Analisi - Milioni di persone, senza nome né volto, oggetti o strumenti, carne da bastone che lavora gratis, sono stati da molto tempo confinati nell’ultima casella della coscienza dei benpensanti. Gli uomini nascono liberi e con uguali diritti? Chimera: gli uomini nascono, tutto il resto non è che lotta e sacrificio




Afique Asie, luglio-agosto 2009


Tratta e schiavitù, l’umanità porta in sé quell’infamia che è la schiavitù


Milioni di persone, senza nome né volto, oggetti o strumenti, carne da bastone che lavora gratis, sono stati da molto tempo confinati nell’ultima casella della coscienza dei benpensanti. Gli uomini nascono liberi e con uguali diritti? Chimera: gli uomini nascono, tutto il resto non è che lotta e sacrificio.
Descrivere la schiavitù – la cui pesante eredità provoca ancora danni – raccontare le terribili tappe di questa tragedia (cattura, formazione dei convogli, sradicamento, imbarco, viaggio, sbarco, vendita, assoggettamento, umiliazioni), evocare le incontenibili rivolte contro tali condizioni inumane sono gesti necessari che giungono peraltro troppo tardi. Essi costituiscono un dovere della memoria, un insegnamento ed una messa in guardia contro lo sfruttamento dell’uomo che, ancor oggi, ignora la sofferenza degli uomini.
Nelle pagine che seguono, abbiamo tentato ci capire il perché ed il come, e di individuare i beneficiari di questa ignominia. Marcel Dorigny è stato la nostra guida, egli che padroneggia i parametri qualitativi e quantitativi di questa tragedia. Mettendo a confronto le diverse forme di schiavitù, comparando i comportamenti dei vari luoghi e nelle varie circostanze, occorre individuare i caratteri della tratta coloniale, parlare delle sue colossali poste economiche e finanziarie.
Gli abolizionisti? Per la maggior parte dei colonialisti che hanno anticipato i tempi,  nota giustamente.  Una rassegna di opere che trattano l’argomento sotto diversi angoli di visuale ed un cenno alle moderne pratiche di assoggettamento completano il dossier.
E tuttavia, per profonda che sia la tragedia, l’anima umana riesce ad esservi presente ed a trascendere la sua condizione. E’ stata soprattutto la musica nata da questa sofferenza a scuotere per prima l’indifferenza degli uomini. Sono i suoi ritmi seducenti che da un secolo hanno conquistato il mondo, affermando con fragore che gli schiavi erano non solo uomini, ma anche dei grandi artisti.


Tratta e schiavitù transatlantica. Nel corso della sua ricca carriera universitaria, Marcel Dorigny ha acquisito una profonda conoscenza della schiavitù, che gli ha permesso di esplorare e decifrare questo mondo complesso e gerarchizzato. La semplicità e la chiarezza della sua presentazione tocca il cuore di questo dramma plurisecolare, del quale rivela la terribile logica



La schiavitù, un implacabile meccanismo

Intervista a cura di Augusta Conchiglia, Majed Nehmé e Habib Tawa


Nel corso del lungo colloquio che ci ha accordato, Marcel Dorigny smonta il meccanismo che ha precipitato milioni di Africani in un viaggio senza ritorno verso l’altra costa dell’Atlantico. Molti sono morti in viaggio, gli altri sono sopravvissuti, sprofondati in una vita di asservimento e di miseria, morale e materiale, punteggiata talvolta da rivolte. Quali erano le motivazioni degli schiavisti? Le loro giustificazioni morali? A quali bisogni economici rispondeva la tratta? Quali i parametri finanziari? Come era organizzata la società della schiavitù? Quale la risposta degli schiavi all’oppressione? Quali le prospettive degli abolizionisti? In questa intervista si affrontano tutte queste questioni. Ma per meglio descrivere la schiavitù, Marcel Dorigny ha al tempo stesso illustrato ciò che era e non poteva essere, tanto nel Nuovo Mondo che ha contribuito a edificare, che nelle altre società.  Per contro, ci ha rivelato la spaventosa singolarità della schiavitù nelle Americhe, i bisogni che ne hanno sollecitato la nascita e i cambiamenti che ha provocato e subìto. Senza pretendere di aver chiarito tutto, certamente si tratta di un grande contributo per la comprensione di questo fenomeno. Esso segna ancora l’insieme delle società americane ed africane, dal momento che il surplus che esso ha loro consentito di accumulare ha portato l’Europa al culmine della sua potenza



