Il disastro umanitario



di Valerie Thorin

 

 

Quanto tempo durerà ancora quella che viene chiamata, in modo inappropriato, la “pulizia etnica” in Darfur? Nessun uomo politico, nessun diplomatico, nessuno specialista rischia oramai di azzardare delle ipotesi. Tutti i tentativi fatti dall’inizio della crisi nel 2003 per fare cessare i combattimenti si sono dimostrati vani. Il governo di Khartoum  ha fatto tutto quello che gli è stato domandato dalla comunità internazionale, ma alla fine dei conti non vi è stata alcuna tregua. Al contrario, la situazione si è ancora più degradata in queste ultime settimane, con l’accendersi di nuovi scontri, questa volta tra le tribù arabe. L’apertura di questo nuovo fronte viene a smentire la definizione di “genocidio” applicata a questo conflitto, soprattutto da parte nordamericana.

 

Campi sovraffollati
In effetti esso non risponde ai requisiti stabiliti dall’articolo II della convenzione di Ginevra del 1948, elaborata all’indomani della Shoah, che definisce la nozione di genocidio. Non ci sono infatti distinzioni nazionali o religiose tra carnefici e vittime. I matrimoni interetnici e le ascese sociali hanno reso evanescente la frontiera tra “Arabo-Sudanesi” e “Negro-Sudanesi”, a dispetto delle differenze linguistiche. Sono stati certamente commessi dei crimini di guerra e contro l’umanità, ma non è rilevabile una volontà di sterminio sistematico delle donne, dei bambini e dei vecchi che si trovano in gran numero nei campi. D’altra parte la pianificazione dei massacri non è accertata.
Nel suo ultimo rapporto, l’organizzazione Human Rigts Watch osserva uno scivolamento di quella che era, all’inizio, una guerra civile che opponeva forze governative e ribelli armati verso un indescrivibile caos, la cui posta principale è l’accesso alle risorse della regione, spesso di origine umanitario. 
Oramai si affrontano l’esercito regolare, le milizie filo-governative, i ribelli – i cui tre principali gruppi sono oggi scissi in multiple fazioni le une opposte alle altre -, e i gruppi di banditi, talvolta forti di un centinaio di individui. Le vittime, dal canto loro, non sono cambiate: continuano a essere sempre i civili disarmati, i contadini  - agricoltori e allevatori – che non tentano nemmeno più di difendersi, sballottati per colpa dei combattimenti da un rifugio ad un altro, cui interessa solo raggiungere gli immensi campi profughi che circondano oramai le città.
Le cifre sono preoccupanti . Secondo l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), 4,1 milioni di persone hanno bisogno di un aiuto umanitario urgente, cioè praticamente quasi tutti gli abitanti della regione, stimati oggi in 6 milioni. Circa 2,2 milioni di essi sono degli “sfollati”, nel senso attribuito dall’ONU a questo termine, vale a dire persone cacciate dai loro villaggi dai combattimenti, ma che sono rimasti sul territorio sudanese. Duecento mila sono “rifugiati”: essi hanno attraversato la frontiera col vicino Tchad e sono oramai presi in carico dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR). Il loro numero non é quasi per niente aumentato in quattro anni perché il Tchad, anche esso agitato da ribellioni, non presenta condizioni ideali di sicurezza per i fuggiaschi. Inoltre la frontiera si trova molto lontano dalle zone di combattimento del Darfur e le famiglie evitano generalmente di intraprendere un viaggio così lungo, pericoloso per loro quanto gli attacchi e i bombardamenti aerei che colpiscono i loro villaggi. Da qui il numero molto alto di sfollati che si rifugiano nei campi interni.
Questi sono gestiti o direttamente dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), o da altre organizzazioni non governative, coordinate in definitiva dal CICR, che riveste il ruolo di Lead Agency sul territorio per garantire organicità nella realizzazione degli aiuti.
E’ la più grossa operazione umanitaria realizzata dal CICR, che dispiega mezzi considerevoli. Prima di tutto finanziari, con 60 milioni di euro spesi nel 2006, così ripartiti: 65% per aiuti (alimenti, acqua, cure veterinarie, chirurgia di guerra, aiuto medico), il resto diviso in parti uguali tra mezzi di protezione (baracche, tende…) e la prevenzione/cooperazione con altre organizzazioni come la Croce Rossa, etc. Anche risorse umane, con 170 occidentali dispiegati sul terreno e 1.500 sudanesi reclutati sul posto.
Detto questo, la situazione è cattiva. I continui combattimenti provocano un afflusso ininterrotto nei campi di migliaia di Darfuriani, spossati da giorni di marcia, sottoalimentati, perfino malati, e che costituisce una pressione demografica enorme su installazioni già sovraffollate. Tra l’aprile e il giugno 2007, sono stati ricevuti 90.000 nuovi arrivati, vale a dire un totale di 170.000 sfollati più che nel primo semestre. Nessuno se ne vuole andare. Con l’eccezione di Zam Zam, situata vicino alla capitale regionale El Kasher, tutti i campi che si trovano vicino alle grandi città hanno raggiunto, fin dalla fine di giugno, il massimo della loro capacità di accoglienza e le scorte alimentari sono intaccate.

