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Le blog de Gilles Munier, 3 settembre 2011


Iraq: una rivoluzione araba nascosta

La svolta rivoluzionaria che potrebbero prendere le “Primavere arabe” suscita l’inquietudine degli imperialisti occidentali. Per timore che il contagio possa estendersi a tutti i regimi autocratici filo-USA, l’opposizione in Bahrein ed in Oman è stata soffocata e la Libia bombardata. La Siria è nel mirino. In Iraq la cappa di piombo mediatica che si è abbattuta sulla rivoluzione araba – e curda – consente a Nouri al Maliki ed a Massoud Barzani di reprimere selvaggiamente la contestazione.
Dal 30 gennaio 2011, da Bassora a Soulinaniya – Kurdistan iracheno -, passando per Mossoul e Piazza Tahrir di Bagdad, decine di migliaia di iracheni sfilano quasi tutti i venerdì gridando: “Maliki vai via!”, “Barzani vai via”, “No all’occupazione”. La stampa internazionale ha in un primo tempo dato conto delle manifestazioni e della loro sanguinosa repressione, poi ha bruscamente taciuto. Ciò ha consentito al primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, tappato dietro le mura fortificate della Zona verde, di dichiarare che l’Iraq è “il posto più sicuro del mondo arabo”. In altri termini, all’attenzione dei giornalisti curiosi: “Circolate, non c’è niente da vedere…”
Il Pew Research Center (PRC) che recensisce i temi trattati dai media, ha constatato che negli Stati Uniti, tra il 31 gennaio e il 6 febbraio scorsi, il 56% di essi riguardava i disordini nei paesi arabi, tra i quali l’Iraq, ma che erano diventati il 12% a fine aprile. Per ciò che riguarda l’Iraq, gli articoli riguardavano solo gli attentati, nonostante che si svolgessero regolarmente delle manifestazioni. “Questo fornisce una visione molto deformata del paese”, conclude il think tank.


Crimine cibernetico
In mancanza di copertura degli avvenimenti, i ricercatori ripiegano su delle agenzie irachene indipendenti, come Awsat al-iraq o, per il Kurdistan, sui siti Rudaw.net o KurdishMedia.com. Una delle principali fonti di informazione sullo sviluppo della contestazione in Iraq è la pagina Facebook della “Grande rivoluzione irachena”, ma forse non ancora per molto. Infatti il governo si prepara a considerare come “crimine cibernetico” la diffusione in internet di messaggi che invitano a manifestare, o che rendono conto dei raduni antigovernativi, adducendo come pretesto che ciò turbi l’ordine pubblico e possa portare ad una “ribellione armata”. I contravventori rischieranno … la prigione a vita e da 25 a 50 milioni di dinari di ammenda (da 16.250 a 32.500 euro). Non impressionati più di tanto, più di 36.000 persone si sono iscritte alla rete sociale per partecipare alla prossima grande manifestazione di contestazione, battezzata “Alba della liberazione”, che si terrà venerdì 9 settembre prossimo sulla piazza Tahrir di Bagdad e nei governatorati. I suoi organizzatori, oltre alla Grande Rivoluzione Irachena, sono – tra gli altri – l’Alleanza del 25 febbraio, il Movimento Popolare per salvare Kirkouk e gli Studenti ed organizzazioni di giovani dell’Iraq Libero. Chi ne ha sentito parlare, nel momento in cui i media rimpinzano i lettori di estratti delle dichiarazioni menzognere del Consiglio Nazionale di transizione libico e di comunicati inverificabili di sconosciute organizzazioni siriane? In maggio, nel suo discorso dedicato alle rivoluzioni arabe, il presidente Obama non si è evidentemente risentito del fatto che l’Arabia, gli Emirati del Golfo e l’Iraq siano tra i paesi meno democratici del mondo.


Minaccia interna
I “100 giorni” che si era dato Nouri al-Malik, a fine febbraio, per migliorare i servizi pubblici, ridurre la disoccupazione e sradicare la corruzione, erano solo polvere negli occhi. All’inizio di giugno, agli iracheni non restava che di manifestare nuovamente la loro collera. Human Right Watch (HWR) afferma che a Bagdad, venerdì 10 giugno, dei sicari filo-Maliki armati di bastoni, coltelli e sbarre di ferro, hanno picchiato e pugnalato dei manifestanti e aggredito sessualmente delle donne che prendevano parte alla manifestazione. Centocinquanta poliziotti e militari in abiti civili infiltravano la manifestazione. Il 17 e 24 giugno le forze di sicurezza presenti per proteggere i contestatari, aiutavano apertamente gli aggressori. In Kurdistan, dove dominano il nepotismo e la corruzione, gli scontri sono stati tra i più violenti. Tra i numerosi uccisi: Swrkew Qaradaxi, un giovane di 16 anni abbattuto in febbraio a Soulimaniya dalle milizie barzaniste, e diventato il simbolo della contestazione. Suo padre, ex peshmerga, accusa la cricca al potere di sparare sul suo popolo per conservare il potere: “Saddam Hussein era un nemico esterno del Kurdistan – dice – ma adesso noi ne abbiamo uno all’interno: il governo kurdo uccide i kurdi. E’ molto peggio”. Amnesty International chiede alle autorità regionali di svolgere inchieste sugli attacchi ai difensori dei diritti umani: uccisioni, rapimenti, torture.
Il folle progetto governativo di confinare i contestatori in tre stadi di Bagdad – in nome del diritto a manifestare senza disturbare i commercianti(!) – si è dimostrato irrealizzabile. In caso di gravi incidenti – vale a dire di incidenti che mettano in pericolo la zona verde – Nouri al-Malik, che cumula le funzioni di ministro della Difesa e di Presidente del Consiglio nazionale di Sicurezza, si è assicurato nello scorso marzo il sostegno del generale curdo Babacar Zebari, capo di Stato maggiore dell’esercito. Quest’ultimo, favorevole al mantenimento delle truppe USA in Iraq, si è detto pronto ad affrontare qualsiasi minaccia… interna.