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Incontro a Nouakchott con Biram Abeid
Nicola Quatrano


Nouakchott, lunedì 10 settembre 2012. E’ passata una settimana esatta dalla liberazione di Biram Abeid,  il più  famoso dei militanti antischiavisti della Mauritania, ma l’eco del suo successo non si è ancora spento nei tantissimi piccoli giornali che negli ultimi anni hanno riempito un vuoto editoriale fino a qualche tempo fa davvero desolante. Biram è un haratine, vale a dire discendente da schiavi, e ciò lo rende quasi naturalmente un difensore infaticabile del diritto di tutti gli uomini ad essere liberi e uguali, ed è anche un mago della comunicazione, capace di provocazioni in grado di scuotere ogni più radicata indifferenza. In pochi anni, da militante pressoché sconosciuto della storica organizzazione SOS ESCLAVE, è diventato fondatore e presidente della più numerosa e organizzata associazione di lotta alla schiavitù, l’IRA (Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste).

 

Avevo preparato il viaggio quando era ancora detenuto, intendevo visitarlo in carcere per verificare le sue condizioni di salute. Aveva fatto prendere un bello spavento a tutti i suoi amici: il delitto di cui era accusato, “violazione dei valori islamici del popolo mauritano” è punito con una pena che può giungere fino a quella capitale. Per fortuna sono stato anticipato dalla decisione della Procura di Nouakchott di concedere la libertà provvisoria a lui e agli altri detenuti dell’IRA: il giornalista Oubeid Ould Imigine, Ahmed Hamdy Ould Hamarvall, Elid Ould Lemlih, Boumediene Ould Bata, Yaghoub Diarra e Abidine Ould Maatala. Vado quindi a trovarlo nel suo quartiere di Riadh. Non è la sua abitazione perché, qualche giorno dopo il suo arresto, il padrone di casa ha pensato bene di sfrattare la sua famiglia senza tanti complimenti.


Il quartiere è povero: un gruppo di case (ma siamo lontanissimi dai nostri standard, da noi le chiameremmo più o meno baracche), sparse su una pista sabbiosa, sulla quale razzolano galline, capre, bambini e automobili. Il caldo mi scioglie (siamo nella stagione delle piogge, la più insopportabile) e le mosche non danno tregua, anche se solo io sembro accorgermene.


La sala dove Biram mi attende, accoccolato sul tappeto e circondato dagli uomini della sua guardia del corpo improvvisata (e disarmata), ha una intera parete occupata dalla gigantografia del suo volto con una scritta in basso: “Libertà per Biram”. Si alza per salutarmi, appare smagrito (sembra abbia perso in carcere 12 kg) ed è  certamente provato, ma in generale sembra in buona forma: accusa i suoi soliti problemi di stomaco e, in più, delle vertigini ricorrenti. A parte questo, si mostra vitale e ben determinato.


D'altronde è circondato dall'affetto dei suoi sostenitori, tra i quali intravvedo Said, uno dei due ragazzini (col fratello Yarg) che sono stati liberati dalla schiavitù per inizitiva dell'IRA e contro i cui padroni si è ottenuta la prima condanna pronunciata da un tribunale mauritano per il delitto di pratiche schiaviste.
 
Cominciamo a chiacchierare e racconto a Biram che un giovane mauritano bianco, quando ha saputo che andavo a trovarlo, mi ha pregato di portargli la sua solidarietà, non potendo farlo personalmente perché è bianco (sic!). Biram annuisce ma non sembra troppo rallegrarsene, la diffidenza verso gli arabi-berberi ha solide ragioni e sarà dura a morire.


Scherziamo un poco sugli articoli apologetici apparsi su alcuni quotidiani e sul mito che ormai ne circonda la figura, sembra sia vero che qualcuno nella folla che attendeva la sua scarcerazione davanti alla prigione di Dar Naim gli abbia gridato che era un Messia. Ma, a parte questo, Biram ci tiene a precisare che il gesto scioccante da lui compiuto, l’incendio dei libri di giureconsulti di rito malechita che ha dato il via a tutta la vicenda, non voleva essere contro l’islam, ma solo una denuncia di quelle false interpretazioni delle scritture che legittimano la schiavitù. “L’islam vero condanna le pratiche schiaviste – insiste – Noi siamo buoni mussulmani e antischiavisti”.


Questo bisogno di trovare una giustificazione religiosa alla (comunque) giusta lotta contro la schiavitù è ben comprensibile, anche se ad un sopravvissuto come me ritornano in mente con nostalgia i tempi in cui, negli anni ’70 e in tutt’altro contesto,  lo slogan giudiziosamente coniato dal sindacato: “Il diritto di sciopero non si tocca!”, si trasformava spontaneamente lungo il corteo in: “Diritto o non diritto, lo sciopero non si tocca!”


