fuori dall’Islam perché si è ribellato. Il suo destino è l’inferno, lasciatelo andare via”.

Così Bilal ha conquistato la sua libertà. Era il 1997 o il 1998. I padroni però lo hanno denunciato alla Gendarmeria per le percosse, ma Bilal si era fatto furbo e, prima che arrivassero i gendarmi, ha rotto una bottiglia e si è ferito al braccio. Poi ha detto alle guardie: “Ecco cosa mi hanno fatto”.

Da quel giorno Bilal ha ottenuto di essere pagato per il suo lavoro. Ma era sempre sottomesso al suo padrone.

Poi una volta, mentre stava riposando, é arrivato il padrone e lo ha picchiato con un bastone, perché diceva che nessuno si stava occupando dei cammelli. Bilal ha detto al padrone: “Io non ti picchio ma ti lascio”. Così se ne è andato. La madre piangeva, gli diceva che non doveva lasciare il padrone. Ma lui le ha detto che se non lo lasciava si sarebbe suicidato.


Se ne è andato, ed era ignorante come una capra. La prima cosa che si è fatto insegnare è stata la preghiera, neanche quella sapeva fare.

E ha lavorato libero e ha guadagnato, così, una volta, la madre è andato a trovarlo e lui le ha dato dei soldi. La madre li ha consegnati al suo padrone.


Poi Bilal ha saputo che la madre era malata. Stava nella brousse (savana) e nessuno si occupava di lei. Lui è andato a trovarla. Lungo la strada, mentre stava prendendo un frutto da un albero, ha visto di lontano una donna che si nascondeva tra le sterpaglie. C’era anche un’altra donna che l’ha vista e le si è avvicinata. “Chi siete?” Ha domandato. L’altra ha risposto: “Io sono malata e mio figlio che può occuparsi di me è lontano”. Bilal ha riconosciuto la madre.

Voleva portarla al villaggio per  farla curare, ma la madre non poteva allontanarsi perché doveva badare ai cammelli. Tutte le sere il padrone andava a prendere il latte e non lasciava niente a lei.

Allora Bilal ha condotto sia la madre che i cammelli fino al villaggio. Qui ha preparato da mangiare e, all’ora della preghiera, ha seguito la madre alla moschea. Davanti a tutti ha detto: “Chiedo al padrone di mia madre di curarla perché è malata”. Il padrone ha risposto: “Dammi i soldi per curarla”. E Bilal: “I soldi io ce li ho, ma non ti do niente. Sei tu che la fai lavorare e tu devi curarla”. Il giorno dopo il padrone ha portato la madre in ospedale. Le hanno prescritto delle pillole e il padrone si è preoccupato di somministrargliele.

Poi quando stava meglio, Bilal ha accompagnato un giorno sua madre dalla sorella, che lavorava in un’altra famiglia. Al ritorno, il padrone ha rinchiuso la madre perché si era allontanata senza autorizzazione. Bilal l’ha trovata in lacrime e allora l’ha portata via.  L’ha portata in ospedale.

Quando è stata dimessa, il padrone l’ha convinta a tornare da lui. “Io sono mussulmana – ha detto a Bilal – devo seguire il mio padrone”.

Allora Bilal ha denunciato il padrone per schiavitù. I gendarmi sono andati dalla madre e le hanno chiesto: “Tu sei schiava, sei maltrattata?” E lei: “Io sono molto ben trattata, non ricevo che del bene dal mio padrone”.

Poi Bilal e i gendarmi sono andati dal padrone. Questi ha accusato Bilal di essere un cattivo mussulmano, un rivoltoso, un cristiano… Stava per dargli uno schiaffo, ma… uno dei gendarmi lo ha bloccato.

Questo gendarme era un ex schiavo e stava dalla parte di Bilal. Quando ha condotto la madre alla Gendarmeria, ha parlato con lei e le ha detto che doveva sostenere Bilal.

Ma il padrone ha convinto la madre a chiedere a Bilal di ritirare la denuncia. Bilal si è dichiarato disponibile a condizione che la madre fosse seriamente curata.

Si è raggiunto un accordo che prevedeva che fossero i gendarmi a condurre la madre dal medico. Così finalmente è stata sottoposte a cure serie. E il medico ha scoperto che la malattia era causata dalla botte che il padrone le dava.

Poi la mamma è morta. E Bilal ha deciso di liberare anche le sorelle. E’ stato molto difficile, ma Bilal lo ha fatto, con l’aiuto di SOS Esclave.

Oggi Bilal vive con la moglie e le sorelle a Nouakchott. Lavora come facchino al porto. E’ forte ancora e, quando parla, ti guarda dritto negli occhi.