Analisi, novembre 2011 - Il presidente Obama sfrutta la sua abilità di avvocato costituzionalista per imporre il suo diktat imperiale sull’Africa. Ha fatto la guerra in Libia per poi negare di averla fatta. Invia truppe in Africa centrale nel momento preciso in cui l’Uganda scopre immense risorse petrolifere. I soldati sono in Uganda per difendere il paese o per tracciare una frontiera contro “la penetrazione commerciale della Cina nel bacino del Congo”?




Black Agenda Report, 25.10.2011


L’interventismo militare di Obama di fronte alla penetrazione commerciale cinese in Africa
Mark P. Fancher


Il presidente Obama sfrutta la sua abilità di avvocato costituzionalista per estendere la violenza e imporre il suo diktat imperiale sull’Africa. Ha fatto la guerra in Libia per poi negare di averla fatta. Invia truppe in Africa e soprattutto in Africa centrale, nel momento preciso in cui l’Uganda scopre immense risorse petrolifere. I soldati sono in Uganda per difendere il paese, laddove il suo esercito è pienamente in grado di farlo, o per tracciare una frontiera contro “la penetrazione commerciale della Cina nel bacino del Congo”?

Più rimarchevoli ancora dei recenti interventi, sono state le argomentazioni giuridiche offerte dall’amministrazione Obama per giustificarli. Contrariamente all’opinione generale, la Costituzione USA non consente al Presidente di dispiegare le truppe a piacimento, anche se è il Comandante in capo. La Costituzione attribuisce il potere di dichiarare guerra solo al Congresso.


L’Africom in soccorso delle brigate razziste anti-neri
Vi sono certo dei casi di forza maggiore che rendono necessario il ricorso alla forza militare prima di ogni dichiarazione ufficiale di guerra. Il Congresso vota allora una Risoluzione per i Poteri di Guerra (War Power Resolution) che autorizza il Presidente a ricorrere alla forza militare nel caso in cui una specifica legge lo consenta o quando gli Stati Uniti sono attaccati. “E’ legittimo chiedersi se sussistessero condizioni che potessero giustificarre dal punto di vista giuridico l’utilizzazione della forza in Libia e in Uganda”. Tuttavia questo non è stato un ostacolo per una amministrazione apparentemente determinata a piazzare le forze USA sul suolo africano.

Quando i “ribelli” libici, dal nome di “Brigata per epurare gli schiavi/i neri” che si erano dati, ed altri hanno cominciato l’attacco contro il governo libico, accompagnato dal linciaggio sistematico di neri, l’Africom (il comando africano degli Stati Uniti) si è precipitato in soccorso di questa plebaglia violenta che si spacciava per rivoluzionaria. Ciò facendo, ha messo in moto l’invasione massiccia della NATO che è sfociata nell’assassinio odioso di Muammar Gheddafi. Quando sono cominciate le ostilità, il Congresso non aveva dichiarato guerra, in assenza di una legge che consentisse un attacco contro questo paese, né la Libia aveva, in qualsivoglia maniera, attaccato gli Stati Uniti. Ma di fronte a questa problematica, Obama, specialista riconosciuto in diritto costituzionale, ha volutamente ignorato la Costituzione per mettersi sotto l’ombrello della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

In qualunque modo si interpreti la Risoluzione 1973, è impossibile non leggervi l’esclusione dell’ipotesi di ricorso immediato alla forza per un cambiamento di regime. Con esclusione di ogni altra soluzione della crisi libica, essa faceva appello particolarmente all’Unione africana perché inviasse il suo “Alto Comitato ad hoc in Libia con l’obiettivo di facilitare il dialogo per giungere a delle riforme politiche considerate necessarie ad una soluzione pacifica e durevole.


