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Jeune Afrique 20/26 luglio 2008

 

Giustizia internazionale: dove arriverà la CPI?

 

La richiesta del procuratore della Corte penale internazionale di incriminare il presidente sudanese el-Bechir crea imbarazzo. Rischia di aggravare la situazione in Darfour. E, sconcertante coincidenza, le persone deferite davanti al Tribunale di Le Haye o in procinto di esserlo, sono tutti africani…

 

François Soudan

 

Ci sono errori che, a forza di essere ripetuti, appaiono come verità. Contrariamente a quanto è stato detto e scritto dal 14 luglio, Omar el-Bechir, 64 anni, non è il primo Capo di Stato in carica messo sotto inchiesta dalla giustizia internazionale. Il Serbo Slobodan Milosevic – incolpato nel marzo 1999, destituito nell’ottobre 2000 – ed il Liberiano Charles Taylor – ufficialmente accusato nel marzo 2003 ed esiliato volontario un mese più tardi – lo sono già stati prima di lui. Ma il presidente sudanese figura nella testa di lista del carniere del procuratore della Corte Penale Internazionale Luis Moreno-Ocampo, per il suo ruolo chiave in un dramma allo stesso tempo atroce, passionale, propizio alle spirali catastrofiste, e ad alto contenuto mediatico: il Darfour.
Se Milosevic è il simbolo della pulizia etnica, Taylor quello dei crimini di guerra, Thomas Lubanga dei bambini-soldato e Jean-Pierre Bemba l’incarnazione del capo delle milizie paramilitari, el-Bechir occupa un posto a parte nella classificazione della CPI. In questo figlio di contadini, ex paracadutista che partecipò alla guerra contro Israele del 1973 prima di impossessarsi di un potere battezzato col sangue (ventotto esecuzioni) ed al quale si tiene aggrappato col pugno di ferro da due decenni, Luis Moreno-Ocampo ha trovato il suo “Hitler nero”.
A condizione, naturalmente, di condividere i capi di incolpazione consegnati dal procuratore argentino, la comparazione si impone da sé.
L’essenziale della “Richiesta del procuratore di emettere un mandato di arresti ai sensi dell’art. 58 contro Omar Hassan Ahmad el-Bechir”, resa pubblica a Le Haye, concerne in effetti il “crimine di genocidio”, del quale il presidente sudanese si sarebbe reso colpevole negli ultimi cinque anni in Darfour. I capi di incolpazione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità sono solo un battere sullo stesso tasto, è al “crimine dei crimini”, quello di volontario sterminio delle tre principali tribù del Darfour – i Four, i Masalit ed i Zaghawa –, che si applica il Fouquier-Tinville della CPI.

 

Diavolo ideale

La richiesta di Moreno-Ocampo si articola in tre parti. Prima di tutto i fatti: massacri, stupri, trasferimenti forzati, distruzione di villaggi, di raccolti, di bestiame e di pozzi, furto di terre, attacchi mirati contro i campi dei rifugiati. Altrettanti elementi che, valutati unitariamente, compongono il genocidio. Poi la responsabilità: è lo stesso el-Bechir, secondo il procuratore, che “controlla e dirige gli autori” di questi delitti dal marzo 2003. “Il suo controllo è totale” martella, così come è totale “l’impunità” di cui godono i seguaci del regime. Infine il piano. “Il signor el-Bechir ha elaborato un piano del quale dirige l’esecuzione”, assicura Moreno-Ocampo. L’obiettivo è di “eliminare una parte importante dei gruppi four, masalit e zaghawa in quanto tali”; “mira al genocidio”, il suo “intento” è chiaramente “genocidiario”.
Tanto premesso, il procuratore non poteva fare a meno di chiedere l’emissione di un mandato di arresto. Da un anno, basandosi sulle medesime premesse, una batteria di intellettuali europei esige che vengano armati i ribelli ribattezzati “combattenti per la libertà”. La strada intrapresa da Moreno-Ocampo è sicuramente più ragionevole, ma è anche più responsabile?
Il meno che si possa dire è che la parola genocidio accostata al dramma del Darfour pone dei problemi. Il primo a utilizzare questa espressione, fin dal 2003, è stato un ebreo nordamericano, direttore del memoriale dell’olocausto a Washington. Immediatamente la lobby nera – soprattutto il Black Caucus del Congesso – già mobilitatasi durante la guerra del Sud Sudan, la riprende per suo conto, imitata dalla lobby ebraica e dai cristiani evangelici neoconservatori.
Nella primavera del 2004 l’amministrazione Bush si converte a questa tesi. Per una duplice ragione: la pressione dell’elettorato (si è in piena campagna presidenziale) e l’opportunità di una valvola di sfogo perfetta per sviare l’attenzione dall’Iraq e dal Vicino Oriente. Ottuso, militarizzato, arabo-mussulmano vicino all’islamismo violento, il regime sudanese rappresenta davvero il diavolo ideale.
Ma nel febbraio 2005 una commissione di inchiesta dell’ONU contraddice questa versione: quello che succede in Darfour può definirsi come crimine di guerra o crimine contro l’umanità, non come genocidio. Stiamo attenti, aggiungono gli inquirenti, a non banalizzare questa parola terribile. Un avvertimento che non impedisce che questo termine, propagandato da una pleiade di vedettes holliwodiane, faccia furore negli Stati Uniti, tanto che sia John McCain che Barack Obama l’hanno immediatamente incluso nel loro vocabolario…
Fondando la maggior parte del suo argomentare sul “crimine di genocidio”, Luis Moreno-Ocampo ha dunque realizzato un “colpo” mediatico da tempo nell’aria e gettato un sasso nello stagno. Ma corre anche un rischio: di non poterlo provare.
A Norimberga come ad Arusha (città della Tanzania, sede del Tribunale internazionale per il Rwanda, ndt) abbondavano i documenti scritti, sonori e visivi, per dimostrare la logica genocidaria dei nazisti e dei fanatici dell’”Hutu power”. Nel caso del Darfour, non esiste niente a nostra conoscenza che attesti l’esistenza di un piano concertato, elaborato, archiviato di sterminio delle etnie four, masalit e zaghawa.

