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espritcors@ire, 1 agosto 2014 (trad. ossin)



La lenta riconquista di Donbass e la paralisi del regime di Kiev

Frederic Delorca


Bernard-Henri Levy ha un modo curioso di presentare i minatori e gli operai di Donbass, arruolati nelle milizie di auto-difesa della Repubblica Popolare di Donetsk: “Nell’est dell’Ucraina il meno che si possa dire è che Putin ha giocato col fuoco, scriveva nel bloc-note del Point di fine luglio. Ha raccattato e mobilitato il peggio della regione. Ha trasformato in soldati dei delinquenti, del ladri, degli stupratori, degli avanzi di galera, dei saccheggiatori”. Le sue parole hanno il merito di fornire immagini colorate sull’opinione messa in circolo dai nostri grandi media tutto il santo giorno a proposito delle milizie di auto-difesa di Donbass


Questi grandi media si interessano però soprattutto dei loro missili. E in proposito l’incidente dell’aereo di linea MH 017 della Malaysia Airlines è diventata la più importante posta della propaganda di guerra a Ovest.


In un primo tempo si era trattato solo “di chiamare in causa i separatisti di Donetsk. Nelle ore immediatamente successive allo schianto dell’aereo il 17 luglio scorso, per esempio, BFM TV dava la parola ad uno specialista tenuto a rispondere ad una sola domanda: “Un missile suolo-aria può abbattere un aereo a 10.000 metri di altitudine?”, specialista che si affrettava a rispondere (senza che alcun giornalista trovasse nulla da obiettare) che erano stati i “terroristi” di Donetsk a fare il colpo, e che lui era fiero di lavorare per un sito di informazione di Euromaidan (i gruppi filo-europei in Ucraina) per combattere l’influenza russa nel paese… I media impegnati amano gli esperti schierati.


Poi le accuse si sono rivolte verso la Federazione russa. Il 20 luglio il segretario di Stato statunitense, John Kerry, ha affermato alla CNN di avere “le prove” che il missile che ha colpito l’aereo era partito dal territorio russo. Ha detto che i suoi servizi di informazione sarebbero in possesso di intercettazioni satellitari e telefoniche che dimostrerebbero la presenza di 150 veicoli militari alla frontiera della Russia con l’Ucraina, poco prima dell’attacco. Tra essi dei carri e dei sistemi di armi cingolati Buk M1 in grado di distruggere un aereo a grande altitudine.


Nella vicenda però vi sono molte zone d’ombra, e molte di esse chiamano in causa il regime di Kiev. La prima riguarda il fatto che l’amministrazione ucraina abbia consentito che un aereo di linea sorvolasse una zona di guerra, i cui corridoi aerei dovrebbero normalmente essere chiusi... Inoltre, stando ad una lettera della delegazione permanente russa al segretario generale dell'ONU del 24 luglio, il Boeing 777 ha deviato di 14 chilometri dal suo corridoio prima di perdere quota, per ragioni che solo l’esame della scatola nera potrà chiarire.


Le condizioni in cui gli esperti sono stati costretti a lavorare sul campo nei giorni immediatamente successivi al disastro sono ugualmente oscure. I ribelli di Donetsk pretendono di averli lasciati liberi di svolgere i loro accertamenti, ma che essi non si sono presentati in tempo utile. Gli Occidentali, da parte loro, affermano che i separatisti impedivano loro l’accesso e che hanno fatto sparire i reperti e i cadaveri. Ancora oggi le truppe della guardia nazionale ucraina sono riluttanti a sospendere i combattimenti per consentire agli inquirenti di investigare.


I media russi hanno parlato di un caccia SU 25 ucraino che sarebbe stato intercettato dai radar del loro paese nelle vicinanze del MH 017: testimoni locali avrebbero inteso due esplosioni in aria prima della caduta dell’aereo. L’ipotesi di un attacco in volo e non da terra alimenta già speculazioni che ricordano quelle successive all’11 settembre 2001: per esempio un pilota di linea tedesco sul Net avanza l’ipotesi che i caccia ucraini avrebbero potuto attaccare il cockpitcon con due obici anticarro incendiari, confondendolo con l’aereo di Vladimir Putin.

E anche se il tiro non fosse partito da un caccia, l’esercito ucraino avrebbe avuto la disponibilità il 17 luglio, secondo i servizi di informazione russi, di missili suolo-aria nel settore… cosa curiosa, dal momento che gli insorti non hanno aerei da guerra….


Il dibattito sulla distruzione del Boeing 777 malese si confonde con quello dei presunti lanci di missili contro l’esercito ucraino provenienti dalla Russia. L’accusa di John Kerry sul Buk-M1 che sarebbe stato presente sulla frontiera russa ha puntato i riflettori sulla possibile ingerenza di questo apparato nella guerra del Donbass. Sulla stessa linea d’onda, la missione statunitense presso la NATO e l’ambasciatore degli Stati uniti in Ucraina, Geoffrey Pyatt, hanno pubblicato le foto provenienti dai servizi segreti statunitensi che mostrano, in Russia, delle tracce asseritamente provocate da lanci di artiglieria russa e, dall’altro lato, in Ucraina, i crateri dove i razzi si sarebbero abbattuti. Questi elementi sono stati ripresi in un documento ufficiale di quattro pagine, che si fonda soprattutto su delle foto così poco convincenti da ricordare le prove sull’esistenza delle sedicenti armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein nel 2002.