D: Perché gli Europei hanno importato schiavi africani nelle colonie d’ America e dell’oceano indiano e non in Europa?
No, i Portoghesi hanno cominciato la tratta negriera proprio nel loro paese. Hanno importato schiavi africani in Portogallo, molto prima della scoperta dell’America. Cercavano allora un passaggio per l’India, si istallarono a Madera, alle Canarie, Capo Verde e Sao Tomé e di là avviarono le tratta. Impiegavano gli schiavi africani nei lavori domestici in Portogallo, soprattutto a Lisbona e nelle città, ma anche in quella che era ancora la Spagna mussulmana. Si era alla fine della Riconquista. A Cadice, a Siviglia e fino a Granada, schiavi africani erano importati e venduti da mercanti portoghesi. Dunque la riduzione in schiavitù degli  Africani è esistita nell’Europa del Sud. Più tardi si ritroveranno schiavi africani in Sicilia, a Cipro e nel Mediterraneo orientale per lungo tempo.
Vi erano anche schiavi al servizio dei Portoghesi nelle loro prime colonie, quelle isole al largo dell’Africa che abbiamo prima citato. In Portogallo gli schiavi erano in maggioranza donne. Le si ritrovano come domestiche di casa e nei lavori agricoli. Alla fine del XV° secolo, il 30% della popolazione di Lisbona era nera, da qui quel fondo meticcio che persiste fino ai giorni nostri.
Niente schiavi nella Francia metropolitana.  Nel resto d’Europa, la schiavitù era vietata nelle due grandi nazioni marinare, l’Inghilterra e la Francia. Per la legge la schiavitù non era legale e non vi erano schiavi in questi due paesi. La dottrina della monarchia francese era: “La terra di Francia rende liberi”.  Di conseguenza, qualsiasi schiavo mettesse piede in terra di Francia doveva diventare libero. Ciò produceva  nel XV secolo - quando la Francia aveva molti schiavi nelle sue colonie e molti coloni, soprattutto a Santo Domingo – una situazione quasi ingestibile quando i padroni venivano nella metropoli per i loro affari. Essi vivevano tra le colonie e la Francia e frequentavano particolari hotel a Bordeaux, La Rochelle, Paris o a Versailles. Si trattava di coloni non residenti, con degli intendenti  che curavano i loro interessi nelle colonie. Arrivavano coi loro servitori che erano schiavi. Ma dal momento in cui gli schiavi mettevano piede in Francia diventavano dei domestici e la legge consentiva loro di abbandonare i loro padroni senza che niente potesse trattenerli. Numerose procedura giudiziarie intentate da coloni per recuperare gli schiavi che se ne erano andati si sono risolte a svantaggio dei proprietari. A Parigi in particolare, la cui giurisdizione copriva i due terzi del territorio francese, la schiavitù non è mai stata riconosciuta. A Bordeaux se ne poteva discutere. L’influenza degli armatori e dei negrieri, che avevano relazioni con le colonie, era notevole e i padroni vi trovavano maggiore comprensione.
Lasciando la Francia, questi domestici ritornavano ad essere schiavi . Quelli che erano scappati dai loro padroni diventavano artigiani o domestici, si sposavano e si stabilivano in Francia. Questa importante presenza di diverse migliaia di Neri nel XV° secolo era composta per la maggior parte di schiavi nati nelle colonie, in minima parte da gente che veniva direttamente dall’Africa. Devono aggiungersi anche dei Neri liberi venuti dalle colonie. Conseguenza: nel XVIII° secolo si forma un’ampia giurisprudenza che tenta di limitare e poi di vietare l’ingresso di gente di colore (Neri o mulatti) in Francia. L’ordinanza reale del 1781 stabilisce soprattutto che i padroni devono lasciare i loro schiavi in deposito al porto d’arrivo, pagando una pensione per il loro soggiorno. In pratica questo non corrisponde alle ragioni per le quali i padroni li portavano con loro (disporre di servitù). E dunque questo tentativo non ha avuto successo. Anche Napoleone ha ripreso questa politica, ma anche lui con scarsi risultati.