Vizi della procedura giudiziaria
La sua scarcerazione, sostiene Biram, non è stata un atto di generosità né di ravvedimento da parte del Potere. Come affermano anche i suoi avvocati, è stata solo la logica (e tardiva) conseguenza del verdetto pronunciato dalla Corte Criminale di Nouakchott il 27 giugno scorso (decisione oramai definitiva), che ha annullato tutti gli atti della procedura istruttoria a causa di numerosi vizi formali.  Prima di tutto il suo arresto non era giustificato, come sostenuto dalla Procura, dalla flagranza del delitto, essendo stato eseguito tre giorni dopo i fatti. Inoltre il codice di rito prevede che, quando si procede per delitti passibili di pena capitale, sia obbligatoria l’istruttoria formale davanti al Giudice Istruttore, mentre la Procura di Nouakchott aveva invece proceduto per direttissima. Infine egli è stato trattenuto in stato di fermo per un mese, in virtù della legislazione antiterrorista che allunga i termini fino a 45 giorni. Ma nel caso di specie – ha decretato la Corte Criminale – non si verteva in tema di terrorismo e, dunque, doveva essere applicata la norma ordinaria che limita il fermo di PG a sole 48 ore.


Altri vizi ancora sono stati ravvisati dal Giudice, tali e tanti da giustificare il durissimo giudizio di Biram: “Ci hanno arrestato per l’incendio dei libri e tutto l’interrogatorio è girato invece intorno ai presunti finanziamenti che, secondo loro, riceverei dagli ebrei e dagli evangelisti italiani. Nessuna domanda sul fatto per il quale eravamo stati arrestati”. E ancora: “Non hanno rispettato la decisione del Giudice. Dopo l’annullamento di tutti gli atti istruttori ci hanno tenuti in carcere per altri sessantasette giorni ancora, senza titolo. E questo solo per volontà del Procuratore della Repubblica, il signor Cheick Ahmed Ould Baba, che ha così disonorato la Giustizia mauritana al solo scopo di rendere un servizio al padrone di turno, il generale Mohamed Ould Abdel Aziz” (si riferisce al Presidente della Repubblica, ex generale golpista, poi eletto alle ultime legislative, che Biram continua però a considerare una specie di usurpatore e che quindi gratifica del titolo di generale e non di quello di presidente).
 
Chiedo a Biram se, a suo avviso, la decisione della Corte Criminale sia stato un atto di giustizia o un atto politico per chiudere un dossier che rischiava di diventare troppo scottante e lui risponde di non saperlo: “C’è qualcuno che sostiene si sia trattato di un gesto politico, altri giurano sull’onestà e sull’indipendenza dei giudici che ci hanno processato”. Quello che è sicuro è che il verdetto della Corte Criminale ha inferto un colpo durissimo all’istruttoria della Procura e che, solo quattro mesi fa, quando Biram e i suoi amici sono stati arrestati, nessuno lo avrebbe previsto.


I retroscena dell’indigeribile provocazione
Venerdì 27 aprile 2012, dopo una pubblica preghiera, Biram Ould Abeid ha dato alle fiamme alcuni libri di giureconsulti di rito sunnita malechita che hanno disciplinato le relazioni tra schiavo e padrone, con ciò legittimando la schiavitù. Si tratta delle opere di El Khalil, di Ebn Acher, di Risalla, di Alakhdary, la Mudawwana Al Kubra (enciclopedia) di Al Qassimi.

 

Brahim Abeid, nonostante il nome identico, non è parente di Biram, ma è comunque un dirigente dell’IRA. Mi racconta i retroscena del gesto che tanto scalpore ha suscitato in tutta la Mauritania: “Erano successe delle cose che ci avevano molto preoccupato, soprattutto l’invito dell’imam saudita ad acquistare schiavi in Mauritania”. Brahim fa qui riferimento alla trasmissione di una radio religiosa mauritana (Radio du Coran), nel corso della quale era stata diffusa la fatwa di un imam saudita della città di Medina, Saleh Ben Awad Ben Saleh Elmaghamsy, che invitava i mussulmani sauditi e degli altri paesi del Golfo ad acquistare schiavi in Mauritania (dove ve ne sono in abbondanza), per poi liberarli e così espiare i propri peccati. Il predicatore aveva anche fornito il listino dei  prezzi: la testa di uno schiavo vale 10.000 Riyals sauditi, vale a dire circa 800.000 ouguiya mauritane e poco più di 2000 euro.


“Ci era sembrato molto preoccupante – prosegue Brahim - che le Autorità non avessero adottato alcuna iniziativa, tanto più che, qualche giorno dopo, un giornalista di una emittente saudita aveva raccontato che al suo capo era stata data in dono una schiava mauritana”. In effetti l’IRA aveva ufficialmente chiesto che si aprisse un’inchiesta e che fossero adottate delle iniziative per individuare e liberare questa cittadina ridotta in schiavitù e data in regalo ad un boss saudita, senza ottenere alcun riscontro da parte delle Autorità.