Così il dispositivo di propaganda ha potuto cogliere due piccioni con una fava: dopo avere descritto i separatisti ucraini come degli assassini di civili innocenti e averli accusati di atti di pirateria internazionale, è stato l’esercito russo ad essere messo, dopo, sotto accusa.


L’obiettivo è di spingere Mosca non solo a non rifornire più di armi, ma anche, se possibile, a strangolare le milizie di autodifesa di Donbass, come si fece negli anni 1990, all’epoca di Eltsin, con l’Abkhazia secessionista (in Georgia) cui venne imposto un embargo per soffocarla. La scommessa non è forse azzardata perché già la capitolazione di Slaviansk è stata imputata, da parte del comandante dei separatisti, Igor Strelkov, ad un disimpegno russo al livello di forniture di materiale. E ancora ieri, in un dispaccio di Reuters, alcuni insorti (il cui immaginario è spesso molto sovietico, mescolato a un olezzo panrusso) biasimavano l’inerzia di Putin, che imputavano alla influenza degli ambienti affaristici russi sul Cremlino.


Sul terreno, si è stretta la morsa sul feudo separatista della Repubblica autoproclamata di Donetsk (Repubblica riconosciuta fino ad oggi solo dall’Ossezia del Sud). L’esercito ucraino avanza, ma abbastanza lentamente. Esso può certamente contare su effettivi più numerosi dei resistenti. Ma in suo sfavore sembra giocare una certa demotivazione delle truppe, mal pagate e che non comprendono il senso dell’azione contro la popolazione del Donbass. Di conseguenza la riconquista delle città procede lentamente, accompagnata da rovesci (e accessoriamente da crimini guerra, come il lancio di razzi Grad su zone residenziali di Donetsk, denunciata da Human Rights Watch). L’esercito regolare è coadiuvato da milizie di estrema destra, la cui efficienza resta incerta, come si è visto nel corso dell’offensiva del battaglione di volontari neo-nazisti venuti da tutta Europa “Azov” contro la collina strategica di Saur-Mogila, tre settimane fa. Questi bravacci (che non suscitano alcuna repulsione in Bernard-Henri Levy) si sentono più a loro agio contri civili disarmati. A fine luglio dinanzi alle telecamere, perché il video è riuscito a restare qualche ora su Youtube, si vedeva il battaglione del deputato radicale Oleg Liachko (che non disdegna di minacciare personalmente i civili nelle città riconquistate), arrestare il sindaco della città di Stakhanovo (77.000 abitanti) mentre era in ferie e imprigionarlo solo perché aveva partecipato al referendum di autodeterminazione della regione.


Nell’attesa di un’ipotetica vittoria militare, lo Stato ucraino guidato dal regime putschista di Kiev ha difficoltà a sopportare il costo finanziario e morale di questa guerra impopolare. Il primo ministro Arseni Iatseniuk ha calcolato che occorrono 2 miliardi di dollari per riconquistare il Donbass, quando fa fatica anche a pagare i funzionari governativi. La prima “rivoluzione arancione” si era fracassata contro il muro delle lotte tra i clan, lo stesso problema si pone per il regime attuale. A ciò si aggiunga che il plusvalore economico di un paese largamente saccheggiato dai suoi oligarchi e dai cacicchi della “rivoluzione arancione” e poi del Partito delle Regioni, e oggi privato delle sue vie di comunicazione commerciali naturali con la Russia, è molto magro. E siccome l’Occidente non è disposto a mettere mano al portafoglio (anche se il FM ha appena sbloccato i 17 miliardi di dollari in cambio di una cura di austerità nei servizi pubblici), le prospettive del nuovo regime non sembrano particolarmente faste.


Il nuovo presidente della Repubblica, il magnate del cioccolato Petro Porochenko ha creduto di trovare una via d’uscita politica convocando nuove elezioni legislative per la fine di ottobre. Non si sa se questo scrutinio garantirà la stabilità del paese. Sono però poche le probabilità che esse saranno un successo per la democrazia. Nell’Est del paese certamente, dove, nei territori riconquistati, è impossibile fare mostra di ostilità nei confronti del regime di Kiev (Il Parlamento ipotizza addirittura di privare i separatisti della cittadinanza e dei loro beni), ma anche all’Ovest dove, per esempio, il Partito comunista (relativamente potente in Ucraina) si è visto praticamente vietare le sue attività – Petro Simonenko, numero 1 del PC è attualmente destinatario di denunce da parte del partito Sloboda (ultranazionalista) e della “Patria” (del clan Tymoschenko). Tutti i movimenti sospetti di simpatie filo-russe si trovano nella stessa situazione, mentre i neonazisti del partito “Settore destro” hanno annunciato la partecipazione alle elezioni con la ferma intenzione di prendere il potere attraverso le urne. Segno, direbbero Bernard-Henri Levy e i “democratici” occidentali, che accettano il processo parlamentare… Effettivamente, ma mentre già controllano in parte il gioco democratico con la loro capacità di intimidazione nelle piazze, non è certo che la prospettiva della loro presenza in Parlamento sia di buon auspicio per il futuro.


In una intervista al quotidiano liberale francese L’Opinion del 29 luglio 2014, Philippe Pegorier, patron di Alstom-Russia, rimprovera agli Europei, che Putin voleva in origine far diventare i suoi principali partner economici, di spingere la Russia nelle braccia della Cina, con la loro politica di sanzioni. Ricordava che questo potrebbe costare alla Francia 100.000 posti di lavoro… Nessuno sa ancora quanto la politica anti-russa delle nostre élite costerà in totale, in termine di benessere economico e di vite umane, all’Ucraina…