Cosa è avvenuto degli schiavi della regione mediterranea?
La stessa domanda può essere posta a proposito degli schiavi dell’impero arabo. Milioni di schiavi africani sono stati venduti nell’impero arabo e non ne è rimasta alcuna discendenza. Bisogna sapere che esiste un forte meticciato in Portogallo  che non proviene dalle colonie del XX secolo, ma dalla lontana pratica della schiavitù. Una parte della popolazione portoghese ha una eredità africana assolutamente percettibile, che non esiste nel resto d’Europa. Così è ancora oggi. Ex cittadini di Capo Verde, del Mozambico, dell’Angola o del Brasile, ex terre di schiavitù portoghese, continuano ad emigrare in Portogallo. Un meticciato è esistito, ma niente a paragone della popolazione delle Antille. Altrove, nel Mediterraneo, gli schiavi si sono diluiti nella società.

Esiste un rapporto tra questa presenza africana e le teste di Neri presenti sullo stemma della Corsica?
E’ una questione ricorrente. Io ne ignoro la ragione. Il Mediterraneo orientale ha conosciuto la schiavitù sia con gli Arabi, sia con gli Africani venduti dai Portoghesi, i Veneziani o i Genovesi. In ogni caso l’immagine di un Nero non significa necessariamente che debba trattarsi di uno schiavo. Per quello che ne so io, non c’è stata schiavitù in Corsica. Aggiungo che Napoleone ha deportato diverse centinaia di Neri rivoltosi da Santo Domingo e da Guadalupe proprio in quest’isola, dove erano condannati agli arresti domiciliari. Si ignora cosa si stato di loro. Hanno dimorato sull’isola e vi hanno eseguito lavori forzati assai duri. Ma non v’è traccia di una loro discendenza.

Alcuni intellettuali occidentali ricordano la schiavitù che vi è stata nei paesi arabi e mussulmani e che talora sopravvive sia pure in forme nascoste. Nella sua intervista a Le Monde, lei afferma che non è comparabile alla schiavitù transatlantica. E’ l’aspetto quasi industriale di quest’ultima a distinguerla?

Non si tratta di graduare le diverse forme di tratta sulla base di un giudizio di valore. Non disponiamo di cifre affidabili sulla lunga durata per misurare la tratta araba. Non ci sono gli stessi archivi che esistono in Inghilterra, in Francia, in Spagna o in Portogallo, dove la tratta negriera è stata registrata, contabilizzata, fiscalizzata, così che è possibile misurarla in modo assai preciso, anno per anno. Per la tratta araba non disponiamo di cifre analoghe;  disponiamo in qualche caso di statistiche relative ad una decina o una ventina di anni. Moltiplicare questi dati per il numero di anni in cui si è svolta la tratta non avrebbe senso. Non sarebbe rappresentativo. Da qui la difficoltà di misurare. Inoltre questa tratta è durata assai più a lungo. E’ cominciata nel V secolo ed è durata almeno fino alla fine del XIX secolo o agli inizi del XX, su grande scala. Senza voler essere polemici, essa esiste ancora oggi in varie forme. Continua in proporzioni modeste in Mauritania, in Sudan e dalle parti dell’Arabia Saudita. E’ una tratta che si sviluppa lungo un arco di quattordici secoli.

