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Analisi - La schiavitù moderna non è morta, essa è connaturata al sistema capitalista e, fin quando questo durerà, essa sopravviverà, in forme varie e diverse. La seconda parte del reportage di Afrique-Asie



(Un bambino al lavoro)






Afrique Asie, luglio-agosto 2009


Lo schiavismo che non è morto


Largamente sottostimato, il supersfruttamento del lavoro forzato, che produce traffici umani di ogni genere, è né più né meno una forma di schiavitù moderna di cui il sistema capitalista ha oggi bisogno, esattamente come aveva bisogno degli schiavi all’epoca della tratta negriera



di Rémy Herrera


La schiavitù moderna, quello della tratta negriera, corrisponde prima di tutto ad un preciso periodo storico: quello dell’accumulazione originaria del capitale, durante il quale dominava il capitale mercantile.  Questo periodo si è prolungato in certi paesi delle Americhe (Stati Uniti del sud, Cuba, Brasile) fino alla fine del XIX secolo. Questo sistema considerava lo schiavo come un mezzo di produzione  - espressione di quello che ai nostri giorni, non senza cinismo, si definisce il “capitale umano”. Così il lavoratore schiavo non era proprietario della sua forza lavoro, e non poteva venderla sul “mercato del lavoro”.

Commercio triangolare
Questa schiavitù richiedeva tuttavia un mercato, a tre livelli almeno. Le piantagioni verso le quali erano diretti i flussi dei prigionieri, erano sicuramente autosufficienti e prive di circolazione di moneta, in modo da poter meglio concentrare la mano d’opera servile con la violenza; ma al loro interno c’erano dei meccanismi di mercato. E assumevano forme varie: baratto, vendita di prodotti agli abitanti dei dintorni, qualche acquisto da mercanti ambulanti, occasionali scambi di moneta all’esterno delle piantagioni … Identici meccanismi erano anche presenti , ovviamente, per via della vendita di esseri umani che si faceva nei mercati locali degli schiavi – che costituiscono d’altronde un aspetto importante delle testimonianze dirette raccolte tra gli ex-schiavi (fino alla seconda metà del XX secolo). Nel commercio triangolare (che collegava l’Europa, l’Africa e le Americhe), la forza di lavoro schiava era una merce, e il mercato mondiale era approvvigionato dalla razzia, il trasporto e l’insediamento di esseri umani , attraverso la guerra.
Detto questo, è cruciale sottolineare che la schiavitù moderna delle piantagioni era una schiavitù capitalista. Essa legava infatti direttamente le piantagioni, creatrici di ricchezze per l’esterno, al mercato mondiale, ma ancora connetteva  la totalità della formazione sociale periferica schiavista alle strutture produttive di un centro in seno al sistema mondiale. In tali condizioni vi sono stati anche degli elementi di salariato nella schiavitù (per esempio gli schiavi “apprendisti” presi in affitto dagli artigiani), ma anche dei residui di schiavismo nel lavoro salariato (soprattutto  nei liberi “contratti” di reclutamento dei coolie cinesi o dei riot indiani – lavoratori forzati – dirottati anch’essi verso le piantagioni). I percorsi di passaggio dalla schiavitù al lavoro salariato sono stati così molto vari, seguendo gli schemi di ogni forma di lavoro forzato.
Queste considerazioni preliminari permettono di capire meglio perché possono ancora oggi permanere nel mondo certe forme di schiavitù. Molte di queste sono “arcaiche”, eredità di tempi antichissimi (come la schiavitù per debiti in India o la schiavitù domestica in certi paesi africani). Ma altre si situano molto semplicemente alle più estreme frontiere del supersfruttamento moderno del lavoro (per esempio il lavoro forzato in certe regioni arretrate del Brasile o il trattamento umiliante frequentemente riservato alle categorie più vulnerabili dei lavoratori clandestini nei paesi del Nord). Yves Benot lo ha scritto nella sua opera più importante, La Modernità della schiavitù: “Incessantemente il sistema produttivo mondiale è alla ricerca di luoghi, di popolazioni dalle quali trarre un tasso di plusvalore maggiore di quello che può ricavare al Centro. E’ dunque augurabile (per il capitale mondialmente dominante) che sopravvivano vaste zone di totale povertà o si riproducano per ridurre degli esseri umani in tale stato da essere costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro”.

