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Analisi, dicembre 2014 - l’odierna guerra contro Daech non può essere vinta solo con gli attacchi aerei e occorrerà che truppe di terra, quelle dell’Iraq e della Siria aiutate dai loro alleati, vadano a distruggerlo nei suoi santuari. In questa guerra, la Siria come l’Iran sono indispensabili, e occorrerà bene che gli Stati Uniti ne convengano se davvero vogliono venirne a capo


 

Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), 3 dicembre 2014 (trad. ossin)


Rapporti di forza militari in Medio Oriente

Colonnello Alain Corvez (*)


L’arma nucleare, la cui prima utilizzazione da parte degli Stati uniti nell’agosto 1945, a Hiroshima e Nagasaki, ha mostrato i suoi effetti devastatori, provocando 250.000 vittime nonostante che la potenza dei due ordigni fosse di soli 15 chilotoni, ha oramai raggiunto un livello di potenza moltiplicato per più di 1000, che potrebbe portare alla distruzione del pianeta, se qualche detentore folle decidesse di usarla. Da quando anche l’Unione Sovietica è riuscita a fabbricarla nel 1949, è diventato impossibile per gli unici due detentori di farvi ricorso, per evitare la mutua distruzione che le rappresaglie automatiche avrebbero scatenato.

E’ nato così l’equilibrio del terrore, che mantiene ancora oggi la sua fredda esigenza, quando diversi altri Stati hanno oramai avuto accesso all’arma fatale, ufficialmente o ufficiosamente (9 Stati ne sono ad oggi detentori). Ciò perché le nazioni hanno presto compreso il ruolo equilibratore dell’atomo che rende invulnerabile qualsiasi detentore della bomba, qualunque siano le sue dimensioni e la sua potenza, dissuadendo ogni potenziale nemico dall’attaccarlo nei suoi interessi vitali.

La sovranità nazionale ai giorni nostri non può essere totale senza il possesso dell’arma fatale ed è per questo che il generale De Gaulle, che la poneva al primo posto nelle priorità della Francia, è, con una tenace pressione di tutte le energie del paese, riuscito a costruire la forza di attacco francese, quando tanti uccelli del malaugurio, in Francia e all’estero, ripetevano che non vi saremmo riusciti e facevano di tutto perché non ci riuscissimo.

Questo preambolo sulle capacità equilibratrici dell’atomo, che permette ai piccoli di minacciare i più grandi di rappresaglie inaccettabili e dunque di invitarli a lasciarli in pace, mi è sembrato opportuno per spiegare che, se l’arte della guerra è stata sconvolta dall’apparire dell’arma atomica, gli attori militari e paramilitari del “complicato Oriente” hanno capito altrettanto bene questi mutamenti della guerra come mezzo per continuare una politica, talvolta perfino per iniziarla, e che si possono raggiungere i propri obiettivi politici pur senza possedere forze convenzionali potenti e organizzate, battendo il nemico su un terreno dove i suoi carri e i suoi missili siano incapaci di ottenere la vittoria. L’arma atomica è in realtà un’arma solamente di dissuasione, impossibile da usare perché comporterebbe la distruzione anche del detentore, cosicché le potenze detentrici devono perseguire le proprie ambizioni attraverso conflitti portati avanti da loro alleati o subalterni, o attraverso conflitti asimmetrici.

Per esaminare i rapporti di forza in Medio Oriente, non è dunque fondamentale allineare le cifre degli effettivi e dei materiali delle diverse forze militari, ma analizzare chi è in grado di minacciare chi, o di dissuadere di attaccare chi. Non sono più le divisioni blindate ad essere oramai decisive per schiacciare quelle del nemico, ma prima di tutto l’uso politico di azioni mirate, largamente divulgate dai moderni mezzi di comunicazione. Beninteso la forza militare pura resta la base di una vittoria durevole, ma non può veramente esserla se non si accompagni ad accordi politici con gli attori locali e internazionali.