Caratteri peculiari della tratta atlantica
Niente a che vedere con la tratta atlantica, la cui fase di massima intensità è concentrata in un secolo e mezzo, tra la fine del XVII secolo e i primi decenni del XIX.
Comincia certamente prima (intorno al 1503) e finisce più tardi (nel 1863), ma la sua massima intensità si concentra in un periodo più breve. Nel corso di 120 o 130 anni il 90% degli schiavi d’Africa vengono deportati, di qui l’effetto di massa che è stato prodotto: tra il 1763 ed il 1793, la tratta atlantica ha trasportato tra 60.000 e 90.000 prigionieri ogni anno; il punto culminante si raggiunge nel 1829 con più di 100.000 prigionieri trasportati in un solo anno. Nessun’altra tratta negriera ha raggiunto simili livelli. Vi è anche la destinazione e l’uso di questi schiavi, assorbiti per la maggior parte nella monocoltura della canna da zucchero. Esiste un legame tra l’espansione della coltura della canna da zucchero e l’arrivo di un gran numero di schiavi, a Santo Domingo e Cuba soprattutto.  Senza canna da zucchero, l’uso degli schiavi sarebbe stato molto più limitato, sia per ciò che concerne i lavori domestici, sia per quanto riguarda la coltura del caffè o dell’indigo.
Nel mondo arabo gli schiavi erano destinati ai lavori domestici, agli harem, ciò che propone la questione della sparizione della loro discendenza, o erano trasformati in eunuchi. Il solo esempio che si avvicina al caso americano è rintracciabile in epoca abbasside, quando gli schiavi neri del Basso Iraq, gli Zenj, che erano utilizzati per la coltura di vasti latifondi, si sono ribellati nel IX secolo . La loro grande rivolta ha tenuto impegnati gli eserciti. Sono gli Spartaco del mondo arabo.
Oltre questo caso, non si sa molto, queste popolazioni erano assai disperse. Gli specialisti del mondo arabo affermano che le relazioni tra schiavi neri e donne arabe erano assolutamente vietate. Ma l’esistenza del divieto significa che esse davvero non vi erano? Anche il Codice nero (che disciplinava lo statuto degli schiavi nell’America francese) vietava ogni relazione tra padroni e donne schiave, tuttavia c’erano molti mulatti! In senso inverso, gli uomini arabi potevano disporre a loro piacimento delle donne nera che possedevano. Una situazione simile esisteva nelle Americhe. Le concubine nere dei coloni bianchi erano esibite con ostentazione, perfino in chiesa. Questa esposizione manifestava la potenza dei padroni. Al contrario una Bianca che avesse avuto dei rapporti con un Nero avrebbe creato scandalo. Era ostracizzata e generalmente espulsa dalla colonia, anche se la cosa non era formalmente vietata. Gli Spagnoli sembrano essere stati più tolleranti da questo punto di vista.

Come si è conclusa la rivolta degli Zenj?
Schiacciata nel sangue come tutte le rivolte di questa specie. Storicamente la sola rivolta di schiavi che ha avuto successo è stata quella di Santo Domingo tra il 1791 ed il 1803.

Perché i mercanti di schiavi europei non si sono riforniti anche nel Maghreb? Non hanno catturato anche schiavi originari di questa regione?
Prima di tutto perché era soprattutto la pirateria barbaresca che catturava gli schiavi europei. Il culmine della sua attività si situa nel XV secolo. Ma è una situazione incomparabile con la tratta negriera. Quando nel 1830 i Francesi sono entrati in Algeri, influenzati dalla propaganda antialgerina, si aspettavano di trovare migliaia di schiavi europei. Ve ne erano appena 200. Occorre inoltre osservare che gli schiavi che si trovavano nell’Africa del Nord non erano nella stessa situazione dei neri delle Americhe, per i quali il viaggio era senza ritorno. Sono sempre esistite delle vie di comunicazione tra le due rive del Mediterraneo, che permettevano agli uomini e alle informazioni di circolare. Gli schiavi europei potevano essere riscattati o scambiati.

Il divieto di asservire gli Indiani di America è stata la conseguenza della campagna condotta dal dominicano Bartolomeo de Las Casas contro la loro riduzione in schiavitù. Temeva di vederli sparire. Malauguratamente, per rimediare alla carenza di mano d’opera , furono strappati dei Neri dall’Africa. Oltre alle ragioni morali sostenute da Las Casas, vi sono altri fattori alla base di questo divieto?