27 milioni di schiavi
Ed ha aggiunto: “Di conseguenza, ci si può permettere di attendere che le sacche di schiavitù che persistono in questo sistema, che pretende di fondarsi sul lavoro libero ed una relazione sedicente contrattuale,  finiscano con lo scomparire? Al contrario, tutto porta a supporre che se queste o quelle spariscano, altre se ne formeranno”.  Certamente, dalla fine degli anni ’70 fino ad oggi, la cosiddetta era “neoliberale” – di dominio dell’alta finanza – ha favorito e organizzato il ritorno di nuove pratiche di schiavismo.  Esse colpiscono soprattutto i giovani, e specialmente i bambini. Così, su un totale (sottostimato) di 352 milioni di bambini lavoratori nel mondo nel 2000, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT), quasi 246 milioni esercitavano attività giudicate pericolose o suscettibili di compromettere la loro salute e sicurezza.  Il capitalismo realizzato, soprattutto nella sua forma neoliberale, tende a mercificare tutta la sfera sociale – ivi compresi gli esseri umani – dinamizzando in tal modo la crescita del supersfruttamento dei bambini.
I casi estremi di lavoro infantile rivelano situazioni sempre diverse, ma spesso vicine a quelle del purgatorio: bambini che lavorano nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, che polverizzano prodotti chimici agricoli in Camerun, come fabbri in Nigeria, nelle miniere in Burkina Faso, a recuperare rifiuti nelle discariche in Egitto, a fabbricare tappeti o palloni in Pakistan, scarpe in Indonesia, a condurre dei ciclo-taxi in India, nella industria della seta in Thailandia, come sommozzatori in apnea per la pesca nelle Filippine, facchini nei budelli minerari della Colombia, tagliatori di canna nella Repubblica Dominicana, domestici dei cercatori d’oro in Perù, a fabbricare fiammiferi o fuochi d’artificio in Salvador o abiti da sposa per l’esportazione in Honduras…
Tutti sopportano terribili condizioni di lavoro: niente diritti né protezione sociale, ingaggio senza contratto e precarietà, remunerazione minima e aleatoria, gravosità e produttività eccessiva, riposo insufficiente, insalubrità, abusi e sanzioni…, e i loro effetti distruttivi: malnutrizione, incidenti di lavoro, malattie professionali e disturbi psicologici, contaminazioni per inquinamento atmosferico, violenze esercitate dai datori di lavoro, il crimine organizzato, talvolta anche la polizia…
Alcune stime valutano che ci sarebbero oggi 27 milioni di schiavi (di ogni età) nel mondo. E questi tipi di lavoro che comportano, oltre al carattere forzato, anche un controllo rafforzato, la limitazione dei movimenti ed una violenza fisica o mentale, sono presenti in tutti i continenti, ivi compresi i paesi del Nord industrializzato.





Due milioni di bambini coinvolti
Il carattere di schiavitù diventa ancora più chiaro nel caso in cui i bambini sono sottoposti a lavoro forzato o utilizzati per la prostituzione o la produzione di materiale pornografico, il traffico di droga, il commercio di organi o nei conflitti armati. L’OIT valuta che siano 8,4 milioni ad esercitare una di queste “peggiori forme di lavoro”, definite dalla Convenzione n. 182 del 1999. Evidentemente la stima è eccessivamente bassa e poco realistica. Queste cifre sono il risultato di una serie di inchieste puntuali e parziali, realizzate secondo criteri di definizione restrittivi. Il lavoro forzato avrebbe coinvolto 5,7 milioni di bambini nel 2000, di cui 5,5 in Asia –  a causa della carenza di dati relativi al resto del pianeta e delle difficoltà di estrapolazione statistica. Esso è qualche volta istituzionalizzato in certe forme moderne di schiavitù (soprattutto per la restituzione dei debiti).
Dei bambini sono tenuti prigionieri e costretti al lavoro dal crimine organizzato in molti altri luoghi (ivi compresi – lo ripetiamo – i paesi ricchi del Nord): piantagioni, filande, cantieri… Inoltre 1,8 milioni di minori (tra cui più di un milione di bambine) sarebbero vittime di sfruttamento sessuale, detto talvolta “turistico”.
Circa 100.000 bambini sarebbero avviati alla prostituzione o sfruttati da reti pedofile di pornografia infantile negli Stati Uniti, per una cifra di affari annuale di circa 3 miliardi di dollari. Ma le informazioni diffuse dalle ONG specializzate di grandi paesi del Sud (Indonesia, Nigeria…) o di altri meno popolati ma molto drammaticamente colpiti (Thailandia, Repubblica Dominicana…) fanno pensare che queste stime globali (e la loro ripartizione geografica: 750.000 in America Latina, 590.000 in Asia e 420.000 al Nord) siano largamente sottostimate.
Secondo l’OIT, i traffici coinvolgerebbero oggi 1,2 milioni di bambini nel mondo. Molti di coloro che sono costretti ad una delle peggiori forme di lavoro sono oggetto di traffici (droga, organi, adozioni illegali, matrimoni forzati…), senza peraltro essere contabilizzati nelle statistiche dello sfruttamento. Questi traffici delineano le nuove rotte internazionali della schiavitù di oggi. Esse sono per lo più orientate dalle periferie del sistema mondiale verso i Centri (dall’America latina verso gli Stati Uniti, dall’Est verso l’Europa occidentale, dall’Asia verso il Giappone); ma non esclusivamente. Vi sono flussi importanti anche nei paesi del sud: dai paesi poveri dell’Asia del sud-est (Bangladesh, Filippine…) verso i ricchi emirati del Golfo Persico, dal Nepal verso l’India, dalla Birmania e dal Laos verso la Thailandia, dai piccoli stati dell’Africa occidentale o centrale verso la Nigeria, dall’Africa australe verso l’Africa del sud, dall’America centrale o caraibica verso il Messico…