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ProfileCrisi siriana, 14 gennaio 2019 - Il presidente Donald Trump, il 19 dicembre, ha dichiarato che le forze USA si sarebbero ritirate dalla Siria. Il 20 dicembre ha annunciato una forte riduzione degli effettivi statunitensi presenti in Afghanistan    

 

Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement) dicembre 2018 (trad.ossin)
 
Stati Uniti/Siria/Afghanistan: situazione esplosiva dopo il ritiro militare deciso dal presidente Trump
Alain Rodier
 
Il presidente Donald Trump ha annunciato in successione due importati ritiri militari. Il 19 dicembre ha dichiarato che le forze USA si sarebbero ritirate dalla Siria col pretesto che: « Abbiamo battuto il gruppo Stato Islamico in Siria, l’unica ragione secondo me per cui dovevamo essere presenti ». Il secondo annuncio, fatto il 20 dicembre, è altrettanto sorprendente: dimezzare gli effettivi statunitensi presenti in Afghanistan, che dovrebbero ridursi da 14 000 a 7 000 soldati. L’operazione internazionale Resolute Support, che mette insieme 41 paesi e 16 000 militari, potrebbe dunque subirne dirette conseguenze.
 
Il tweet del presidente Trump che annuncia il ritiro dalla Siria
 
Di questo passo, non è impossibile che una analoga decisione possa essere presa un giorno per l’Iraq, dopo che le forze USA in rientro dalla Siria siano passate in parte da questo paese (l’altra strada possibile è la Turchia). Si pongono infine diversi interrogativi a proposito di altre presenze militari, come in Africa. Se per mesi gli analisti sono sembrati rinvenire un crescente interesse del Pentagono per il continente africano, sarebbe utile capire cosa ne pensa davvero il presidente Trump e quali potrebbero essere le sue future decisioni.
 
La maniera precipitosa di procedere dell’inquilino della Casa Bianca non stupisce gli osservatori avvertiti, perché il « ritorno a casa dei ragazzi » è stata una delle sue grandi promesse della campagna elettorale del 2016. Trump dunque mantiene solo una parte delle sue promesse e l’opinione pubblica statunitense, che è sempre molto isolazionista, potrebbe essergliene riconoscente nelle prossime elezioni presidenziali del 3 novembre 2020.
 
Quello che più sconcerta è il suo modo brutale di agire – anche se le abitudini del personaggio cominciano a essere note – che mette in gran difficoltà i suoi alleati e al contempo offre al nemico jihadista la possibilità di rivendicare una vittoria. E’ stata d’altronde proprio questa sua maniera di procedere a provocare le dimissioni del segretario alla Difesa, il generale James Norman Mattis, che lascerà il suo posto alla fine di febbraio 2019. Allo stesso tempo, l’emissario degli Stati Uniti per la coalizione antiterrorista internazionale, Brett McGurk, ha presentato le dimissioni il 21 dicembre. Saranno effettive il 31 dicembre e avranno certamente più dirette conseguenze di quelle di Mattis.
 
Ma ciò che senza dubbio è più importante, la partenza degli Statunitensi provocherà un ribaltamento dei rapporti di forza sul campo nei mesi e negli anni a venire, in quanto la natura ha orrore del vuoto.
 
Daesh è lungi dall'essere battuta
 
Pretendere, come ha fatto il presidente Trump in alcuni tweet, che Daesh sia stata battuta in Siria è un’esagerazione, addirittura una bugia. D’altronde ha in seguito attenuato i suoi discorsi di vittoria con messaggi successivi. Anche se una parte della regione di Hajin, posta a nord-est dell’Eufrate, è stata effettivamente recuperata dalla coalizione delle Forze Democratiche Siriane (SDF) con l’aiuto diretto degli USA, Daesh è ancora presente nella zona, essendosi solo « diluita » nel territorio.
 
Di pari passo, i dati pubblicati dal Center for Strategic and International Studies (CSIS) mostrano che, nel vicino Iraq, i numero di attacchi attribuiti a Daesh è quasi raddoppiato nel 2018 rispetto al 2017. Ebbene la frontiera tra i due paesi è particolarmente porosa e poco controllata. I jihadisti si spostano come vogliono! Già a luglio 2018, il capo di stato maggiore degli eserciti francesi, il generale Lecointre, affermava durante un’audizione davanti alla Commissione della Difesa nazionale dell’Assemblea Nazionale, che a causa delle azioni di guerriglia realizzate da Daesh : « molti mesi, forse diversi anni, dovranno passare prima che la situazione si sia davvero stabilizzata e che lo stato di diritto sia ripristinato in Iraq ».
 