Bisogna ricordare che nelle Grandi Antille (Cuba, Santo Domingo, Porto Rico e Giamaica) la popolazione amerindiana era stata totalmente sterminata nel corso dei trent’anni seguiti all’arrivo degli Spagnoli. Gli Arawak ed i Taino erano completamente spariti. Il ripopolamento  non si poteva fare dunque se non dall’esterno. Un tentativo di ripopolamento con i Bianchi non era riuscito, la schiavitù dei Neri era dunque l’unica soluzione per attuarlo, indipendentemente da ogni considerazione di carattere morale. Bartolomeo de Las Casas, che era stato vescovo del Chiapas, sul continente, conosceva la situazione delle isole. Deciso ad arrestare la distruzione degli Amerindiani, chiese l’appoggio del  Papa per farne riconoscere il carattere umano.  Avendo guadagnato il favore del papa, ci si convince dunque ch’essi avevano un’anima. Ma riconoscere il carattere umano degli Indiani non significa disconoscere quella dei Neri, perché nella tradizione biblica questi ultimi sono i discendenti di Cam, il terzo figlio di Noé. Ci si trova di fronte ad una assurdità dal punto di vista teologico: la possibilità di ridurre in schiavitù i secondi e non i primi. Per il seguito, gli Indiani non furono più ridotti in schiavitù nell’America cattolica, ciò che non impedirà di metterli al lavoro forzato (soprattutto nelle miniere) e di imporre loro uno statuto di inferiorità giuridica. Sarà diversa la situazione nell’America protestante. Ci sono stati degli schiavi indiani negli Stati Uniti, sebbene in misura inferiore rispetto ai neri.
L’abate Gregoire ha dimostrato, alla fine del XVIII secolo, che Las Casas non fu responsabile della riduzione in schiavitù dei Neri per sostituzione.  Oggi siamo più prudenti, perché è stato dimostrato ch’egli s'era fatto garante della spedizione di due convogli di schiavi verso l’America. Solo successivamente, resosi conto dei risultati catastrofici, cambierà parere. Da parte sua, la Chiesa ha sostenuto la tratta, col pretesto ch’essa consentiva la conversione di pagani. I padroni in effetti erano tenuti a convertire i loro schiavi.

Neri e Amerindiani

Ciononostante la situazione degli Indiani, per grandi linee, rassomigliava per certi aspetti a quella degli schiavi neri, che erano soprattutto presenti nelle regioni del litorale. Il lavoro forzato nelle miniere, la mita (lavoro obbligatorio periodico, ndt), e le diverse corvè, le enconmiende (nel lavoro agricolo, ndt), assoggettavano gli indiani a compiti gravosi. Così stando le cose, vi erano però delle serie differenze di carattere giuridico tra lo statuto di schiavo e quello di Indiano. A questi ultimi era riconosciuto il diritto di proprietà, quello di ereditare, potevano testimoniare in tribunale ecc, anche se restavano legati alla terra. Al contrario gli schiavi erano considerati come merci, del tutto impossidenti, perfino del diritto di disporre dei propri figli o di testimoniare. In pratica i Neri e gli Indiani erano utilizzati a servizio della colonizzazione secondo una ripartizione geografica complementare che si è perpetuata. Per fare un esempio, in Colombia, il porto di Cartagena è tipicamente antillano con una forte popolazione nera, mentre gli Indiani vivono nelle terre dell’interno.
Anche tra gli schiavi vigevano statuti differenti, a seconda ch’essi fossero domestici o che lavorassero la terra o che disponessero di particolari attitudini (artigiani o specialisti di una particolare attività). Questi ultimi casi riguardavano per lo più dei discendenti di schiavi. Quegli schiavi creoli, nati nelle piantagioni e dunque di seconda generazione, si distinguevano dai bossai, schiavi di prima generazione.
L’Autobiografia di uno schiavo, di Hannah Crafts, tradotta dall’inglese e pubblicata in francese da Payot nel 2003, è rivelatrice. Essa è molto differente dagli altri racconti sulla vita degli schiavi che conosciamo. Questi, pubblicati dagli abolizionisti per sostenere la loro causa, sono spesso stati sollecitati, riscritti e rifiniti in funzione dei loro obiettivi, e talvolta addirittura scritti da Bianchi, come "La capanna dello zio Tom". Al contrario il testo di Hannah Crafts, il cui manoscritto è datato inizio 1850, è stato scoperto per caso nel 2001. Lei l’aveva scritto per sé stessa e non ha mai cercato di pubblicarlo. E’ il solo libro del quale abbiamo il manoscritto originale, coi suoi errori di ortografia, che testimonia, dal di dentro e in modo genuino, della vita degli schiavi e delle differenze tra loro. Hannah Crafts vi racconta per esempio del disprezzo che certi schiavi che occupavano posizioni più elevate nutrivano per quelli incaricati di compiti più umili. Racconta in particolare l’orrore che ha provato quando i suoi padroni, per punirla, l’hanno rimandata tra questi lavoratori forzati.

