Stampa
 Analisi, novembre 2013 - La “Dottrina Obama” avrebbe come obiettivo principale di contenere la crescita della Cina, non di farsi coinvolgere “in piccole dispute di vicinato”, tanto più che il suo vero nemico nella regione è l’Iran. La politologa ispano-iraniana Nazanin Armanian (nella foto) ci offre delle analisi sulla esplosiva situazione in Siria e Medio Oriente, tra le più lucide e le meglio informate…







Le Grand Soir, 3 novembre 2013



Intervista a Nazanin Armanian

“L’obiettivo di Obama è di contenere la Cina, non di farsi

coinvolgere in piccole dispute di vicinato”


Enric Llopis



La “Dottrina Obama” avrebbe come obiettivo principale di contenere la crescita della Cina, non di farsi coinvolgere “in piccole dispute di vicinato”, tanto più che il suo vero nemico nella regione è l’Iran. Un “caos controllato” in questa zona favorisce gli interessi statunitensi, perché crea difficoltà ad altre potenze come la Russia, la Turchia, l’Arabia Saudita e anche Israele. La politologa ispano-iraniana Nazanin Armanian ci offre delle analisi sulla esplosiva situazione in Siria e Medio Oriente, tra le più lucide e le meglio informate…


D: L’attacco militare contro la Siria che sembrava imminente è stato fermato. Quali sono i fattori che potrebbero riattivarlo?


R:
Giacché disponiamo solo di informazioni assai parziali su quanto vanno preparando le potenze che decidono di questo conflitto, occorre precisare che le mie “opinioni” sono più che altro delle “ipotesi”.

Nonostante tutti i tentativi della Turchia e dell’Arabia Saudita di trascinare gli Stati Uniti in una guerra, nella quale questi ultimi avevano più da perdere che da guadagnare, Barack Obama non poteva né voleva attaccare la Siria lo scorso agosto. La proposta di Putin (senz’altro preventivamente concordata) ha consentito a Obama di venir fuori dalla trappola “uso di armi chimiche=attacco militare”. La vera linea rossa era stata oltrepassata quando l’equilibrio di forza tra l’esercito siriano e i ribelli si è rovesciato (equazione perdente-perdente). Damasco ha riconquistato numerose città in luglio e agosto grazie al caos nei ranghi dell’opposizione, al sostegno logistico della Russia e alla preziosa esperienza di diverse migliaia di Guardiani dell’islam iracheni in Siria, che sanno ben combattere sia contro i nemici esterni che interni.


D: Quale è lo scenario favorevole agli Stati Uniti nella zona?


R:
L’opzione migliore per gli USA è l’ attuale “caos controllato”, che sfianca la Russia, l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita e anche Israele. La “dottrina Obama” consiste nel contenere la Cina e a non lasciarsi coinvolgere in piccole dispute di vicinato. Tanto più che la priorità della Casa Bianca in questa regione è l’Iran, non la Siria. Un attacco a quest’ultimo paese comprometterebbe ogni possibile accordo di pace con Teheran, in cambio dell’arresto del suo programma nucleare.

E tuttavia, anche nel momento in cui si allontana la minaccia di un attacco, la presenza di una miriade di attori che nessuno è in grado di controllare, e il fatto che la politica non risponde sempre a criteri di logica, rendono tutti gli scenari ancora possibili, per esempio non può escludersi una provocazione sotto falsa bandiera.


Sembra si sia concluso un accordo tra Stati Uniti, Russia e Iran per mantenere Assad al potere fino all’inizio del 2014. Un tempo sufficiente perché gli Stati Uniti possano sperimentare la effettiva buona volontà di Hassan Rahani Ali Jamenei nell’abbandonare il programma nucleare.

In tal modo Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita riuscirebbero a ottenere il disarmo della Siria e dell’Iran senza l’apocalisse. Un grande trionfo per Barack Obama.


D: Quando si parla dell’opposizione siriana a Bachar el Assad, di quale conglomerato si tratta esattamente?


R:
C’è l’opposizione interna, e quella che lotta dall’estero contro el-Assad, da sinistra fino all’estrema destra, passando per le migliaia di mercenari che vengono a perturbare il panorama. Bisogna riconoscere che, non solo abbiamo delle informazioni contraddittorie, ma la rapidità con la quale le cose cambiano obbliga l’opposizione a mutare regolarmente i propri comportamenti e la composizione.


E’ veramente difficile ottenere una informazione veridica, affidabile e imparziale sulle forze dell’opposizione.


D: Quali sono le grandi poste economiche in gioco in Siria?


R:
Il rapporto tra il conflitto siriano e il petrolio/gas si basa su diversi fattori.