Infine la nebulosa jihadista è in continua progressione sui teatri esterni alla sua patria siro-irachena: Sahel, Maghreb (Il Marocco è stato colpito con l’assassinio di due turiste scandinave), Nigeria, Sinai, zona Afpak, Caucaso, Estremo Oriente, ecc. Quasi nessuna regione del pianeta è al riparo da attentati commessi da terroristi che si ispirano alla propaganda di Daesh, tuttora assai presente nelle reti sociali. In questo fine d’anno, l’Europa è particolarmente citata e deboli segnali lasciano trapelare la prossima commissione di attentati. Anche il jihadista francese Fabien Clain, ricercato da tutti i servizi di informazione per il ruolo che ha giocato negli attentati perpetrati in Francia dal 2015, ha contribuito con le sue minacce contro la Francia.
 
Finché l’ideologia politico-religiosa prospererà e continuerà a manifestare la sua volontà di rovesciare i poteri costituiti, Daesh continuerà a esistere, forse anche a crescere. In tali condizioni, risulta difficile affermare che l’idra islamica è battuta, soprattutto Siria.
 
Una situazione esplosiva nel nord della Siria
 
In Siria, diversi scenari sono possibili. Oltre a ritirare i suoi 2 000 uomini presenti in zona, non è certo che Washington abbia intenzione di assicurare all’infinito protezione aerea alle SDF. Di conseguenza queste ultime, per lo più composte da Curdi siriani del Partito dell’Unione democratica PYD « apoisti [1] » sono minacciate da un’offensiva generalizzata dell’esercito turco. Ankara invaderebbe tutto il nord del paese per cacciare i « terroristi », come i membri delle SDF vengono sistematicamente catalogati dal presidente Erdogan. E’ addirittura possibile che unità turche prendano il posto abbandonato dagli USA per impedire all’esercito siriano di riempire il « vuoto » creato in tal modo. Da notare che le forze speciali francesi e britanniche presenti in queste zone della Siria non potranno restarvi a lungo dopo la partenza degli Statunitensi, perché non ne hanno semplicemente i mezzi. Inoltre i loro effettivi sono così ridotti che la possibilità di essere catturati dall’uno o dall’altro campo non è da escludersi.
 
Ciò che accade nella regione di Manbij in questo scorcio d’anno costituisce un test importante. Questa località posta a una trentina di chilometri a sud est di Jarabulus [2] è un obiettivo che Erdogan ha fissato più volte. E le forze turche che hanno attraversato la frontiera siriana a fine dicembre stanno dispiegandosi per potersi poi spingere fino a Manbij. Solo i posti di osservazione USA ancora istallati tra Jarabulus e Manbij impediscono l’avanzata dei Turchi. Da parte loro, le forze governative siriane, chiamate in soccorso dalle SDF, hanno fatto movimenti verso il sud e l’ovest della città per tentare di circondarla (vi è anche stata una operazione di ricognizione mediatizzata nella città il 27 dicembre). Per complicare il quadro, attivisti di Daesh che si trovavano clandestinamente in zona sono entrati in azione compiendo diversi atti terroristi. Se gli USA ritireranno i loro posti di osservazione più su citati, l’esercito turco si troverà direttamente di fronte al suo omologo siriano e alla SDF!
 
Il ritiro statunitense contraddice quindi la politica di Contenimento perseguita da Washington contro Mosca e Teheran in Medio Oriente, ampiamente illustrata per mesi dal rappresentante USA per la Siria, l’ambasciatore James Jeffrey. Tuttavia le sue dichiarazioni, più ambigue di quanto apparissero, avrebbero dovuto essere attentamente esaminate dai Curdi. « Gli Stati Uniti non intrattengono relazioni permanenti con entità regionali (…) noi abbiamo relazioni permanenti con degli Stati ». Insomma Trump ha deciso dopo un po’ di tempo di preferire lo Stato turco alla « entità curda » per proseguire la sua politica nella regione. Come per caso, ritorna la possibilità per Ankara di acquistare il sistema antiaereo Patriot, armato di 140 missili [3] e degli F-35… Pare che Trump non voglia che la Turchia, potente membro storico della NATO, passi nel campo russo e si avvicini troppo all’Iran. Per lui, spetta ad Ankara di completare il lavoro con Daesh in Siria e soprattutto di fare barriera a Teheran. C’è da chiedersi se ci creda davvero, sapendo che Erdogan si occuperà prima dei Curdi e poi andrà a trattare con l’Iran. Essendo vicino ai Fratelli Musulmani, Erdogan è capace di una politica tutte sfumature tra quei due rivali che sono i regimi al potere a Teheran e a Riyadh. Da notare che un nuovo summit  Turchia/Iran/Russia dovrà tenersi a Mosca a inizio 2019. Sembra evidente che la situazione in Siria sarà all’ordine del giorno. Già, secondo Sergueï Lavrov, i Russi e i Turchi si sarebbero accordati per coordinare le loro azioni dopo il ritiro USA!
 