Quale è stato l’effetto economico del lavoro degli schiavi sull’arricchimento delle potenze occidentali e nella formazione del capitalismo industriale?
La tesi classica di ispirazione marxista di Eric Williams, Capitalismo e schiavitù, apparso nel 1964 e tradotto in francese per la prima volta nel 1968, afferma che l’accumulazione di capitale assicurata dalla tratta ed il lavoro degli schiavi hanno permesso il decollo dell’economia capitalista. Essa è però molto contestata dagli storici che hanno studiato in dettaglio il circuito del denaro così accumulato. Essi hanno constatato che questo denaro è stato reinvestito in attività futili, senza  rendimento economico, o almeno in settori diversi da quelli che sono stati il motore della nascente rivoluzione industriale alla fine del  XVIII secolo e all’inizio del XIX: castelli, mobili, gioielli, terre, dunque mai nell’industrializzazione in Europa.
In realtà questi storici non hanno mai preso in considerazione i circuiti secondari indotti da queste attività, che hanno tuttavia largamente contribuito allo sviluppo manifatturiero e finanziario in Europa

Il circuito del denaro
Bisogna ricordare che i negrieri hanno acquistato gli schiavi dai Re africani dando loro in cambio dei prodotti manifatturieri e non moneta metallica. Queste merci sono state fabbricate in Europa e delle imprese hanno lavorato per produrle. Si trattava di articoli di buona qualità, a differenza della vulgata tradizionale sui fondi di bottiglia. I Re africani erano esigenti. Vi sono stati casi in cui se la sono presa coi mercanti europei che li avevano ingannati al loro successivo passaggio. Questi prodotti erano destinati al consumo, e dunque nessuna ricchezza si è accumulata sul versante africano. Giacché questo scambio non ha dato luogo ad uno sviluppo endogeno in Africa, la cessazione della tratta ha impoverito e disorganizzato gli Stati africani che vivevano di essa. Lo stesso fenomeno si è visto in Spagna. Avendo importato beni dalle loro colonie d’America, soprattutto immense quantità di oro e di argento, senza utilizzarle per investimenti in mezzi di produzione, ma al contrario per acquistare beni provenienti dall’Europa del Nord (Paesi Bassi, Inghilterra), alla fine del processo anche gli Spagnoli si sono trovati impoveriti.

Lei ha accennato al ruolo dei sovrani africani. Quale responsabilità attribuisce a quei Re che rifornivano i trafficanti della tratta negriera di carne umana?
Effettivamente le razzie direttamente realizzate dai trafficanti europei sono state limitate. Hanno procurato meno del 5% degli schiavi importati. Per conservare il controllo sul loro territorio, i capi africani non volevano che gli Europei penetrassero nel loro continente e ne bloccavano l’accesso. Ci sono stati dei Re africani che hanno razziato altre popolazioni per conto dei trafficanti europei. Non vi è stata solidarietà africana, così come non v’è stata solidarietà europea, come dimostrano tutte le guerre che hanno sconvolto l’Europa per secoli. Il colore della pelle non era un motivo sufficiente per fermare la razzia ed il commercio dei prigionieri. I Re africani non vendevano i propri sudditi, ma gli abitanti degli Stati rivali o concorrenti.