Le guerre asimmetriche, come oramai vengono definite, si moltiplicano in Medio Oriente e, in Asia Centrale, quella dell’Afghanistan non è certo terminata col ritiro delle forze occidentali – soprattutto statunitensi. In tutto il Medio Oriente vi sono delle forze armate statali e milizie più o meno indipendenti, più o meno forti, e le une e le altre hanno intessuto accordi di cooperazione e di aiuto con delle potenze regionali o internazionali.


Israele

L’unico Stato a detenere l’arma nucleare è Israele, fatto noto a tutti anche se Tel Aviv non lo ha mai riconosciuto. Questo fatto, congiunto al possesso di un esercito convenzionale dotato di armamenti moderni, le conferisce una supremazia incontestata, vale a dire che nessun potenziale nemico è oggi in grado di invaderla o distruggerla. Vedremo però che alcune milizie, come la Jihad islamica o gli Hezbollah, dispongono di vettori in grado di provocarle danni importanti anche se non letali, contro i quali la “Cupola di ferro” che lo Stato ebraico ha apprestato non è in grado di proteggerla del tutto. Ma la potenza militare di Israele, protetta in ultima analisi dall’arma nucleare, è senza equivalenti nella regione. Infine, e soprattutto, l’appoggio finanziario e politico indefettibile degli Stati Uniti le assicura una completa libertà di azione nel suo espansionismo territoriale e nella colonizzazione sempre più spinta delle terre palestinesi. La sua politica estera è sempre stata quella di attizzare le rivalità tra gli Arabi, soprattutto tra gli sciiti e i sunniti, e si è visto che in Siria ha dato il suo appoggio agli islamisti in più occasioni: attacchi aerei contro l’esercito siriano per facilitare le azioni dei combattenti anti-governativi, sostegno ai ribelli di Al-Nosra nel Golan, ecc.

Il punto debole di Israele sta prima di tutto nell’ostilità permanente della popolazione palestinese, che l’accusa di aver rubato le sue terre, e nella presenza armata, alla frontiera nord, di Hezbollah, temibile milizia che gli ha fatto perdere più di 160 soldati durante l’ultima incursione nel sud del Libano del 2006. Il paese si trova dunque in un larvato stato di guerra permanente coi vicini libanesi e siriani, e contemporaneamente affronta da qualche mese, specialmente dopo la recente guerra di Gaza, la minaccia di una sollevazione violenta dei Palestinesi. Tutto ciò in un contesto internazionale che gli è sempre più sfavorevole con il recente riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Svezia e della Spagna, il voto favorevole al riconoscimento dell’Assemblea nazionale francese il 2 dicembre scorso, e la manifesta volontà della rappresentante dell’Unione europea che tutti gli Stati dell’Unione facciano lo stesso. Infine il capo dello Stato dell’Africa del Sud, Jacob Zuma, ha appena accusato l’ONU di consentire che un solo Stato sfidi il mondo e ha affermato che la cosa è inaccettabile. Una parte crescente della diaspora ebraica in Europa e negli Stati Uniti rimprovera sempre più spesso la dirigenza israeliana di far di tutto per impedire un accordo di pace coi Palestinesi.

Al contrario, gli islamisti, e soprattutto Daech, non sembrano affatto considerarla come un obiettivo prioritario. Bisogna peraltro ricordare che la Jihad islamica sunnita, braccio armato di Hamas, è quasi esclusivamente sostenuta da Iran e Hezbollah, cui occorre aggiungere il Qatar che finanzia ampiamente Hamas, così come ha finanziato anche gli islamisti che lottano per rovesciare il governo legale siriano. Si può dunque sostenere che, se Israele riuscisse finalmente a raggiungere un accordo coi Palestinesi, ponendo fine ad un conflitto che risale al 1947, in un solo colpo appianerebbe l’ostilità permanente dei Palestinesi – che a breve termine è destinata a creare una situazione insostenibile – e ridurrebbe le tensioni in ambito regionale, soprattutto alle frontiere nord e nord-est. Ma questa prospettiva non sembra prossima.

