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 Recensioni, novembre 2012 - E' uscito a Parigi, per i titpi di L'Harmattan, "Les ressoiurces naturelles dans les conflits armés en RD Congo", di Félicité Kourra Owona, ricercatrice all'Università Statale di Puntland, in Somalia. Segue una recensione-intervista, realizzata dal nostro collaboratore Jean-Marc Soboth (nella foto, Félicité Kourra Owona) 










Intervista a Félicité Kourra Owona (*)
Il paese continente Congo riguarda ogni Africano, per le sue radici culturali e storiche
Jean Marc Soboth

Félicité Kourra Owona pubblica per i tipi di L’Harmattan a Parigi un libro sulle “Risorse naturali nei conflitti armati nella RD del Congo”, che descrive lo scandaloso saccheggio di questo “Eden minerario” da parte di ogni sorta di predatori e le conseguenze che ciò ha avuto nella instabilità del paese. Laureata in Diritto Internazionale Pubblico all’Università di Parigi X Nanterre, attualmente insegnante-ricercatrice all’Università Statale di Puntland in Somalia, questa Universitaria plurinazionale viene presentata da suo padre, Joseph Owona (che ha curato la prefazione del libro), come una “autentica figlia dell’Africa, nelle cui vene scorre il fiero sangue dei Dogoni e dei Fang Beti”. Conversazione a ruota libera


Leggendo il titolo del suo libro, si pensa subito di avere a che fare con una verità lapalissiana: le enormi risorse naturali che provocherebbero l’instabilità della Repubblica Democratica del Congo… La prima domanda che viene in mente è: quali novità porta nel dibattito?
La cronaca di una maledizione congolese inonda i media. E’ diventata qualcosa di aneddotico, col rischio di una banalizzazione. Allo scandalo geologico è succeduta la banalizzazione mediatica. Tutto questo, senz’altro importante nell’analisi della questione congolese, nasconde tuttavia molto spesso alcuni spunti di analisi molto importanti.
Soprattutto gli aspetti giuridici, impliciti nella ipostasi della conflittualità dovuta alla predazione delle risorse naturali, mi sembrano necessari alla comprensione del problema. Essi aiutano a disvelare il meccanismo della formalizzazione, dell’istituzionalizzazione e della legittimazione del saccheggio organizzato e abilmente gestito, autoalimentato dai belligeranti. Con un occhio anche alle possibili soluzioni di questo pasticcio considerato inestricabile da molti esperti.


Perché scegliere di cominciare a studiare e a scrivere sul Congo democratico?
Il paese continente Congo riguarda ogni africano, per le sue radici culturali e storiche. Oltre a ciò, la problematica dell’impatto geopolitico prodotto dalle risorse naturali è identica per l’insieme dell’Africa subsaharaiana, anche se con una trasposizione più rilevate, strutturale e amplificata, in Congo. E’ un caso di scuola molto illuminante su uno degli aspetti dell’evoluzione dell’Africa contemporanea.


I Congolesi continuano a denunciare all’intero mondo gli Stati vicini, anche le maggiori potenze, per il saccheggio delle loro risorse naturali; nello stesso tempo agitano incessantemente lo spettro degli 8 milioni di morti che i conflitti armati hanno provocato in Congo… Quale è attualmente lo stato delle cose?
Le responsabilità sono comuni. Il Congo ha fatto gola fin dai tempi antichi, tra la sua posizione strategica rivelata dalla Guerra fredda e la sua attrattiva alimentata da ricchezze naturali fuori del comune. Il regno di Mobutu è stata una caricatura dell’ambivalenza africana di fronte all’attrattività delle risorse naturali, che si barcamena tra un sovranismo di facciata ed una complicità venale con le multinazionali del rame, dei diamanti, del ferro, dell’uranio o di altre risorse scintillanti o necessarie alla crescita del mondo occidentale e, da qualche anno, anche dell’Asia e soprattutto della Cina.  L’avvento di Laurent Désiré Kabila non ha mutato il quadro, al di là degli incantesimi e dei proclami. Al contrario, la cupidigia dei vicini, attenti alla sicurezza e alla liquidità, ha accresciuto la fragilità di questo grande paese, cristallizzato i rancori e consolidato l’instabilità. Il Congo oscilla tra la tranquillità di molte città interne e le tempeste politiche e militari delle zone poste alla frontiera est e delle zone di maggiore sfruttamento delle risorse naturali.


L’anno scorso, quando fu avviata l’operazione militare “United Protectors” della NATO in Libia, si sono levate delle voci per ricordare che le situazioni davvero più urgenti e preoccupanti in Africa sarebbero piuttosto il Congo democratico e la Somalia. Anche lei la pensa così?
La realpolitik non si sottrae alle categorie delle relazioni internazionali. Vi è senz’altro una concezione dei due pesi e delle due misure che sottende la risoluzione dei conflitti nel mondo. Nel caso di specie, la complessità congolese manifesta tra le righe le questioni di opportunità, di interesse e di fragilità del sistema internazionale.


Non ha paura di vivere in Somalia, un paese considerato senza Stato e la cui militarizzazione ha ispirato un neologismo come “somalizzazione”?
E’ un paese che merita di essere sostenuto, paralizzato senz’altro da anni di guerra civile, che alcune buone volontà sono risolute a esorcizzare. La ricostruzione passa anche per l’educazione e il rafforzamento delle capacità. Una maggiore motivazione per il mio lavoro. Il mio lavoro universitario mi richiamerà presto in Camerun.


Che cosa comporta il fatto di essere una donna africana “plurinazionale”, specialista di diritto internazionale pubblico e di fare il giro dell’Africa?
Una felice mescolanza che sollecita l’apertura, pone le basi di una cittadinanza globale e libera lo spirito.


Il suo libro ha la prefazione di Joseph Owona, suo padre e universitario molto noto. E’ stato l’Universitario ad essere sollecitato da una giovane collega o è stato Papà ad essere chiamato in causa per proteggere la figlia?
E’ stato sollecitato come universitario, portando uno sguardo paterno, non sull’autrice ma sull’Africa.     

 

(*) Insegnante-ricercatrice all’Università Statale di Puntland in Somalia