Come è stata finanziata la tratta e chi sono stati i principali finanziatori?
Si trovano numerose tracce negli archivi. Preparare una spedizione di tratta negriera costava caro e dunque c’era bisogno di grossi investimenti. Le somme necessarie erano raccolte da società in accomandita che riunivano diverse decine, addirittura centinaia, di investitori che ne erano azionari, ma che erano esclusi da ogni carica sociale. Una società in accomandita poteva essere costituita, secondo i casi, per una o più spedizioni. Bisognava procurarsi le navi, reclutare gli equipaggi, comprare i prodotti destinati all’Africa ed attendere che si completasse la triangolazione per realizzare i profitti. I rischi propri di tali spedizioni hanno stimolato la creazione di società di assicurazioni specializzate nella copertura dell’insieme di queste operazioni. Le principali piazze che finanziavano la tratta erano Parigi, Londra e Amsterdam. Quando i nuovi schiavi giungevano nelle colonie, i proprietari, che ne avevano bisogno per i lavori nelle piantagioni, spesso non disponevano delle somme necessarie per l’acquisto. Erano dunque costretti a indebitarsi e promettere il pagamento alla raccolta. E siccome i proprietari delle colonie non erano giuridicamente passibili di pignoramento e i coloni erano spesso molto spendaccioni, il rimborso di questi debiti creava spesso dei problemi tra trafficanti e coloni.

Profitto e abolizionismo
Al termine di questo circuito triangolare nel quale dei prodotti europei erano forniti ai capi africani in cambio degli schiavi, poi questi schiavi erano ceduti ai coloni in cambio della loro produzione agricola che, a sua volta, approvvigionava l’Europa, si realizzava un valore aggiunto a profitto dell’Europa. Al cuore del sistema, le assicurazioni marittime ne erano i principali beneficiari. Questo è il caso in particolare dei Lloyd’s di Londra.

Può spiegarci le motivazioni degli abolizionisti e quali erano gli interessi finanziari in gioco?

Gli abolizionisti sono dei “colonialisti” ante litteram. Essi capivano che le colonie d’America sarebbero presto o tardi diventate indipendenti, e la schiavitù rifiutata a più o meno lungo termine. Bisognava dunque trovare delle nuove colonie da sfruttare con dei lavoratori già su piazza. Inoltre la popolazione dell’Africa non era illimitata. Se si voleva evitare il completo spopolamento, bisognava fermare la tratta e mutare atteggiamento verso l’Africa. Allora anche gli Africani sarebbero diventati dei consumatori: non erano dopo tutto anche loro uomini come noi? Bisognava dunque preparare la riconversione delle antiche pratiche. E’ in particolare l’ambiente della grande finanza europea e delle assicurazioni marittime che è stato abolizionista, proprio loro che avevano ricavato grandi profitti dalla tratta. Così, per esempio, il caso del banchiere svizzero Etienne Clavière, il creatore dell’assicurazione sulla vita e ministro francese delle Finanze per due volte, nel 1792 e nel 1793. Fu lui uno dei principali fondatori della Società degli amici dei Neri.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo proclamata dalla Rivoluzione francese ha riguardato anche la schiavitù? L’abolizionismo è stati usato a suo tempo come mezzo di pressione, come è oggi l’ideologia politica dei diritti umani?
Al momento della proclamazione dei diritti dell’uomo, Ravarol aveva affermato che si sarebbe potuto ormai mettere i domestici nelle case e che gli schiavi nelle colonie avrebbero potuto “cacciare i padroni, la Dichiarazione dei diritti alla mano”. Mentre, all’opposto, Mirabeau preannunciava ai rappresentanti di Santo Domingo che avevano partecipato al voto sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Voi avete votato la fine della schiavitù nelle vostre terre, a meno che non si sostenga che gli schiavi non sono uomini”.
Per evitare di trovarsi in una simile situazione, si era allora aggiunto un articolo speciale che stabiliva che la Dichiarazione non si applicava alle colonie francesi. Questi due esempi del 17989 mostrano che, a prima vista, la forza della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che affermava al suo articolo 1: “Gli uomini nascono e vivono liberi e con uguali diritti”, era tale da mettere in radicale discussione la legittimità della schiavitù. Per evitare queste conseguenze fu aggiunto un ultimo articolo alla Costituzione, che poneva le colonie al di fuori del suo campo di applicazione. Ciò non di meno resta che la questione della schiavitù è stata pubblicamente affrontata dall’Assemblea nazionale francese. Mantenere la schiavitù avrebbe oramai significato porre le colonie al di fuori del diritto comune ed applicare ad esse un “diritto speciale” assolutamente incompatibile con i Diritti dell’uomo.