Motivo trovato: le atrocità dell’esercito del Signore
Parallelamente, nel caso dell’Uganda, l’Amministrazione ha recentemente inviato cento militari USA “con una forza addizionale” da trasferire entro un mese. La caccia ai dirigenti dell’”Esercito di Resistenza del Signore” (considerata responsabile di atrocità su larga scala e di distruzioni per venti anni) è stata spiegata col motivo che la “missione serve gli interessi della sicurezza nazionale USA e la politica estera”. E anche in questo caso, non più  he in quello della Libia, non vi è stata alcuna dichiarazione di guerra da parte del Congresso contro l’Esercito di resistenza del Signore. Obama pretende che la possibilità di mandare truppe da combattimento in Uganda derivi da una legge del 2010, chiamata “Disarmo dell’esercito di resistenza del Signore e recupero del nord dell’Uganda”.

E’ vero che questa legge stabilisce che la politica ufficiale degli Stati Uniti è quella di “lavorare con i governi regionali ad una soluzione globale e permanente del conflitto in Uganda e altre regioni coinvolte, fornendo un sostegno politico, economico, militare e di intelligence a sforzi multilaterali per proteggere i civili”.

Essa fornisce dettagliate istruzioni al Presidente, il cui ruolo deve limitarsi ad elaborare un piano che dovrebbe:
- Rafforzare l’impegno delle Nazioni Unite e dei governi della regione per fronteggiare l’Esercito di Resistenza del Signore;
- Valutare le opzioni per una cooperazione degli USA coi governi regionali;
- Presentare un piano di diverse agenzie per rivedere la politica USA a proposito dell’Esercito di Resistenza del Signore;
- Descrivere gli impegni diplomatici nella regione;

Anche se supponessimo che la possibilità di dispiegare le truppe sia implicita nella legge del 2010, il testo tuttavia è sufficientemente ambiguo perché il presidente Obama potesse trovarvi facilmente il modo di non utilizzare la forza militare. E si torna così alla questione del perché l’Amministrazione Obama si sia sentita obbligata, sia che abbia forzato la legge, sia che l’abbia interpretata, a ricorrere alla forza militare in Libia e in Uganda.


L’Uganda presto grande produttore di petrolio
Per ciò che concerne la Libia, la risposta che salta agli occhi è che le riserve petrolifere del paese devono essere poste sotto un controllo totale. Gli sforzi incessanti di Gheddafi per l’unità africana e una indipendenza totale dall’Occidente hanno fornito la “carota” supplementare. Ma l’Uganda? Storicamente non è mai stata considerata come un obiettivo possibile per un intervento militare centrato sul petrolio.

Un articolo di The Economist, l’anno scorso, fornisce qualche risposta quando rileva: “L’Uganda sarà presto un medio produttore di petrolio come il Messico. Gli investimenti stranieri in Uganda raddoppieranno quest’anno per raggiungere i 3 miliardi. Il paese si aspetta di ricavare due miliardi l’anno di entrate petrolifere di qui al 2015”.

L’articolo forniva ulteriori indizi per comprendere le motivazioni USA, quando osservava che il Presidente ugandese “… sembrava affascinato dalle promesse dei Cinesi di aiutarlo a costruire una raffineria di petrolio e a produrre plastiche e fertilizzanti derivati dal petrolio… Diversi governi e compagnie occidentali, invidiose, vogliono fermare la penetrazione della Cina nel bacino del Congo con le sue immense riserve di minerali e boschi”.

Il mondo africano è stanco di certe posizioni, troppo numerose, che vogliono il saldo mantenimento dell’Africom da parte dell’Amministrazione Obama e il ricorso generalizzato alla forza militare per proteggere gli interessi delle multinazionali occidentali. Ma il peggio è l’uso opportunista o la distorsione dei limiti giuridici del potere esecutivo per realizzare gli obiettivi delle multinazionali in Africa. E’ drammatico che gente di buona volontà legga nelle leggi una occasione di risoluzione pacifica delle crisi e che, allo stesso tempo, l’Amministrazione Obama vi veda delle occasioni di violenza e di rafforzamento del suo diktat imperiale su un continente sfruttato e ferito.

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