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 Africa, aprile 2009 - Pibblichiamo l'editoriale apparso sull'ultimo numero di Afrique Asie, tradotto in italiano a cura di ossin






Afrique Asie, aprile 2009 - Editoriale

Africa, oltre i colpi di Stato

Si pensava che i paesi africani si fossero liberati dai continui colpi di Stato che tante volte li hanno destabilizzati e che hanno vanificato le aspirazioni dei popoli ad una vera vita democratica. I quattro colpi di Stato verificatisi in meno di un anno in Mauritania, in Guinea Conakry, in Guinea Bissau ed in Madagascar smentiscono questa tesi. Che l’Unione Africana abbia solennemente stabilito nel suo atto costitutivo “la condanna ed il ripudio dei cambiamenti incostituzionali dei governi” non ha dissuaso i putschisti dall’agire, portando sempre a pretesto “l’interesse” nazionale o la pretesa salvezza di una “patria in pericolo”!
Sicuramente i quattro casi non si somigliano. Pacifica presa del potere da parte dei militari dopo la morte del presidente Conté in Guinea; rovesciamento del Capo di Stato democraticamente eletto in Mauritania da parte di una Giunta militare nel rispetto del più classico dei copioni; assassinio del presidente e del capo di stato maggiore in Guinea Bissau – dove peraltro la successione si è realizzata in conformità della legge -; “rivoluzione arancione” in Madagascar con la complicità dell’esercito e dell’Alta Corte Costituzionale. In ognuno di questi casi la questione etnica non è stata determinante. In Madagascar il conflitto è scoppiato tra rivali della stessa origine, ed in Guinea-Bissau, dove pure il fattore etnico è all’origine di un’antica tensione tra il capo di stato maggiore ed il presidente, non ne è stata la causa. Ad eccezione della Guinea Conakry, dove le elezioni sono state sistematicamente contestate, gli altri paesi avevano conosciuto, sia pure in grado diverso, una normalizzazione del processo “democratico”, con elezioni i cui risultati erano stati riconosciuti da tutti. Ciononostante la rappresentanza democratica non è stata capace di costituire dei contro-poteri sufficienti a garantire il funzionamento delle istituzioni. Tanto più che la sempre maggiore concentrazione del potere nella mani del presidente, evidente in Guinea Conakry o in Madagascar,  ha di fatto allontanato dal gioco politico sia l’opposizione che la società civile. E’ contro questo monopolio del potere che è scoppiata la rivolta che si è poi estesa a macchia d’olio.
Ma la Storia, soprattutto in Madagascar, rischia di ripetersi: l’ex oppositore diventato capo del paese non gode dell’unanimità dei consensi; un’altra rivoluzione di strada, orchestrata dai partigiani del presidente deposto, si profila all’orizzonte.
Al di là di tutte questi fatti, la ragione profonda che rende possibili questi colpi di stato sta nella debolezza dello Stato stesso. Ciò che si traduce spesso nella perdita di legittimità dei poteri africani in carica, incapaci di  garantire nemmeno la sicurezza alimentare dei loro popoli. Peggio ancora, la debolezza cronica di questi Stati ha in sé i germi del loro crollo, con degli eserciti frustrati, mal pagati, e strumentalizzati da un potere antidemocratico ed una burocrazia lei stessa in conflitto con la società civile. Per essere completi bisogna aggiungere a tutte queste ragioni il fattore straniero. Un inserimento mal riuscito nella mondializzazione, dalle ingerenze straniere che puntano alla destabilizzazione – anche attraverso i programmi del FMI – fino all’intervento militare puro e semplice. Da questo punto di vista, le potenze occidentali che condannano  questi colpi di Stato in Africa ne guadagnerebbero in credibilità se essi stessi rispettassero quella legalità internazionale che sbeffeggiano allegramente in Iraq, in Palestina, in Afganistan, nei Balcani e nelle ex Repubbliche sovietiche, partecipando alla loro destabilizzazione e incoraggiando delle rivoluzioni “arancioni” che non hanno affatto generato maggiore democrazia.