Ruolo dell’opinione pubblica
Quanto al ruolo dell’abolizionismo europeo e nordamericano nel processo di abolizione della schiavitù, bisogna insistere sulla sua importanza. Certo – e nessuno oggi può negarlo – le molteplici forme di resistenza degli schiavi contro la loro condizione furono uno dei componenti essenziali della crisi di lunga durata del sistema schiavista; ma nelle metropoli coloniali la diffusione dei temi antischiavisti, poi abolizionisti, influirà in modo determinante sulle decisioni prese dai governi nordamericani con leggi o decreti abolizionisti, divulgando un’ampia informazione sulle reali condizioni della tratta, i suoi orrori e la sua inumanità, ma anche sulla schiavitù stessa e sulle violenze inflitte agli schiavi. In Inghilterra è certo che fin dal 1820 l’opinione pubblica era per la maggior parte ostile alla schiavitù, e non si può negare il contributo dato del movimento abolizionista inglese – di gran lunga il primo in Europa – in questa presa di coscienza. In Francia, se l’abolizionismo fu meno diffuso tra i larghi strati popolari, non di meno è stato un fattore decisivo nel far emergere un’opinione pubblica ostile alla schiavitù. Fu in qualche modo una coscienza morale nella lotta per il riconoscimento dei diritti dell’uomo a tutte le popolazioni delle colonie, qualsiasi fosse il colore della loro pelle.

La schiavitù aveva una funzione sociale. Si può sostenere che essa sopravvive in altre forme nelle società e che vi sono ancora esseri umani super sfruttati come lo erano gli schiavi?

E’ esatto. Il supersfruttamento che si realizza in talune attività e in alcune circostanze si sostituisce alla schiavitù giuridicamente riconosciuta, che sarebbe oggi impossibile, avendo tutti gli Stati firmato la Carta dell’Onu che ha posto la schiavitù fuori legge.

La tratta è partita soprattutto dal Golfo di Guinea, fino all’Angola. Così qualcuno contesta che l’isola di Gorée, in Senegal, sia stato davvero un porto di imbarco degli schiavi. Cosa ne pensa?

Effettivamente il porto di Gorée ha avuto un ruolo secondario per numero di schiavi imbarcati, a paragone con quelli che partivano dal Golfo di Guinea. E’ solo un punto di partenza come tanti altri, ma è diventato un mito turistico amplificato dall’immaginazione di colui che per molto tempo ne è stato il responsabile. Ma è tuttavia un luogo che permette di farsi un’idea di come funzionava la tratta, mentre se andate a Mina in Ghana, o a Ouidah in Benin – per fare due esempi forti tra i grandi punti di partenza degli schiavi – non vi sono, o sono assai poche, le tracce visibili di questa attività. Gorée è diventato così un luogo simbolico dove si sono recati molti visitatori, tra cui il Papa ed il presidente degli Stati Uniti ed io credo che non bisogna sottovalutare i simboli di questa storia per lungo tempo ignorata, addirittura nascosta. Se si pensa che lo “sfruttamento” mediatico di Gorée sia eccessivo, incombe agli storici ristabilire la verità dei fatti e farla conoscere al grande pubblico di visitatori di questo “luogo della memoria”.



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