Stampa

 

Consortium News, 10 novembre 2017 (trad. ossin)
 
Il gioco disperato dell'Arabia saudita
Alastair Crooke
 
Furioso per la sconfitta militare in Siria, il Principe ereditario rilancia. Mette i rivali agli arresti domiciliari e provoca una crisi politica in Libano, dichiara l’ex diplomatico Alastair Crooke
 
Trump, la moglie, il re saudita Salman e il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sissi, il 21 maggio 2017, all'inaugurazione del Centro mondiale di lotta contro l'ideologia estremista (Foto ufficiale della Casa Bianca di Shealah Craighead)
 
C’è sempre la tentazione di giocarsi un altro colpo. La guerra in Siria sta per finire e le perdite, sotto i proiettori del finale di partita, diventano pubblicamente imbarazzanti per quelli che hanno scommesso sui perdenti. E’ forte la tentazione di spazzare via queste perdite e provare con un’altra scommessa nelle forme di una pubblica spavalderia, il maschio « eroe » mette a rischia la casa e tutto quello che c’è dentro su un’ultima puntata alla roulette. Gli spettatori restano in un silenzio impressionante, aspettando che la roulette rallenti, che la pallina salti di casella in casella, fissando il loro sguardo su quella in cui va a fermarsi, o sul nero o sul rosso sangue della tragedia.
 
Non solo come in un romanzo, ma nella vita reale, il Principe ereditario saudita Mohamed ben Salman (MbS) ha puntato tutto sul nero, insieme ai suoi “amici”, il genero del presidente Trump, Jared Kushner, il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohamed ben Zayed, e lo stesso Trump, che hanno avuto l’audacia di farlo con lui. Trump, nella sua vita professionale, ha una o due volte puntato tutto il suo futuro alla roulette. Ha giocato e riconosciuto che è esaltante.
 
Ma nell’ombra, nel retrobottega della sala da gioco, sta nascosto il Primo ministro israeliano, Bibi Netanyahu. L’idea di andare a giocare al casinò è stata sua. Se l’eroe becca il nero, anche lui dividerà la vincita con gioia, ma se esce il rosso… Non ve ne abbiate a male, ma la casa di Bibi non sarà confiscata.
 
Cerchiamo di essere chiari, MbS sta rompendo tutti i fili che mantengono il regno saudita unito e intatto. L’Arabia saudita è un affare di famiglia, ma anche una confederazione di tribù. I loro differenti interessi venivano tenuti insieme, essenzialmente, attraverso la composizione della Guardia nazionale, e il controllo di essa. Ora essa non rappresenta più le diverse affiliazioni tribali del regno, ma solo gli interessi di sicurezza di un solo uomo che se l’è accaparrata per suo uso personale.
 
Idem per i diversi rami cadetti della famiglia al-Saud, adesso è finita la spartizione, accuratamente calibrata, del bottino tra i molti esponenti della famiglia. Un uomo solo si prepara a ramazzare la tavola dei giocatori più piccoli. Ha spezzato i cavi che legavano la Corte all’élite saudita degli affari e, lentamente, sta spezzettando anche l’istituzione religiosa. I religiosi sono stati effettivamente espulsi dalla partnership, fondata congiuntamente a ibn-Saud, il primo monarca dell’Arabia saudita che ha regnato nella prima metà del secolo scorso, conosciuto anche col nome di re Abdul Aziz. Insomma più nessuno fa parte di questa impresa, salvo MbS, e nessuno più – sembrerebbe – ha più diritti e nemmeno risarcimenti.
 
Perché? Perché MbS vede che l’autorità politica e religiosa del mondo arabo sta scivolando come sabbia tra le dita del re, e non sopporta l’idea che siano l’Iran (e gli odiati sciiti) a raccoglierne i frutti.
 
Trasformare l’Arabia saudita
 
Di conseguenza l’Arabia saudita deve essere trasformata, da un regno addormentato, declinante, in uno strumento per indebolire la potenza iraniana. Questo, ovviamente, è in sintonia col presidente statunitense che sembra, anche lui, sempre più preoccupato di riaffermare il prestigio degli USA, la sua capacità di dissuasione e la sua potenza nel mondo (contraddicendo i programmi non intervenzionisti della campagna elettorale). Alla Conferenza del The American Conservative, a Washington la settimana scorsa, l’editorialista Robert Merry, un editorialista realista e prolifico, si lamentava del fatto che “non c’è alcun realismo, né moderazione, nella politica estera dell’era Trump”.
 
Tutte le guerre sono costose e hanno bisogno di denaro (quindi confiscato ai rivali di MbS, arrestati e accusati di corruzione). Ma  tradizionalmente l’Arabia saudita (dal XVIII secolo) ha sempre puntato tutto su uno strumento particolare (ed efficace): infiammare il jihadismo wahhabita; ma sull’onda della débâcle siriana, si trova oggi ad essere screditato e non più utilizzabile.
 
Così adesso l’Arabia saudita deve costruirsi un nuovo strumento per poter competere con l’Iran e la scelta fatta dal principe ereditario ha veramente dell’ironico: “Islam moderato“ e nazionalismo arabo (per contrastare l’Iran e la Turchia non arabi). Mohammed Abd el Wahhab si starà rivoltando nella tomba, l’islam “moderato”, nella sua rigorosa dottrina, porta solo all’idolatria (come quella praticata dagli ottomani), cosa che, dal suo punto di vista, dovrebbe essere punito con la morte.
 