Per prima cosa la Siria possiede 25 milioni di barili di brut, è la più grande riserva accertata di petrolio nel Mediterraneo orientale e la Russia è il suo unico partner internazionale. Quest’ultima coopera con Damasco, aiutata dalla Cina e dall’Iran, allo sviluppo dell’industria petrolifera in Siria.


In secondo luogo, alcuni miliardi di metri cubi di gas naturale (combustibile del futuro, buono, economico e pulito) sono stati localizzati sulle coste siriane.


Nel 1990 il Libano, Israele e Gaza (attraverso British Gaz – BG) sono entrati in conflitto per lo sfruttamento del gas, e Israele lo reclama per intero. Lo Stato ebraico è riuscito a mettere fuori gioco Gaza, la Siria e il Libano e attualmente sfrutta questa risorsa approfittando della debolezza degli avversari.


D: E per quanto riguarda le rotte strategiche e i grandi oleodotti/gasdotti?


R:
La Siria è posta all’incrocio di diversi corridoi energetici. Cosicché la Turchia (alleata della NATO) potrebbe essere messa fuori gioco, non solo come paese strategico, ma anche perché perderebbe i milioni di dollari di diritti di dogana che percepisce per il passaggio dell’oleodotto Azerbaijan/Georgia sul suo territorio.


L’idea è di costruire due oleodotti e un gasdotto iracheno-siriano. Nel 2011 è stato firmato un accordo per costruire un oleodotto iraniano-iracheno-siriano (detto il “tubo sciita”) che trasporterebbe il brut iraniano fino al Mediterraneo.


Inoltre queste iniziative renderebbero inutile il progetto più importante per diversificare l’approvvigionamento energetico dell’Unione europea: il gasdotto “Nabucco”, che dovrebbe partire dal Mar Caspio per arrivare al Mediterraneo attraverso la Turchia senza passare per la Russia.


D’altra parte, l’Arabia Saudita e il Qatar fanno pressione per costruire “l’ArabGas pipeline” (gasdotto arabo) con la partecipazione della Siria, della Giordania e del Libano.


Questo progetto consentirebbe di connettere il gasdotto dell’Africa del nord alla Turchia, al Mediterraneo e dunque di fare di Ankara la prima rotta energetica dell’Asia e dell’Europa, cosa che ridimensionerebbe il ruolo della Russia, attualmente il più importante fornitore di energia del vecchio continente.

L’Arabia Saudita e gli Stati Uniti temono un’alleanza tra i “giganti del petrolio”, il Venezuela e la Russia, perché questa indebolirebbe l’OPEC (Organizzazione dei Pesi Esportatori di Petrolio).


D: Quale è il ruolo della Cina in Siria e, in termini più generali, in Medio Oriente? Apparentemente in Siria, la Cina sembra stare in una posizione di retroguardia. E la Russia?


R:
La Cina, dopo avere perso l’Iraq, il Sudan e la Libia quali fornitori di energia, è molto interessata a mantenere un piede nella zona. Per adesso, preferisce che sia la Russia a esporsi nel conflitto. Pechino è fermamente convinta che l’obiettivo degli Stati Uniti, con l’attacco alla Siria, sia l’Iran, il suo terzo fornitore di petrolio.


Per la Russia di Putin, l’obiettivo di farla finita con il mondo unipolare passa per la Siria. E’ qui che può impedire che le ribellioni delle “primavere” trasformino il Mediterraneo in uno spazio atlantista. La Russia sa che uno degli obiettivi degli Stati Uniti è di distruggere l’esercito siriano, a causa dei suoi legami con la Russia, così come è accaduto con le forze armate dell’Iraq e della Libia, per diminuire l’influenza militare slava nel mondo. Ciò che più conta, è che Mosca ha investito 20.000 di dollari in Siria. Altrettanti interessi che spingono la Russia a resistere, nel momento in cui comincia a risollevare la testa sulla scena internazionale.


D: L’egemonia sunnita nei confronti della crescita sciita. Quale è il peso della religione nel conflitto siriano e, più generalmente, in Medio Oriente?


R:
La caduta di Mubarak in Egitto, bastione del sunnismo, l’arrivo al potere degli sciiti in Iraq, la crescente influenza di Hezbollah in Libano e la ribellioni sciita in diversi paesi arabi (Bahrein, Yemen) non significano, di per sé, che i mutamenti in corso siano a beneficio della teocrazia sciita dell’Iran. Sono gli interessi di Stato, o di quelli che detengono il potere, a determinare l’orientamento politico dei governi.


Il fatto di avere la stessa religione non è un necessario fattore di unità tra Persiani e Arabi, che sono vecchi nemici. Inoltre la crisi politica e sociale dello stesso Iran impedisce a quest’ultimo di approfittare della debolezza degli Stati sunniti. La religione è una bandiera, ma ciò che realmente conta è l’avidità delle oligarchie che governano questi paesi per mantenere l’egemonia nella regione.


