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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), novembre 2020 (trad.ossin)
 
Che cosa vuole veramente il presidente Erdogan?
Alain Rodier
 
Molti si chiedono a cosa miri davvero il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. La risposta è semplice: aspira a diventare il leader del mondo musulmano. Ovviamente il modello è quello dell’Impero ottomano e, per esempio, fa esibire i giannizzeri durante le manifestazioni ufficiali, per ricordarne la grandezza e il terrore che hanno ispirato per decenni. Ma non è lo spirito di conquista che lo motiva nel profondo
 
Il Presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan
 
Influenzato dai Fratelli Musulmani – confraternita alla quale è fortemente sospettato di appartenere e della quale è tra i più ferventi sostenitori con il Qatar - il suo sogno è di diventare il “nuovo califfo”. Ma i suoi giorni sembrano contati se è vero quanto si mormora, che sia affetto da una “lunga malattia”, come si usa dire pudicamente, dal 2012. Erdoğan si è illuso, al tempo delle primavere arabe, che fosse giunto il suo momento di gloria. Pensava che i Fratelli Musulmani avrebbero vinto in tutto il mondo arabo-musulmano e che lui sarebbe stato designato come il loro leader naturale. Se ha trovato motivi di soddisfazione per quanto accadeva in Tunisia, è rimasto molto deluso dagli avvenimenti in Egitto, Libia e Siria. I suoi attuali comportamenti possono meglio essere compresi, se si analizzano gli obiettivi che si propone.
 
Mentre le relazioni tra la Turchia e lo Stato ebraico erano eccellenti [1] coi suoi predecessori laici negli anni 1990-2000, Erdogan manifesta apertamente la propria ostilità nei confronti di Israele per presentarsi come l’unico leader rimasto sul fronte della lotta per la Palestina. Vero è che questa causa non ha mai davvero appassionato i paesi arabi. Inoltre le rivendicazioni dei Palestinesi – almeno fino ad oggi – sono prima di tutto nazionaliste e non religiose. Ma poco importa per Erdogan, tutto rientra nell’immagine che vuole dare di sé.
 
Il sostegno alla causa palestinese gli consente anche di fare concorrenza all’Iran, grande avversario da sempre della Turchia, che pure è impegnato sul fronte filo-palestinese sebbene per un altro scopo: avere un mezzo di pressione su Israele, sempre designata, insieme agli Stati Uniti, come i “Satana”. Va ricordato che anche l’ayatollah Khomeiny ambiva a diventare leader del mondo musulmano, anche se le sue ambizioni sono state contrastate, in primo luogo, dall’offensiva lanciata dall’Iraq di Saddam Hussein nel 1980, poi dalla crescente ostilità del mondo sunnita verso un Iran sciita considerato “apostata” (traditore dell’islam), non solo da parte dei più radicali, ma anche dalla piazza arabo-sunnita. Non è ben visto essere sciiti nella maggior parte dei paesi musulmani, a parte l’Iraq, la Siria e il Libano (e anche nella parte est dell’Arabia Saudita e nell’ovest dello Yemen).
 
L’intervento di Erdogan in Siria aveva due obiettivi. Il primo era di rovesciare il presidente Bachar el-Assad – col quale intratteneva ottime relazioni prima delle «rivoluzioni» del 2011 – per favorire la nascita di un regime legato ai Fratelli Musulmani che lo riconoscesse come il nuovo Califfo. E sembrava sul punto di riuscirci, fin quando la Russia non è intervenuta militarmente [2] nell’ottobre 2015. Per una volta, il problema curdo era passato in secondo piano, fino a quando gli Occidentali non hanno cominciato a sostenere gli attivisti siriani del PYD. Il risentimento di Erdogan nei loro confronti si è allora raddoppiato ma, non potendo prendere direttamente a bersaglio gli Stati Uniti – a parte l’acquisto del sistema anti-aereo russo S-300, ragione per la quale Washington ha poi vietato per rappresaglia la vendita degli aerei F-35 alla Turchia -, ha lanciato i suoi strali contro la Francia, che ha accusato di “colonialismo”. Dimenticando che Ankara ha regolarmente votato all’ONU contro l’Algeria tra il 1954 e il 1962. E in materia di colonialismo, la Turchia non ha titolo per dispensare lezioni, dato il passato ottomano che i paesi arabi non hanno dimenticato.
 