 

CICR e ONG sono aggredite
Gli accampamenti non sono tutti situati vicino ad agglomerati urbani. Certi, più piccoli, sono lontani dalle grandi arterie, addirittura nascosti nelle sinuosità del terreno. Se questa lontananza può costituire una – relativa – garanzia di sicurezza, rende tuttavia il loro accesso più difficile per gli aiuti umanitari. In linea generale, l’ingresso in Darfur resta largamente condizionato alle autorizzazioni amministrative di Khartoum e alla benevolenza dei potentati locali la cui identità cambia con gli esiti delle battaglie, delle alleanze e dei ribaltoni. La CICR confessa di dovere qualche volta trattare con una dozzina di diversi interlocutori solo per fare passare un convoglio. Cosciente che il lavoro umanitario rappresenta un mezzo di pressione sulla comunità internazionale, il presidente sudanese Omar al-Bachir non esita ad usare le sue autorizzazioni di accesso come altrettante ricompense quando vince una causa. E’ così che si è potuto sbarazzare della risoluzione 1706 del 2006 del Consiglio di Sicurezza, che prevedeva l’invio di 17.300 caschi blu e 3.300 poliziotti, facendo il cambio con la missione dell’Unione Africana.
L’ONU non riesce ad essere perfettamente operativa in Sudan. Dal 1 luglio 2007, le sue agenzie periferiche, l’Unicef in testa, trovano migliore accesso alle regioni dell’ovest e del nord, senza tuttavia ritornare al livello del 2004 – 2006. Ahimé! Questo non è affatto il risultato di un miglioramento della sicurezza generale, ma piuttosto la conseguenza di una maggiore frequenza dei viaggi aerei, una strategia di aggiramento, tanto efficace quanto costosa.
Se la CICR, la Croce Rossa e le altre organizzazioni non governative trovano un po’ meno di difficoltà a raggiungere le zone sensibili, adottano tuttavia sempre maggiori precauzioni, dal momento che subiscono aggressioni assassine. Tra l’aprile ed il giugno scorso, vi sono stati quattro morti e quindici feriti tra il loro personale in tutta la regione, sette rapimenti effettuati dalle forze governative e sei dall’esercito di liberazione del Sudan (SLA), movimento ribelle diretto da Minna Minawi. Sono frequenti le distruzioni di materiale: nello stesso periodo sono stati vandalizzati tre dispensari all’interno dei campi ad opera di uomini in armi e undici saccheggi hanno intaccato le riserve di alimenti. Conseguenza: nel maggio 2007, l’Ocha ha stimato che circa 566.000 persone, su 6 milioni di darforiani, non hanno potuto essere assistiti dalle agenzie umanitarie.

 

Mobilitazione dei divi

Il 31 luglio 2007 il Consiglio di Sicurezza ha infine ottenuto l’accordo di Khartoum per il dispiegamento di una forza “ibrida” di 26.000 soldati e poliziotti, composta da caschi blu e militari dell’Unione africana (Unamid). Con l’obiettivo di proteggere i civili e i lavoratori delle agenzie umanitarie, in vista anche del raggiungimento di un accordo di pace. Una scommessa, dal momento che, nella notte dal 29 al 30 settembre scorso, un attacco ha provocato dieci morti tra i soldati senegalesi dell’attuale missione dell’Unione africana in Sudan (Amis).
Aspettando che l’Unamid sia operativa, i Darfuriani devono confrontarsi con l’insicurezza quotidiana. Così resta forte la mobilitazione, sia in seno alle Nazioni Unite che nella società civile internazionale, per “aiutare il Darfur”. Parola d’ordine ritrasmessa dai pipoles. Gli attori holliwodiani Angelina Jolie e Brad Pitt hanno offerto nel maggio scorso un milione di dollari per aiuti ai rifugiati. Sulla scia di quanto aveva fatto Gorge Clooney che, con suo padre Nicholas Clooney, ex giornalista della televisione oggi sessantaquattrenne, era andato nell’ aprile 2006 in Darfur via N’djamena. Ne ha tratto un documentario e più volte si è espresso su questa questione nei media nordamericani. Nel settembre 2006 ha potuto anche sostenere questa causa davanti al Consiglio di Sicurezza insieme al premio Nobel della pace 1986, Elie Wiesel. 
Così come le rivendicazioni del Sud Sudan – in maggioranza cristiano – avevano mobilitato le lobbies conservatrici della destra nordamericana, soprattutto quelle vicine agli ambienti degli evangelisti, la questione della protezione dei civili in Darfur ha raccolto un consenso più vasto, ma per lungo tempo intorbidato dalla rappresentazione di un conflitto “Arabi contro Negro-Africani” datone dai media, che si è rivelato molto sbagliato.

 

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