D: Per contro, sembrerebbe che un certo miglioramento delle relazioni tra Obama e il nuovo governo iraniano sia in corso. E’ davvero così? E ciò è compatibile con le analisi secondo cui, attraverso il conflitto siriano, gli Stati Uniti mirano a colpire l’Iran?


R:
Sì, è vero. Attualmente sia gli Stati Uniti che l’Iran hanno interesse a ristabilire rapidamente delle relazioni.
Per Barack Obama, giungere ad un accordo nucleare con Teheran sarebbe meno costoso di una guerra suicida o di accettare un Iran nuclearizzato.


E’ possibile che, nonostante le pressioni di Israele, gli USA accettino che l’Iran acquisti la capacità di fabbricare un’arma nucleare (come l’Argentina, il Giappone e la Germania) e gli consentano di arricchire l’uranio all’interno del paese, in cambio di un controllo permanente dell’ONU su questa industria.

Inoltre le opinioni pubbliche statunitense e israeliana sono contrarie ad un’avventura bellica in terra iraniana (si consulti la campagna: “We love you: Iran and Israel”).


D’altra parte, dopo il rifiuto di Inghilterra e Germania, i più fedeli alleati, a partecipare ad un attacco militare contro il fragile esercito siriano, gli Stati Uniti non potrebbero lanciarsi in un simile suicidio collettivo. Senza contare una certa influenza del “baratro fiscale” e della mancanza di fondi per un conflitto di una tale portata. Infine gli USA hanno bisogno della Repubblica islamica per pacificare o essere in grado di perseguire i loro progetti politici in Afghanistan, Iraq, Siria e Libano, zone di influenza iraniana.


D: E sul versante dell’Iran?

R: Da parte sua, l’Ayatollah Ali Jamenei, il capo di Stato, si trova a doversi confrontare con una congiuntura che lo costringe a riorientare radicalmente la sua politica estera. In primo luogo, le sanzioni e il basso costo del petrolio strangolano l’economia nazionale. La recessione economica, la disoccupazione, una inflazione galoppante del 40% e una cattiva gestione delle risorse del paese hanno spinto l’Iran sull’orlo del baratro.


A ciò si aggiunga che, nel corso degli ultimi otto anni, il governo di Ahmadinejad ha ottenuto benefici dalle vendite petrolifere superiori a tutti quelli dei precedenti cento anni, senza però che le condizioni di vita della popolazione siano minimamente migliorate.


Una situazione che potrebbe scatenare una esplosione sociale, stavolta non per i diritti civili come nella “primavera del 2005”, ma a causa della povertà che colpisce milioni di persone che, fino a questo momento, hanno costituito la base sociale del regime.


D: Secondo lei, i fattori sono dunque molteplici?


R:
Sì, perché a questo si aggiunge un isolamento cui è difficile fare fronte. Quattro sanzioni dell’ONU e un largo fronte unito contro l’Iran al livello mondiale: dai vicini turchi, ebrei e arabi, fino alla Cina e alla Russia, che sono favorevoli alle sanzioni del Consiglio di Sicurezza.


Le pressioni contro la Siria, suo unico alleato regionale, hanno anch’esse la loro importanza. Inoltre, contrariamente a qualche anno fa, l’Iran si sente sufficientemente forte per potersi difendere senza l’arma nucleare. Non è però necessario che si concluda un accordo con Washington prima che Obama lasci la Casa Bianca nel 2016. Infine, la classe dominante attualmente nella Repubblica islamica pensa che, se l’Iran aspira ad essere una potenza regionale, ciò non sarà possibile senza diventare un alleato degli Stati Uniti, come la Turchia e Israele.


D: Che bilancio fa degli attacchi/invasioni anteriori promossi dagli Stati Uniti nella zona? L’Iraq per esempio


R:
La guerra contro l’Iraq è stata in realtà una guerra “tra vicini” di Israele contro questa potenza regionale, realizzata dagli Stati Uniti. Certo, Tel Aviv si è liberato di un nemico per i prossimi decenni, ma gli Stati Uniti, oltre ad aver perso miliardi di dollari e le vite di quasi 4000 soldati, hanno anche perso il loro prezioso alleato Saddam Hussein, contrappeso dell’Iran, che oggi vede aumentare la propria influenza nel paese.


L’influenza di Teheran su Bagdad è proprio uno dei motivi degli attentati in cui perdono la vita centinaia di persone ogni giorno in Iraq. Israele, l’Arabia saudita, il Qatar e la Turchia vogliono allontanare gli sciiti e i filo iraniani dal potere.


D: E per quanto riguarda l’Afghanistan?