Infine la sua ostilità nei confronti dell’Iran, accusata di voler costruire la bomba atomica per distruggerla – nonostante che, come ho detto sopra, questa bomba non sarebbe utilizzabile e gli iraniani affermino il contrario, ma lo vedremo poi – costituisce un problema per gli Stati Uniti, che vorrebbero riconoscere all’Iran il posto che gli spetta nel concerto delle nazioni, per equilibrare la situazione in Medio oriente.



 Il Presidente siriano Bachar al-Assad


Siria

La Siria ha perso, durante la guerra del 1967, la gran parte delle alture del Golan che dominano Damasco e che Israele ha annesso nel 1981. Il suo esercito, prima dello scoppio della guerra in corso, contava circa 300.000 soldati, in gran parte coscritti senza grande esperienza militare e il cui equipaggiamento, per lo più proveniente dall’ex blocco sovietico, era vecchio e mal curato. Aveva scarsa esperienza operativa, non avendo più combattuto dopo il 1967. Dal 2011, esso si è trasformato e ammodernato. Ha subito pesanti perdite contro gli jihadisti, giacché dei 200.000 morti ufficiali, quasi 80.000 sono soldati e appartenenti alle forze di polizia. 60.000 sono dei ribelli, soprattutto jihadisti, e il resto vittime civili.

Oramai esso conta di un numero di effettivi tra i 150.000 e i 180.000 uomini, ma esperti e provati dopo quasi quattro anni di guerra e dotati di un equipaggiamento moderno, fornito dagli alleati, soprattutto la Russia. Composto in maggioranza da sunniti, è riuscito a mantenere coesione e disciplina e si è adattato alle nuove forme di combattimento, soprattutto alla guerriglia, sostituendo ai grandi battaglioni delle unità più piccole e più agili. Gli esperti di Hezbollah e dei Guardiani della Rivoluzione hanno fornito consigli. Attualmente sta riguadagnando le posizioni perdute e, grazie ad un incomparabile servizio di intelligence, è capace di sventare le manovre del nemico, perfino di ingannarlo.

Nelle ultime settimane, l’esercito siriano ha guadagnato terreno sul nemico e il governo legale ha consolidato la sua influenza morale in tutto il paese, di fronte alle atrocità perpetrate dagli islamisti, cosicché, anche quelli che fino a quel momento gli si erano opposti, oramai lo sostengono, tanto più che è in corso un processo di riconciliazione nazionale che tende a garantire tutte le tendenze della società nel quadro di una Costituzione democratica. Il governo di Bachar al Assad è dunque oggi più forte di quanto non lo fosse due o tre anni fa. D’altronde i suoi sostegni esteri restano indefettibili, a cominciare dalla Russia, ma anche l’Iran e la Cina, senza dimenticare altri paesi arabi come l’Iraq e l’Algeria, e molti paesi dell’America Latina e dell’Africa. Le perdite e le distruzioni patite dal paese sono enormi e la ricostruzione richiederà degli anni, tanto più che milioni di siriani sono sfollati o rifugiati all’estero.

La Siria è il bersaglio delle monarchie del Golfo, essendo sempre stato uno Stato laico difensore della causa araba, rifugio di centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi e poi iracheni. E’ perciò che è diventata bersaglio dal 2011 delle monarchie del Golfo e della Turchia, oltre che degli Stati Uniti e degli Europei, tra i quali la Francia, i quali, dopo aver fallito il tentativo di costituire una “opposizione laica e democratica” che non esisteva, hanno finito con l’armare gli jihadisti pur raggiungere l’obiettivo (1). Si può oggi dire che le armi e l’equipaggiamento di Daech provengano, in larga parte, da questo sostegno agli islamisti, nel tentativo di rovesciare il governo legale. L’atteggiamento attuale degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato islamico è ambiguo e il ministro russo degli Affari esteri, Serguei Lavrov, ha potuto recentemente affermare di sospettare che Washington continui a considerare Damasco come un obiettivo, senza riconoscerlo apertamente. Al contrario dei turchi Erdogan e Davidoglu, che in fin dei conti si mostrano meno ipocriti.


