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Tel-Aviv, un amico ingombrante

 

di Marianne Meunier

 

L’attacco del 1 febbraio contro l’ambasciata israeliana rilancia la polemica intorno alla normalizzazione delle relazioni con lo Stato ebraico decisa dal regime precedente.

 

“Quando ho sentito le raffiche, mi sono detto che c’era un colpo di stato”, racconta Boubacar, un abitante di Nouakchott. Nella notte del 1 febbraio, intorno alle 2 del mattino, un gruppo di uomini – sei, secondo i testimoni – ha fatto fuoco con armi automatiche sull’ambasciata israeliana a Nouakchott, nel quartiere residenziale di Tevragh-Zeina. “Ho preso immediatamente la macchina per andare a vedere cosa succedeva – prosegue Boubacar – Ho visto degli uomini vestiti con dei boubous e col capo coperto da turbanti. All’inizio hanno sparato contro il giardino e i vip, il ristorante e il nigth club, poi contro la stessa ambasciata”. La guardia dell’ambasciata, composta da militari mauritani, ha risposto al fuoco. Dopo uno scambio di tiri durato una ventina di minuti, gli assalitori si sono dati alla fuga a bordo di uno dei loro due veicoli, lasciando sul posto una Mercedes. L’attacco ha provocato qualche ferito, ma nessun morto. Mentre accedeva tutto questo, gli abitanti del quartiere hanno acceso le radio e le televisioni, hanno telefonato a degli amici, inviato degli sms. Il ricordo del colpo di stato del 3 agosto 2005, quando il Consiglio militare per la giustizia e la democrazia (CMJD) ha rovesciato Maaouiya Ould Taya (senza spargimento di sangue alla fine) è ancora vivo.
Ma questa volta si tratta di una atto terroristico. E’ un fatto “evidente”, secondo Aryeh Mekel, portavoce del ministro israeliano degli affari esteri. Gli autori sono dei combattenti islamisti? In una Mauritania sconvolta dall’uccisione, il 24 dicembre scorso, di quattro turisti francesi da parte di tre presunti djihadisti, la questione si pone immediatamente. Il bersaglio, simbolo dello Stato ebraico, nemico numero uno degli estremisti islamici, dà da pensare. Come l’”Allah Akbar!” (Dio è grande) che avrebbero gridato gli assalitori secondo alcuni testimoni. Altro argomento a sostegno di questa tesi: il 3 febbraio l'emittente del Qatar Al-Jazira ha diffuso un comunicato di Al-Qaida che rivendicava l'attacco. Per alcuni osservatori, tuttavia, Israele non sarebbe stato l’unico obiettivo. “Gli assalitori hanno cominciato con lo sparare sul giardino  e i vip – ricorda Mohamed Fall Ould Oumère – direttore della redazione del settimanale La Tribune. Tutti e due sono frequentati dagli occidentali e sono considerati da qualcuno come luoghi di dissoluzione”. Più generalmente potrebbe essere stato preso di mira un certo modo di vivere occidentale, estraneo ai precetti dell’islam ortodosso. Resta che, così come già gli assassini di Aleg (la città mauritana dove sono stati uccisi i 4 turisti francesi, ndt), il modus operandi degli assalitori dell’ambasciata israeliana dimostra un certo dilettantismo inabituale tra i combattenti di Al-Qaida…
Una cosa è sicura: l’attacco del 1 febbraio riapre, con fracasso di raffiche, la questione della presenza di una cancelleria israeliana a Nouakchott, sola capitale di uno Stato membro della Lega araba, insieme a Il Cairo e Amman, ad ospitarne una. Dopo la firma, nell’ottobre 1999, dell’accordo che ha stabilito “relazioni piene e complete” tra Nouakchott e Tel Aviv, questo imponente fabbricato bianco, strettamente sorvegliato, non è mai stato veramente accettato dalla classe politica. All’epoca, il presidente Ould Taya era isolato sulla scena internazionale. Da qualche anno cercava di compensare in qualche modo il lento raffreddamento delle relazioni con l’ex alleato, Parigi, ingessate dal 1999 per l’arresto e l’incriminazione in Francia, per crimini di tortura, del capitano mauritano Ely Ould Dah. Avvicinandosi ad Israele, Nouakchott poteva ragionevolmente sperare di ottenere l’appoggio nordamericano. Nel 1995 viene creata all’interno dell’ambasciata di Spagna a Nouakchott, un “ufficio di interessi” israeliano. Ma, contrariamente agli altri paesi arabi che avevano riallacciato i rapporti con Israele – anche solo parzialmente, come la Tunisia e il Marocco -, la Mauritania non li ha congelati durante il governo Netanyahou, per protestare contro il blocco del processo di pace. Una indulgenza che condurrà, nel 1999, alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.

 

Un argomento molto sensibile

Già da subito, la creazione dell’asse Nouakchott-Tel Aviv è stata percepita dall’opposizione come un “tradimento” verso i “fratelli” palestinesi. In seguito, la questione è regolarmente tornata all’ordine del giorno. All’indomani del colpo di Stato del 3 agosto 2005, qualcuno si aspettava che i militari avrebbero rotto con lo Stato ebraico per rimarcare la loro differenza col regime precedente. La stessa richiesta è stata fatta durante la guerra del Libano, nel giugno e nell’agosto 2006. E durante la campagna presidenziale del marzo scorso. In una intervista a Jeune Afrique, il candidato Ahmed Ould Daddah, figura storica dell’opposizione, ha dichiarato di essere “sempre stato contro” le relazioni diplomatiche con Israele. Più di recente, il 27 gennaio, all’indomani del blocco della striscia di Gaza, il presidente dell’Assemblea nazionale, Messaoud Ould Boulkheir, ha invitato il governo a “riconsiderare” le sue relazioni con lo Stato ebraico, giudicandole “vergognose”. Una settimana prima un migliaio di studenti avevano manifestato a Nouakchott per testimoniare la loro solidarietà con gli abitanti di Gaza.
Il presidente Cheikh Abballai, da parte sua, mantiene la posizione espressa prima della sua elezione: la questione deve essere posta al popolo. Ma come conoscere il suo parere? “Questa questione passa sulla testa dei Mauritani – considera un osservatore – è lontana dall’essere per loro una priorità. Ma la classe politica la strumentalizza per indebolire il governo”.
Da un punto di vista economico, le relazioni con Israele si traducono soprattutto nel finanziamento degli apparecchi medici e degli stipendi ai medici dell’ospedale oncologico, la cui inaugurazione è prevista nel 2008, oltre che nell’offerta di stages a Tel Aviv. Una rottura con lo Stato ebraico rimetterebbe in discussione l’appoggio nordamericano e, conseguentemente, indebolirebbe il paese sulla scena internazionale.