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Afrique Asie, giugno 2011


La rivoluzione sta morendo…
Philippe Lebeaud


Tunisia. Delusione? No. Disincanto senz’altro. Il popolo sta vivendo la seconda fase della sua rivoluzione nell’incertezza del domani e il timore del ritorno di un bastone che potrebbe colpirlo in pieno viso


Tutti i giorni qualche migliaio di manifestanti proclamano nelle piazze la “perennità della rivoluzione”, la forza del movimento popolare, e il desiderio di cambiamenti rapidi. Dall’altro lato, una “maggioranza silenziosa” è angosciata dall’incertezza del futuro. Quando esce dal suo mutismo, si affanna a reclamare il ripristino della sicurezza e il ritorno alla stabilità, soli fattori in grado di consentire la ripresa dell’attività economica. Non osa ancora pronunciare le espressioni “rilancio” e “crescita”. Da diversi mesi l’economia è messa a dura prova dagli scioperi e dagli interventi intempestivi nella governance delle imprese pubbliche e private dei collettivi, che ufficialmente sarebbero “spontanei”, ma che si considerano ispirati dall’estrema sinistra o dai dissidenti dell’Union générale tunisienne du travail (UGTT). Con la sola parola d’ordine: “Vattene”, quella stessa che era stata gridata a gola spiegata dopo la fuga di Ben Ali.

Tra i due “blocchi” si sono infilati quelli che pescano nel torbido. Chi sono? I più identificabili sono i delinquenti, ladri e devastatori, spesso pregiudicati e beoni. Si divertono un mondo, seminando il terrore di notte in certi quartieri, costretti a improvvisare delle ronde cittadine a loro rischio e pericolo. La polizia, ingiustamente delegittimata in blocco, diventata timorosa e senza ordini, ha abbassato le braccia. I commissariati funzionano solo in apparenza. Come si può risalire il pendio e ristabilire un minimo di autorità? E’ la quadratura del cerchio per il Ministero dell’interno, i cui funzionari si sono sentiti delegittimati e maltrattati dal primo titolare del portafogli del dopo-rivoluzione, Farhat Rajhi, un magistrato senza esperienza, che ha dovuto dimettersi in fretta e furia sotto la pressione. In seguito si è dedicato al regionalismo e sposato la teoria del complotto, denunciando un “gabinetto nero” intorno al primo ministro. Prima di ritrattare e fare il mea culpa.

Ci sono i revanscisti. Si tratta di ex elementi della polizia politica diretti dal generale Ali Sériati (attualmente detenuto). Ma in condizione di disoccupazione forzata, hanno perduto insieme il loro potere e i loro privilegi. Fanno parte di un complotto (un altro) per restaurare il regime antico? L’estrema sinistra – che sogna di rifare la Comune di Parigi al sud del mediterraneo e “le grand soir” – lo strilla a voce sempre più forte. Nel suo breviario politico, questo spauracchio ha surclassato quello dell’islamismo. Sono strumentalizzati da un “partito dell’ordine” – pronto a pagare per la sua sicurezza? Non è da escludersi.

In questo teatro d’ombre, i Tunisini vivono nell’aspettativa. Se rifiutano la vecchia classe politica, non hanno accettato per nulla la nuova. Essa sembra loro immatura, confusionaria e inconsistente. Si riconoscono sempre meno nel movimento popolare che hanno avviato e che sembra loro sfuggire di mano. Il primo ministro Béji Caid Essebsi (BCE) naviga a vista. La sua insistenza a mantenere la scadenza dell’elezione della Costituente, che avrà comunque luogo il prossimo 24 luglio, è segno della sua impazienza ad uscire dal provvisorio dopo aver “legittimato” il nuovo sistema, o piuttosto della sua stanchezza? Tutto si svolge infatti come se il “governo provvisorio” – e non già transitorio come tengono a sottolineare i partiti – non avesse più la forza di continuare. Come se non avesse nessun altro programma se non quello di dimettersi senza aspettare la tempesta che sta addensandosi con grandi nuvole nere in un cielo ancora blu.

Delle voci si sono anche fatte sentire perché si ritorni alla Costituzione liberale del 1959. Essa dovrebbe essere espurgata dalle aggiunte che hanno consentito il potere personale e reso possibile la presidenza a vita. La nuova legge fondamentale dovrebbe essere ratificata da un referendum popolare, sotto l’alta sorveglianza dell’esercito, che ne sarebbe il principale garante. E’ lo schema egiziano che sarebbe in questo modo adottato e il ritorno alla casella di partenza di una rivoluzione che continua a balbettare.