Hezbollah

In questa tragica guerra Hezbollah ha assicurato un importantissimo soccorso con la sua esperienza di guerra asimmetrica. Non solo specialisti della milizia libanese hanno fatto da consiglieri dell’esercito siriano, ma numerose unità hanno direttamente preso parte ai combattimenti, consentendo di riportare delle vittorie decisive, come nella regione di al-Qusayr nella primavera del 2013, quando Hassan Nasrallah ha ritenuto che questa regione di frontiera della Beqa’ sarebbe stata una minaccia diretta per il Libano, se fosse caduta nelle mani degli islamisti. Impegnò allora per la riconquista diverse migliaia dei suoi soldati d’élite, per ottenere una vittoria che pure costò perdite importanti. Si parla di 700 morti ed altrettanti feriti, compresi dei capi. Analogo impegno venne esercitato nella battaglia di Qalamun, anch’essa alla frontiera col Libano, nel 2013.

Benché la sua struttura e il numero degli effettivi non siano mai stati resi pubblici, si stima che Hezbollah conti su una milizia armata composta di 15-20.000 permanenti, tra cui 5-7.000 soldati esperti, oltre a una riserva di diverse migliaia di uomini, che possono esser rapidamente mobilitati. E’ diventato maestro nella guerra asimmetrica e i suoi successi – nel 2000, costringendo Israele a ritirarsi dal Sud del Libano, e nel 2006, infliggendole pesanti perdite durante l’attacco israeliano al Sud del Libano, nel tentativo di distruggerlo – hanno portato alle stelle il suo prestigio. Il partito politico ha deputati e ministri nel governo di Beirut e coltiva una alleanza mai smentita con la Corrente Patriottica Libera (CPL) del generale Aoun che, secondo i servizi di informazione libanesi, è sostenuta in maggioranza da cristiani.  La guerra siriana ha determinato una convergenza di interessi tra i cristiani di Siria e del Libano e altre comunità che vedono nell’attuale governo di Damasco l’ultimo bastione contro gli islamisti. Ne fanno parte anche molti sunniti, ivi compresi alcuni che prima erano oppositori del governo di Damasco.



Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah


Iran

Occorre adesso parlare dell’Iran, che è un attore insostituibile della regione. Il suo esercito è il più potente del Medio Oriente dopo quello di Israele. Dopo aver subito pesanti perdite durante la guerra contro l’Iraq, è stato ricostituito e conterebbe 600.000 uomini, una parte dei quali coscritti. Vi è poi il corpo dei Pasdaran – o Guardiani della Rivoluzione – che conta circa 120.000 uomini e possiede una organizzazione e materiali suoi propri: ha la sua aviazione, la sua marina e il suo esercito di terra. Ha un proprio bilancio. Possiede materiali moderni, soprattutto droni, sistemi di rilevamento e di telecomunicazione sofisticati e ordigni balistici capaci di colpire a più di 2000 km.

Oggetto di ostracismo e sanzioni economiche e finanziarie da più di trenta anni a causa del suo programma nucleare, l’Iran ha sviluppato una propria industria e una sua agricoltura. I dirigenti affermano che non rinunceranno mai al loro diritto di sviluppare la tecnologia nucleare civile e che una fatwa della Guida suprema impedisce loro di costruire la bomba atomica. Gli Stati Uniti e l’Occidente affermano il contrario. Si tratta dunque di un dialogo tra sordi, ma si dice che Obama, i cui servizi conoscono bene la situazione, voglia raggiungere un accordo in quanto la lotta contro Daech non può essere efficace senza l’Iran.

L’Iran è un solido alleato della Siria e dell’Iraq, dove la democrazia esportata dagli Stati Uniti ha portato naturalmente al potere gli sciiti, maggioranza della popolazione. Ha solidi legami con la Russia e con la Cina, che sanno bene che niente può risolversi in Medio Oriente senza l’Iran.

L’Iran non ha mai attaccato alcun paese vicino da secoli e questo paese dotato di cultura antica e sofisticata ha invitato l’ONU, nel settembre 2013, per la voce del suo attuale presidente Rouhani, a relazioni internazionali moderate, in un contesto nel quale gli Stati dovrebbero difendere i propri interessi con moderazione e col dialogo rispettose delle differenti culture.