Washington aveva annunciato l’intenzione di creare, partendo dalle SDF, un corpo di guardie di frontiera forte di 40 000 uomini (e donne). A oggi solo 8 000 sarebbero stati addestrati. Abbandonati dal loro mentore statunitense, i Curdi sono del tutto incapaci di opporsi ad un’eventuale offensiva dell’esercito turco. La loro unica possibilità di salvezza è di concludere rapidamente un accordo con il governo di Damasco per ottenerne la protezione e, di riflesso, quella dell’aviazione russa. Una simile alleanza, che potrebbe sembrare contro natura, non è poi così difficile per la semplice ragione che i Curdi siriani non si sono mai scontrati con Bachar el-Assad dall’inizio della “rivoluzione” del 2011, a parte qualche raro incidente localizzato, frutto dell’iniziativa di piccoli capi locali.
 
Inoltre Damasco non può accettare senza reagire una nuova intrusione della Turchia sul suo territorio dopo che già la provincia di Afrin, posta a nord-ovest del paese, ha subito una sorte simile [4]. Questo permetterebbe anche a Damasco di recuperare le risorse in idrocarburi poste a nord-est dell’Eufrate. Esse sono indispensabili per finanziare in parte la ricostruzione del paese. D’altronde sono avviati i lavori per una nuova Costituzione, per iniziativa della Russia, dell’Iran e della Turchia. Ciò potrebbe permettere di concedere una certe autonomia alle diverse regioni e dunque dare in parte soddisfazione alle popolazioni curde, evitando ogni velleità di indipendenza.
 
Resta comunque che un rischio di scontro diretto tra Siria e Turchia esiste. La Russia avrà allora un ruolo centrale da giocare come anche, sebbene in misura minore, gli Iraniani, anche se le loro capacità di azione restano limitate. Forse questi due paesi spingeranno verso una soluzione mediana con l’appoggio di Donald Trump che vuole chiudere questo dossier : i Turchi potrebbero occupare una « zona di sicurezza » di qualche decina di chilometri in territorio siriano; le forze di Damasco si schiererebbero di fronte a difesa delle risorse petrolifere. Sarebbe una vera e propria ridefinizione delle frontiere senza chiamarla in questo modo. C’è già stato un precedente a Cipro.
 
Quanto all’influenza dell’Iran in Siria, Trump ha passato « la patata bollente » allo Stato ebraico che dovrà rassegnarsi… Anche su questo punto la pressione sta crescendo perché Israele deve vedersela con una recrudescenza dell’attivismo palestinese discretamente alimentato da Teheran, con una situazione assai instabile  del Libano – a causa di Hezbollah sempre attivato dal regime iraniano – e col fatto che Mosca e Ankara vengono a complicare le cose !
 
Afghanistan: verso un ritorno dei Talebani ?
 
In Afghanistan, il presidente Ashraf Ghani viene ad essere messo in una situazione per lo meno scomoda col ritiro statunitense, dal momento che già egli controllo solo metà del paese e che Kabul è oggetto di attacchi regolari da parte di commando terroristi di Daesh e dei Talebani.
 
E’ malauguratamente verosimile che lo stesso scenario che si è realizzato con il ritiro dei Sovietici nel 1979 si possa ripetere : la guerra civile si va generalizzando e il governo centrale va sfaldandosi, abbandonato da una parte dell’esercito e della polizia le cui motivazioni sono aleatorie. E’ difficile prevedere allora chi toglierà le castagne dal fuoco ma sembra che i Talebani continuino ad essere i più numerosi e meglio organizzati; sembrano quindi avere più possibilità dei rivali di riprendere Kabul. Per parte sua, Daesh ha un problema coi Talebani : non riesce a farli bollare come « apostati » (traditori dell’islam) dalle popolazioni locali e non riesce dunque a beneficiare – come in altri teatri – della superiorità ideologico-politica che gli attribuisce la sua interpretazione letterale dei testi islamici. Alla fine, la presenza militare statunitense in Afghanistan potrebbe concludersi con una disfatta.
 
I Talebani non si illudono e hanno già in varie occasioni incontrato discretamente – soprattutto ad Abou Dhabi – emissari statunitensi guidati dall’ex ambasciatore in Iraq e in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, onde « preparare il futuro ». Il governo in carica a Kabul non è stato invitato a questi incontri ma ne sarebbe comunque stato informato da Khalilzad. Le prossime elezioni presidenziali sono previste ad aprile 2019 e nessuno sa – senza farsi troppe illusioni sulla regolarità del processo elettorale – chi ne uscirà vincente.
 