In Iraq, sono i Curdi del PKK ad ossessionare il presidente turco, insieme a quelli dello UPK (clan Talabani), vicini all’avversario iraniano. La presenza militare turca nell’Iraq del Nord non manifesta una volontà di conquista ma ha solo ragioni di concorrenza nei confronti di Teheran.
 
Al contrario, in Libia, Erdoğan ha trovato un campo di battaglia ideale per appoggiare un governo legale amico della confraternita e riconosciuto dalla comunità internazionale. Spera di ricavarne un giorno i frutti sperati ma gli è di ostacolo il maresciallo Haftar, appoggiato da Mosca – contro cui Erdogan non può fare granché – e più discretamente da Parigi, cosa che attizza il suo furore contro la Francia, che sbarra la strada alla realizzazione del suo sogno.
 
L’Alto Karabakh è un teatro di guerra particolare, giacché vede opposti l’Azerbaijan all’Armenia, paese considerato nemico da Ankara [3]. Baku è tra l’altro in freddo dal 1991 con Teheran, che per opportunismo appoggia Erevan. La situazione permette dunque a Erdogan di opporsi contemporaneamente al suo nemico armeno e al suo avversario iraniano, ai Russi - che appoggiano molto moderatamente gli Armeni – e … ai Francesi, che pendono – per ragioni di politica interna – dalla parte di Erevan.
 
Per finire, l’attuale avversario designato del presidente turco è la Francia che – ricordiamolo – intratteneva le migliori relazioni con la Turchia negli anni 1990, quando quest’ultima aveva un governo davvero laico. Il presidente Mitterrand, nel 1992, si è perfino recato per due volte in Turchia in visita ufficiale, e poi ancora a titolo privato. La cooperazione economica era intensa, sia in ambito civile che militare. Se si fosse voluto integrare la Turchia in seno all’Unione Europea, era questo il momento per farlo. In tal modo si sarebbe forse impedito agli Islamisti di prendere il potere.
 
Come coi bambini durante la ricreazione, la domanda è : «chi ha cominciato per primo? » Se si guarda la situazione dal versante turco, Parigi non è per nulla esente da responsabilità. Anche nei tempi più recenti, quando la Francia ha dato asilo ad “attivisti” di estrema sinistra con le mani sporche di sangue, come Dursun Karataş (leader del DHKP-C) o ad elementi della rete legata al PKK che praticavano il racket sui Curdi immigrati… per non parlare di lobbie profondamente anti-turche [4]. Quindi non meraviglia che le “mitragliate politiche” lanciate dall’Eliseo contro Ankara negli ultimi tempi siano state mal digerite, anche se in fondo giustificate – ma questa non è “diplomazia”. Quando ci si comporta in questo modo, bisogna avere la forza di “vedere”, come al poker. L’esempio libanese è solo l’ultimo in ordine di tempo e i nostri interlocutori esteri – anche i meglio intenzionati – vi vedono solo i segni della sufficienza e dell’arroganza di Parigi.
 
Nel momento in cui la Francia – come altri – attraversa un periodo di forti turbolenze, la prudenza dei leader di governo, come di opposizione, sarebbe forse auspicabile, specie nei confronti della Turchia. E modestia non vuol dire rinuncia.
 
 
Note:
 
[1] Per esempio sono stati gli Israeliani a fornire alla Turchia la tecnologia dei droni negli anni 1990. All’epoca Ankara ambiva a rafforzare il controllo sulle frontiere con la Siria e con l’Iraq, per impedire le infiltrazioni del PKK. Oggi sono i droni turchi ad aver fermato il maresciallo Haftar in Libia e sempre droni turchi hanno inferto gravi sconfitte all’Armenia nella guerra con l’Azerbaijan.
 
[2] Peraltro tra i due paesi vi sono delle relazioni complesse. La potenza russa controbilancia la capacità turca di nuocere. Sono “amici che si odiano” ma che sono obbligati ad allearsi localmente (Siria, Iraq, Libia).
 
[3] Vi è una gradazione di differenza con la parola “avversario” perché il “nemico” è oggetto di odio.
 
[4] E’ talvolta stupefacente che nemici teoricamente irriconciliabili come la Germania e la Francia (guerre del 1870, 1914 e 1939 con milioni di morti) siano diventati, grazie al generale de Gaulle e al cancelliere Adenauer, dei “paesi fratelli”, mentre altri contenziosi non riescano a trovare una composizione, come nel caso di quelli esistenti tra la Francia e l’Algeria o la Turchia e l’Armenia,
 
 
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