Iraq

L’Iraq ha un esercito da ricostruire completamente, lo si è visto quando non è stato capace di resistere alla folgorante avanzata di Daech. Grazie all’abbondante petrolio del suo sottosuolo, ha i mezzi per acquistare i moderni materiali di cui ha vitale bisogno, ma deve anche reimparare a usarli sul campo di battaglia. Si occupano di ciò alcuni “consiglieri” statunitensi, oltre ad altri iraniani, per fare la guerra contro lo Stato Islamico, che sarebbe potuto entrare a Bagdad se non vi fosse stato l’aiuto, in consigli e in uomini, da parte dei Guardiani della Rivoluzione. Il Primo Ministro Haidar al Abadi, succeduto a Nouri al Maliki la cui politica settaria aveva scontentato molte minoranze, soprattutto i sunniti, favorendo l’avvicinamento a Daech di molte tribù, si sforza di governare in modo più consensuale. Ha il sostegno degli Stati Uniti e delle potenze occidentali, soprattutto della Francia, per ricostruire il paese e liberarsi dal flagello islamista. L’Iran gli ha fornito un aiuto militare decisivo. I Curdi beneficiano da tempo di una larga autonomia amministrativa e politica, ma loro interesse è quello di restare in uno Stato unito nel quale possano partecipare al governo. Il futuro del paese dipende dal tempo che sarà necessario per sradicare Daech.


Egitto

L’Egitto dispone di un esercito molto numeroso di circa 450.000 uomini più i riservisti, ripartiti tra un esercito di terra che allinea 3.723 carri armati e lancia missili, un’aviazione con 461 aerei da combattimento e una marina con una dozzina di navi. Esso resta dipendente dagli Stati Uniti che finanziano il suo bilancio con 1,3 miliardi di dollari all’anno. Esso è l’asse forte della società egiziana, come ha dimostrato rovesciando il presidente Morsi nel giugno 2012, appoggiando le rivendicazioni di milioni di Egiziani. Nonostante l’aiuto degli Stati Uniti, finanziario e di formazione, non ha esitato a rivolgersi recentemente alla Russia per acquistare armamenti, a condizioni senza dubbio assai favorevoli che Mosca è stata lieta di accordargli. L’Egitto non ha nemici esterni diretti ma deve sempre di più confrontarsi con un nemico interno violento, gli islamisti, i cui santuari sono nel Sinai e che non esitano ad agire dovunque, anche al Cairo.


Turchia

L’esercito turco, forte di 800.000 uomini, è uno dei più importanti della regione e ha saputo diversificare il suo equipaggiamento. Membro della NATO dal 1952, costituisce la posizione avanzata dell’alleanza occidentale verso il Medio Oriente, con la sua posizione strategica che controlla gli stretti e la sua lunga frontiera con la Siria, ma anche con l’Iraq e l’Iran. Erede del passato ottomano e delle riforme laiche di Ataturk, ha visto i suoi capi più anti islamisti silurati dai dirigenti dell’AKP (2), ma resta disciplinato e patriota. Come sempre resta il garante dell’integrità nazionale e, a questo titolo, consacra gran parte dei suoi sforzi nella lotta contro l’irredentismo curdo, non esitando a intervenire all’uopo anche fuori dalle frontiere. Dispone di una aviazione e di una marina potenti, molti dei cui materiali vengono costruiti in loco su licenza. Infine, se la Costituzione è laica, i suoi leader appartengono tutti al partito islamista AKP e portano avanti una politica settaria sia all’interno che all’estero ed hanno fatto del territorio turco, frontaliero della Siria e dell’Iraq, la testa di ponte attraverso il quale transitano le migliaia di combattenti jihadisti di 83 nazionalità che entrano in Siria per rovesciare il governo di Bachar el Assad. Ha anche recentemente aiutato gli islamisti in Iraq e in Siria, sotto gli occhi della comunità internazionale, per impedire l’arrivo dei rinforzi curdi a Ain el Arab (Kobané in curdo), assediata da Daech. L’ossessione curda è una costante nei ragionamenti di Ankara. Infine l’annunciata politica degli “zero problemi coi vicini” è completamente fallita, in quanto il risultato è esattamente l’inverso.