Riassumendo, lo « Stato Islamico di Afghanistan » a guida talebana ha grandi possibilità di rinascere dalle ceneri dopo essere sparito nel 2001-2002 a seguito dell’invasione della coalizione internazionale guidata da Washington. Ciò non significherà il ritorno alla pace civile, perché alcuni grandi signori della guerra (come l’inossidabile generale Dostom) ripiegheranno probabilmente nei loro feudi, per sfuggire al nuovo governo che si insedierà a Kabul. Come nel passato, questi capi di guerra riusciranno a sopravvivere finanziando le loro milizie grazie alla coltura del papavero e al racket.
 
Non bisogna infine dimenticare che Al Qaeda « canale storico » è sempre alleata dei Talebani afghani che hanno dichiarato fedeltà al suo capo spirituale, il mullah Haibatullah Akhundzada. E l’obiettivo principale del dottor Ayman al-Zawahiri è di eguagliare, magari superare il suo predecessore, Osama bin Laden, nella lotta contro gli empi statunitensi. Se Daesh non è battuto, non lo è nemmeno Al Qaeda « canale storico » ! Poco importa per Trump : il terrorismo dagli Stati Uniti è considerato oramai come un rischio minore. La vera guerra si vince al livello commerciale ed ha come nemico principale la Cina giacché, a questo livello, la Russia resta marginale. In tale ambito, sembra che Trump collochi anche l’Europa nel campo degli avversari …
 
Conclusioni 
 
A meno di un nuovo ripensamento del presidente Trump, che ha fatto della « sorpresa » uno dei suoi strumenti di politica estera, la situazione non può che volgere al peggio in Afghanistan, in Siria e poi in Iraq. Inoltre Daesh, che ha certamente perso il suo proto-Stato, non è stata battuta militarmente. Ha solo cambiato strategia rientrando in clandestinità e continuando a diffondere la sua ideologia mortifera. Peraltro le SDF minacciano di rilasciare « involontariamente » 3 200 prigionieri appartenenti allo Stato Islamico [5]. Il disordine che si profila sembra possa permettere all’organizzazione jihadista di guadagnare nuovi adepti.
 
In generale, i salafiti-jihadisti di Daesh e Al Qaeda non si sentono pressati in quanto la loro nozione di tempo è diversa dalla nostra: essi prevedono che la loro lotta si estenderà nell’arco di generazioni, fino alla creazione di un califfato mondiale [6].
 
Da parte sua, Trump sbarazzatosi della vecchia guardia militare di cui si era circondato – e all’occasione lo guidava – dopo le elezioni, può finalmente fare di testa sua e le conseguenze potrebbero essere sorprendenti in un senso come nell’altro. Quello che adesso è certo, è che egli non rispetta alcuna delle regole politiche classiche. Risultato, è completamente imprevedibile. Bisogna però ricordarsi del suo celebre slogan elettorale America First, che guida i suoi comportamenti e le sue decisioni. Che non hanno strettamente niente a che vedere con la morale ma con gli interessi del suo paese. Se, come è prevedibile, le operazioni militari classiche andranno considerevolmente diminuendo nel futuro – magari ad eccezione dell’Estremo Oriente dove la Cina comincia a impensierire seriamente Washington -, non sarà lo stesso per quanto concerne la guerra segreta in generale e le operazioni di neutralizzazione in particolare. Segno premonitore: gli attacchi di droni armati statunitensi si sono notevolmente intensificati negli ultimi mesi in Somalia e nella zona Afpak.
 
 
Note:
 
[1] Ideologia predicata da Abdullah Öcalan alias « Apo », l’ex leader del PKK in carcere dal 1999 sull’isola di Imrali in Turchia. Si tratta di una sapiente combinazione di marxismo-leninismo, autogestione, ecologia e diritti delle donne.
 
[2] Città caduta sotto il controllo dell’esercito turco e dei suoi ausiliari siro-turcomanni durante l’operazione Scudo dell’Eufrate (24 agosto 2016-29 marzo 2017).
 
[3] Al posto degli S-400 russi, anche se il dubbio persiste, vista la tradizione turca di giocare sempre su diversi tavoli
 
[4] Teoricamente sono state milizie turcomanno-siriane a conquistare questa provincia, ma in realtà era l’esercito turco a dirigere le operazioni
 
[5] Non solo queste cifre sembrano esagerate anche se si comprendono le donne e i bambini, ma inoltre le SDF non rilasceranno certamente i combattenti contro i quali hanno direttamente combattuto.
 
[6] Conviene ricordare che questo obiettivo è anche quello dei Fratelli Musulmani considerati più « frequentabili » dagli Occidentali in quanto utilizzano i mezzi offerti dalle democrazie per raggiungere i loro scopi