R:
Nel caso afghano, il fallimento degli Stati Uniti è cocente. Non hanno potuto costruire il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan. Non sono riusciti a prendere il controllo dell’Asia Centrale e dei paesi dal nome in “stan”, evitando così che i russi vi riacquistassero influenza e non sono riusciti nemmeno a controllare il commercio dell’oppio (1), anche dopo avere piazzato al potere Hamid Karzai, che governa oggi il più importante narco-Stato del pianeta.


Si ignora anche se gli Stati Uniti potranno conservare la loro base militare, dopo il ritiro annunciato per il 2014. Tutto ciò dopo avere lasciato un paese distrutto, centinaia di migliaia di morti, 6 milioni di rifugiati e un futuro incerto per gli sventurati Afghani.


D: Quale la sua analisi della cosiddetta “primavera araba”?   


R:
Sono state soffocate nell’uovo prima ancora che si schiudesse. Dalla destra religiosa opportunista e calcolatrice e/o dai militari. Sono queste le forze attraverso le quali gli Stati Uniti possono mantenere questi paesi all’interno della loro zona di influenza e, tra l’altro, anche impedire la nascita della democrazia economica e politica che questi popoli rivendicano (2).


D: L’Egitto. Come pensa che la sinistra debba porsi? Da un parte ci sono degli islamisti (tradizionali nemici della laicità e dei settori progressisti) che hanno vinto le elezioni e, dall’altra, dei militari che fanno un colpo di Stato con l’appoggio della popolazione


R:
Io credo che la sinistra egiziana abbia commesso un errore ad appoggiare il colpo di Stato militare, pianificato dagli Stati Uniti e finanziato dall’Arabia saudita.


E’ stata una mossa strategica di Washington che, dopo l’assassinio del suo ambasciatore in Libia e l’attacco all’ambasciata di Israele al Cairo, tra le altre cose, ha preso le distanze dagli islamisti su scala regionale (li aveva piazzati al potere in Iraq, in Afghanistan, in Yemen, in Libia e in Egitto) e ha deciso di optare per la destra religiosa non estremista, o laica. Gli USA non volevano dei Fratelli Mussulmani alla frontiera tra Egitto e Israele.


Non li vogliono nemmeno in Siria, dove faranno durare il conflitto fino a quando non troveranno una alternativa laica e allineata ai loro interessi (3)


D: E dovendo scegliere?


R:
Gli islamisti, come i militari, sono forze reazionarie il cui obiettivo è quello di schiacciare il movimento rivoluzionario dei settori di avanguardia della società. Sia gli uni, che gli altri, hanno fatto ricorso alla manipolazione dei sentimenti religiosi o patriottici degli Egiziani, per re-instaurare un sistema capitalista-feudale, la corruzione e mantenere i loro privilegi.


La sinistra deve assumere una posizione indipendente e alternativa, senza cadere nella trappola manichea del “o con gli uni, o con gli altri”.


D: Per finire, durante una conferenza, lei ha parlato di un conflitto tra Obama e un certo nocciolo “duro” e bellicista dell’establishment nord-americano fautore della redditività delle guerre. In cosa consiste questo scontro? E quali ne sono le conseguenze in Medio Oriente e altrove?


R:
Barack Obama, durante il secondo mandato, ha cominciato ad assumere alcune decisioni importanti con l’obiettivo di indebolire il nocciolo bellicista dell’establishment. Ha allontanato il generale neo-conservatore Davis Petraeus, direttore della CIA (prendendo a pretesto la sua infedeltà coniugale!), l’ultima eredità rimasta dal governo Bush. In precedenza aveva ringraziato il segretario della Difesa Robert Gates, il “signore della guerra”.


Ha anche richiamato alcuni alti gradi militari in missione all’estero, come il generale Allen, responsabile della NATO in Afghanistan. Ha costretto ad allontanarsi “volontariamente” la segretaria di Stato, la “falco” H. Clinton (la sua rivale nelle presidenziali del 2008 che aveva inserito nel suo gabinetto per neutralizzarla) e ha collocato in pensione Leon Panetta, direttore del Pentagono. Parallelamente ha nominato segretario della Difesa Chuck Hagel, nonostante la sua reputazione di “anti-israeliano”, fermo oppositore della guerra contro l’Iran.


Ha anche ridotto il budget del Pentagono di 1,2 miliardi di dollari… Obama si è reso conto che sono proprio queste guerre locali e assurde, organizzate da questi settori del potere statunitense, all’origine della perdita di potenza e prestigio dell’Impero su scala mondiale.


La sua ossessione è di contenere la Cina e la sua “dottrina” è il ritorno in Asia. Come ci riuscirà (o meno)? Il tempo ce lo dirà.
  


[1] Leggere : "Super camellos en Afganistan"


[2] Leggere : « Réquiem por la primavera arabe »


[3] Leggere :“EEUU mueve fichas en Egipto (y en la región)”