 

Sullo sfondo delle razzie

Si potrà ancora obiettare al Procuratore che gli abitanti del Darfour che vivono a Khartoum, dove sono numerosi, non sono stati - se non marginalmente – toccati dalla violenza del potere. Si potrà soprattutto raccomandargli di far mostra di un po’ meno certezze: se tutti si accordano per considerare il generale el-Bechir come primo responsabile della spaventevole sorte riservata ad una parte dei suoi concittadini, la situazione caotica che regna alla frontiera col Ciad, dove si affrontano guerriglie, gang di tagliatori da strada, clan frammentati sullo sfondo di razzie e regolamenti di conti, obbliga l’osservatore all’umiltà. Nessuno può pretendere di possedere la chiave di lettura giusta per un conflitto così complesso.
Quali saranno le conseguenze di questo colpo di teatro? Quelli che approvano la decisione del procuratore della CPI di incriminare el-Bechir non sembrano farsi molte illusioni sul suo accoglimento da parte della Corte. Ma scommettono che servirà a fare pressione sul presidente sudanese mantenendo sul suo capo, per qualche tempo, una spada di Damocle, in modo che faccia delle concessioni al Darfour. I più ottimisti giungono perfino a prefigurare un “effetto Milosevic”, per l’elezione presidenziale del 2009: discreditato agli occhi dell’opinione pubblica interna come lo fu all’epoca il padrone di Belgrado, l’uomo forte di Khartoum potrebbe essere disconosciuto dagli elettori – a condizione naturalmente che le elezioni siano libere. Sempre si può sognare…
Il Washington Post va oltre: occorre – scrive in un editoriale – appoggiare l’iniziativa del procuratore decretando un embargo sul petrolio sudanese, disturbando le comunicazioni interne del regime e vietando il sorvolo del territorio sudanese a tutti gli aerei militari. Alcuni dicono anche di favorire un colpo di Stato militare a Khartoum, addirittura la presa del potere da parte dei ribelli del capo guerrigliero Khalil Ibrahim.
Apprendisti stregoni da un lato, Cassandre dall’altro: molti osservatori temono che la prova di forza di Moreno-Ocampo provocherà al contrario un indurimento del potere, una esplosione di violenza ed,a medio termine,la riapertura del fronte sud, con la rottura degli accordi del 2005. Insomma lo scenario catastrofico di una “somalizzazione” del Sudan.

 

Anomalia scandalosa
Oltre a ciò, la decisione del procuratore argentino suscita evidenti imbarazzi. Gli elementi costitutivi del “crimine di genocidio”, così come egli li indica nella sua richiesta. avrebbero potuto molto più  appropriatamente essere rilevati nei casi di repressione, di guerre coloniali, dell’invasione dell’Iraq e di notevoli aspetti della politica israeliana nei territori occupati. Ariel Sharon e Donald Rumsfeld sono sfuggiti alla giustizia internazionale, così come- a quanto sembra – i generali birmani, per la semplice ragione che la CPI non ha mai sentito l’obbligo morale di intervenire. Due pesi, due misure?
Curiosamente il più importante gruppo tra i firmatari dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale è stati quello degli Stati Africani, 30 su 106 al 1 giugno 2008. Ma, al pari del Sudan, né gli Stati Uniti, né Israele, né – ad eccezione della Giordania e dell’Afghanistan – alcun paese arabo mussulmano, Maghreb compreso, si è degnato di ratificare questo accordo. Ora, questa scandalosa anomalia non suscita alcuna reazione, alcuna campagna indignata da parte degli avvocati della Giustizia internazionale.
Naturalmente la CPI costituisce in sé un considerevole progresso; certamente quelli che criticano Moreno-Ocampo lo fanno spesso per cattive e indicibili ragioni. Ma un po’ più di equilibrio, per dirla tutta di equità nelle sue iniziative aiuterebbe grandemente l’opinione africana a riconoscere che, sui dodici individui attualmente deferiti o minacciati di esserlo (come el-Bechir) davanti ai 18 giudici della Corte, sono tutti senza eccezione degli Africani. Sarebbe almeno discriminatorio in effetti che la competenza universale della CPI si riduca ad una semplice competenza africana.