Arabia Saudita

L’Arabia Saudita ha un esercito equipaggiato con moderni materiali acquistati grazie ai soldi del petrolio e che aspira a diventare la punta di diamante di un esercito del Golfo. Ma i contrasti interni col Qatar fanno sì che l’esercito del CCG resti un’opzione virtuale e, se anche la penisola possiede degli equipaggiamenti aerei, navali e terrestri sofisticati, non ha però alcuna esperienza sul campo. Oggi che Daech minaccia la frontiera nord dell’Arabia, questo paese è molto inquieto, tanto più che forti rivalità agitano la numerosa famiglia reale. Diversi Stati della penisola ospitano basi degli Stati Uniti e degli Occidentali, come gli Emirati arabi uniti che ospitano basi francesi. Gli Stati Uniti e l’Arabia saudita sono legati da un’alleanza firmata sull’incrociatore Quincy nel 1945, tra il re Ibn Saud e il presidente Roosevelt, che attribuivano la sfruttamento delle ricchezze petrolifere agli Stati Uniti, da un lato, e la leadership del mondo mussulmano all’Arabia, dall’altro, alleanza che ha provocato l’islamismo guerriero, dapprima in Afghanistan per lottare contro i Sovietici dal 1979 al 1989, con la collaborazione dei Servizi pachistani ISI) – rinnovata da Bush e che non mia stata messa in discussione da allora.


I paesi della penisola arabica

Eccetto lo Yemen, in preda ad una guerra civile endemica tra gli sciiti dell’Hadhramaut e i sunniti, essi stessi divisi, i paesi della penisola arabica sono governati da monarchie di confessione sunnita nelle quali le urne giocano un ruolo modesto; in Qatar e in Arabia Saudita non vi sono elezioni e negli altri paesi esse servono solo a legittimare il governo. L’emirato del Bahrein è, da questo punto di vista, emblematico, in quanto la maggioranza sciita contesta sempre più violentemente la famiglia Al Khalifa e, per esempio, rifiutano di partecipare alle prossime elezioni legislative e municipali che considerano una farsa. Violenti manifestazioni hanno provocato delle vittime e l’esercito dell’Arabia Saudita è intervenuto brutalmente nel 2011 per reprimere la sollevazione, la locale “primavera araba”, provocando molte vittime.



Un miliziano di Daech


Daech

Parliamo adesso di Daech, comparso nel marzo-giugno 2014 sulla scena medio orientale e che altro non è se non una metamorfosi dei terroristi islamici di Al Qaeda o di altre nebulose nate con la vicenda afghana. Questo movimento ha assunto un’improvvisa ampiezza, dapprima in Iraq con la paradossale alleanza tra gli jihadisti e i militari dell’ex esercito di Saddam Hussein passati alla resistenza dopo l’invasione statunitense del 2003. I Servizi USA erano in grado di tenere sotto controllo l’azione di queste forze, attraverso i loro agenti, e i successi folgoranti di giugno si debbono al tradimento delle forze di sicurezza irachene e delle tribù sunnite scontente del trattamento loro riservato dal primo ministro sciita Maliki. Proclamando il Califfato in Iraq e altrove, Ibrahim Al Bagdadi, il califfo autoproclamato, ha annunciato l’ambizione di sopprimere le frontiere ereditate dagli accordi franco-inglesi di Sykes-Picot del 1916, instaurando il suo califfato in tutta la regione e assumendo il nome di Daouled al Irak wa al bilad al Sham (Stato Islamico dell’Iraq e dei paesi di Sham). Al Sham inglobava la Siria, il Libano, la Palestina e la Giordania, minacciando in tal modo l’intera penisola arabica.