Avevano anche proposto ad un imam haratine di pronunciare un discorso, durante la preghiera del venerdì, di condanna della schiavitù e delle pratiche schiaviste. L’imam ci aveva riflettuto, si era consultato con altri e, alla fine, aveva risposto che non poteva perché rischiava di passare guai seri. “La schiavitù – commenta Brahim – in Mauritania resta un insuperabile tabù”.


“Insomma – prosegue – intendevamo fare qualcosa per imporre il tema all’attenzione dell’opinione pubblica, ma nessuno aveva pensato al rogo dei libri, ci eravamo limitati ad organizzare una preghiera pubblica per venerdì 27 aprile, cui doveva seguire una conferenza stampa durante la quale avremmo denunciato l’inerzia delle Autorità di fronte ad acclarati episodi di schiavitù”.  Nessuno ci aveva pensato tranne Biram, che aveva dato disposizione, senza spiegarne la ragione, di acquistare i libri di alcuni giureconsulti che legittimavano la schiavitù. E non aveva reso noto la sua intenzione perché avrebbe incontrato, per prima, l’opposizione dei suoi compagni. Spiega sempre Brahim: “Io non sono d’accordo con il rogo dei libri, è una provocazione inutile in un paese dove il 90% delle persone non sa che cosa è scritto in quei libri”.


Il giorno fissato, la preghiera si è svolta come nelle previsioni, poi la conferenza stampa e, d’un tratto, il gesto improvviso e inaspettato di Biram, il rogo dei libri. 


“Sono rimasto sconcertato – confessa Brahim – ho detto subito a Biram che non ero d’accordo e che consideravo il suo gesto un errore. Difatti già il giorno dopo tutta Nouakchott era percorsa da cortei e manifestazioni contro di noi”.


“Spontanee?” “No, per niente, erano organizzate dal Potere. La domenica successiva è intervenuto perfino il Presidente della Repubblica per stigmatizzare la grave offesa arrecata al sentimento religioso dei Mauritani”. Brahim racconta di avere appreso da suo figlio che, nella moschea vicina a casa sua, la domenica, dopo la preghiera del pomeriggio, “l’imam ha invitato la gente a restare perché il prefetto avrebbe inviato delle auto per trasportarli a manifestare nel centro città contro Biram”. E ancora suo fratello, che lavora in Prefettura nella città di Boghé, gli ha raccontato che “il prefetto aveva convocato tutti gli imam della wilaya perché organizzassero manifestazioni contro Biram”.


Nonostante lo sconcerto e qualche dissenso, tuttavia, l’IRA si è mobilitata senza riserve a sostegno del suo presidente e dei suoi militanti, come anche altre organizzazioni mauritane, prima tra tutte la storica SOS ESCLAVE. Fin dal giorno dell’arresto, sono state organizzate ogni martedì delle manifestazioni dinanzi al Ministero della Giustizia e dinanzi alla sede della Radio nazionale, per denunciare la campagna di demonizzazione contro Biram e i suoi compagni. E ad ogni sit-in non partecipavano meno di 1000 persone.


La rivoluzione haratine
Quello che sembrava in principio un grave errore tattico si è trasformato in un successo enorme. Basta leggere la
cronaca di quanto accaduto alla liberazione dei militanti arrestati, per rendersi conto che il tema della schiavitù e, in generale, della discriminazione contro i Neri e gli Haratine non può più essere eluso in Mauritania, nonostante i secolari tabù.


Dice Brahim: “La rivoluzione in Mauritania sarà fatta dagli schiavi. La questione della schiavitù è quella che rende peculiare la situazione di questo paese e la fa diversa da quella degli altri paesi del Maghreb”. Risponde in modo un po’ sprezzante alla domanda che gli pongo su che cosa sia stato dei giovani della “primavera mauritana”, protagonisti di una effimera stagione di sparute manifestazioni contro il governo. “Erano bianchi – afferma – I dirigenti li hanno convocati e hanno distribuito posti, 7 su 10 hanno accettato questo è bastato a farli sparire dalle strade, già che erano veramente quattro gatti”.


Brahim insiste a dire che solo gli Haratine possono governare il paese: “Siamo il 50% della popolazione, l’altro 50% si divide tra bianchi e wolof (popolazione nera), e le due etnie non possono certamente andare d’accordo tra loro”. L’IRA conta di poter riuscire a rappresentare tutti gli Haratine e di fondare presto un partito.


Un programma ambizioso, ma non velleitario. Chissà che non vedremo presto Biram diventare presidente della Repubblica mauritana?