Infatti è questa la parte più rischiosa del gioco di MbS (mentre è stato il sequestro della fortuna monumentale del principe Walid bin Talal che ha suscitato maggiore attenzione). Il re Abdel Aziz dovette fare fronte ad una ribellione armata, e un altro venne assassinato per essersi allontanato dai principi del wahhabismo su cui lo Stato si era fondato, perché avevano abbracciato la modernità occidentale (considerata dal wahhabismo come idolatria).
 
Non si può esorcizzare la società saudita dal suo gene di fervore wahhabita, chiedendogli semplicemente di andarsene (Abdul Aziz alla fine l’ha avuta vinta mitragliando i suoi adepti).
 
Ma abbracciare l’“islam moderato“ (vale a dire l’islam secolare) e minacciare l’Iran probabilmente è stato fatto con l’intento di sedurre il presidente Trump per sbarazzarsi del cugino, il principe Naif, come concorrente al trono, mentre un altro intento era quello di far apparire l’Iran come adepto di un islam “estremista” ad una Casa Bianca cui la visione sul Medio Oriente è stata fornita da Bibi Netanyahu suggerendola all’orecchio di Jared Kushner, e dai pregiudizi di una cerchia di consiglieri che hanno una comprensione orientata dell’Iran, invece di affrontarla nei suoi diversi aspetti. Netanyahu ha il diritto di felicitarsi per il suo abile stratagemma.
 
Il colpo di Netanyahu
 
Su questo non c’è dubbio: è un colpo di Netanyahu. Si tratta solo di capire se si rivelerà una vittoria di Pirro o meno. In ogni caso è assai pericoloso lanciare granate su del materiale combustibile. Questo progetto US–Israele–Arabia saudita–EAU è, in fondo, niente meno che negare la realtà. Si radica nel rifiuto di negare il rovescio subito da questi Stati, dai loro tanti fallimenti nel tentativo di costruire un « nuovo Medio Oriente » sul modello occidentale. Adesso, sulla scia del loro fallimento in Siria, dove si sono spinti fino all’estremo limite cercando una vittoria, tentano un’altra puntata alla roulette nella speranza di recuperare tutte le perdite passate. Ciò che è, per lo meno, una speranza fallace.
 
Da un lato, la potenza dell’Iran nel Medio Oriente settentrionale non è effimera. E’ oramai ben radicata. Lo “spazio strategico” dell’Iran include la Siria, l’Iraq, il Libano, lo Yemen e, sempre di più, anche la Turchia. L’Iran, con la Russia, ha giocato un ruolo di primo piano nella disfatta di ISIS. E’ un “partener strategico” della Russia, nel momento in cui quest’ultima gode di ampia influenza nella regione. In poche parole, il peso politico si situa a nord, piuttosto che in un sud indebolito.
 
Se ci si illude che la Russia potrebbe essere indotta a « contenere » l’Iran e i suoi alleati nella regione per venire incontro alle inquietudini israeliane, si tratta di un’illusione. Anche se la Russia fosse in grado di farlo (e probabilmente non lo è), perché dovrebbe farlo ? E poi come fare per contenere l’Iran ? Con un intervento militare ? Anche questo sembra tirato per i capelli.
 
Gli ambienti militari e di sicurezza di Israele, sulla scia della guerra del Libano del 2006, prefigurano probabilmente una guerra (un’altra, non solo quella quotidiana contro i Palestinesi) che sia breve (sei giorni o meno), non provochi pesanti perdite civili e militari, e che possa essere vinta a poco prezzo. Israele spererebbe anche in un coinvolgimento totale degli USA (diversamente da quanto accadde nel 2006). Il Pentagono non ha troppa voglia di rimettere gli stivali sul suolo del Medio oriente, e gli Israeliani lo sanno. D’altra parte l’Arabia saudita da sola non può minacciare proprio nessuno (come ha ampiamente dimostrato in Yemen).
 
L’Arabia saudita può bloccare economicamente il Libano e imporre una pressione politica su qualsiasi governo libanese? Naturalmente. Ma la pressione economica toccherà probabilmente i sunniti, classe media e di affari, più duramente del 44% della popolazione libanese che è sciita. Generalmente il Libanese ha una forte avversione verso le ingerenze esterne, e le sanzioni e le pressioni USA uniranno probabilmente il Libano piuttosto che dividerlo. (E’ la vecchia, vecchia storia dell’imposizione di sanzioni). A prima vista, nemmeno gli Europei sosterrebbero volentieri la destabilizzazione del Libano, né l’abbandono del JCPOA, l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano.
 
Allora, che cosa può succedere ? A prima vista, l’Arabia saudita, una società nella quale già un bel po’di tensioni sono soffocate, potrebbe semplicemente implodere sotto una nuova ondata repressiva (o ancora MbS potrebbe essere in qualche modo « soppresso » prima che le tensioni esplodano). Gli USA e Israele ne usciranno non rafforzati, ma piuttosto saranno visti come meno credibili in Medio Oriente.
 
Robert Malley, l’ex consigliere per il Medio oriente della precedente amministrazione, ha avvertito del pericolo di una potenziale esplosione regionale: «  La paura è qualcosa che potrebbe impedirla, ma potrebbe anche scatenarla ».
 
Alastair Crooke è un ex diplomatico britannico ed è stata una figura di primo piano dei servizi di informazione britannici e della diplomazia europea. E’ fondatore e direttore del Conflicts Forum.