Essendo la creatura sfuggita ai suoi creatori, dopo la decapitazione di cittadini statunitensi e inglesi, gli Stati Uniti allora hanno deciso di combatterla, mettendo insieme una coalizione internazionale a questo scopo. Se gli Stati del Golfo hanno accettato di aderire, si è vista la Turchia reticente a farlo, annunciando che il suo principale obiettivo restava il rovesciamento di Bachar al Assad a Damasco. La Turchia ha tuttavia accettato di aprire le sue basi agli aerei USA, ma le sue forze armate sono rimaste inattive, anche mentre si svolgevano sotto i loro occhi i combattimenti tra Daech e i Curdi siriani a Kobane.


Libano

In questo “Oriente complicato”, il Libano è sempre stato un esempio unico di coabitazione armoniosa tra islam e cristianità. Frontaliero di Israele, ha dovuto accogliere i rifugiati palestinesi cacciati dalle loro terre nel 1948 e poi nel 1970, ed ha subito diversi attacchi da parte dell’esercito del suo vicino del sud. Le esigenze degli Stati Uniti, che intendono proteggere il loro alleato, impediscono che l’esercito libanese sia dotato di armamenti ed equipaggiamenti adeguati, col pretesto di non modificare gli equilibri strategici della regione. Per questa ragione Hezbollah ha soppiantato l’esercito ed oggi possiede un’esperienza militare che è stata capace di costringere l’esercito israeliano ad abbandonare il sud del Libano, che occupava dal 1978, a prezzo di pesanti perdite. Tuttavia la milizia di Hezbollah ha rapporti di cooperazione permanente e di scambi di informazioni con l’esercito libanese.

Il Libano attualmente è privo del Presidente della Repubblica – necessariamente cristiano maronita – non essendo stato raggiunto un accordo tra le diverse componenti del mondo politico libanese, Primo ministro sunnita e Presidente dell’Assemblea nazionale sciita, ai quali si alleano di volta in volta altre minoranze come i Drusi. Due campi politici si affrontano in permanenza, legati alle loro alleanze esterne: il campo detto del “14 marzo”, guidato dal sunnita Saad Hariri, molto legato – come suo padre – all’Arabia Saudita, con i cristiani di Samir Geagea, capo delle Forze libanesi, e il campo del “8 marzo”, alleanza essenzialmente tra gli sciiti di Hezbollah e dei cristiani particolarmente del CPL del generale Aoun.


Conclusione

In conclusione, l’odierna guerra contro Daech non può essere vinta solo con gli attacchi aerei e occorrerà che truppe di terra, quelle dell’Iraq e della Siria aiutate dai loro alleati, vadano a distruggerlo nei suoi santuari. In questa guerra, la Siria come l’Iran sono indispensabili, e occorrerà bene che gli Stati Uniti ne convengano se davvero vogliono venirne a capo. Occorrerà soprattutto che i sostenitori del terrorismo islamico siano costretti a smetterla: l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia. Tanto più che la creatura si rivolta contro di loro, almeno contro l’Arabia Saudita e il Qatar.

Un Medio oriente rappacificato sarà l’esito della fine del conflitto, strumentalizzato per ragioni strategiche, tra sunniti e sciiti che, se pure la storia di queste due comunità resta costellata di conflitti sporadici, hanno convissuto a lungo in modo relativamente pacifico nei diversi paesi.

L’arco sciita costituito dall’Iran, Iraq, Siria e Libano, con gradualità differenti e prolungamenti fino in Afghanistan, dovrà trovare un equilibrio coi paesi a maggioranza sunnita.


Note:

(1)    Dichiarazione di William Hague, ex ministro inglese degli Affari esteri, che segue quella di Joe Biden, vice presidente degli Stati Uniti
(2)    Il partito del presidente Erdogan, attualmente al potere

 
(*) Dopo una carriera militare da specialista delle relazioni internazionali che lo ha condotto ad operare in Africa e nel Medio Oriente, dove è stato consigliere del Comandante generale della Forza delle Nazioni Unite in Libano, poi consigliere al ministero dell’interno, Alain Corvez ha aperto un ufficio indipendente di consulenza in materia di strategia internazionale nel 1994