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L’imbroglio del Darfur

 

Che pensare di quello che sucede nel Darfur, questa provincia sudanese di 500.000 km quadrati, con sei milioni di abitanti, sconvolta, dopo il febbraio 2003, dalla ribellione e dalla repressione?

 

Il Darfur è teatro di un “genocidio”, come hanno decretato i parlamentari nordamericani, o piuttosto di “crimini di guerra” imputabili ad entrambe le parti, comme attestato dalla recente esecuzione di soldati di pace africani disarmati, da parte di una fazione ribelle?  I massacri sono causati dall’odio che contrappone “tribù arabo-islamiche ed etnie africane”? Miliziani lealisti janjawid (predoni armati, ndt) e dissidenti non assomigliano piuttosto a dei fratelli – come suggerisce il settimanale francese Telerama – dato che i belligeranti sono tutti neri, mussulmani, e spesso arabofoni?
Afrique Asie analizza i moventi dei pricipali attori nazionali, regionali ed internazionali inplicati nel Darfur e nel conflitto sudanese.  Si vedrà che al conflitto contribuiscono cumulativamente sia ambizioni personali che motivazioni ideologiche, oltre ai calcoli geopolitica ed agli effetti del conflitto arabo-israeliano, ed ancora interessi petroliferi e idrici e ragioni di natura finanziaria.
Sicuramente, la miccia di questo processo infernale, come spesso accade nei paesi del sud, é stata il deterioramento dell’ambiente naturale. Vedremo come la desertificazione, la pressione demografica e l’obiettivo di controllare le risorse sono, insieme, causa prima e conseguenza del dramma. Un dramma del quale tentiamo di valutare i danni, senza addentrarci nella guerra di cifre fantasiose che sono state avanzate qui e là. L’eventuale rinascita del terzo affluente prosciugato del grande Nilo, affrontato nel nostro dossier, potrebbe cambiare le carte? In ogni caso, non é sicuro che i protagonisti troveranno, a breve termine, un terreno di intesa. Per convincerne é sufficiente esaminare, per cominciare, il ruolo dell’Eritrea: quasi occultato dai media, é invece decisivo per l’avvenire del Sudan.



 

 

Sudan – Come e perche’ una mezza dozzina di paesi combattono una guerra non dichiarata contro il più vasto stato dell’Africa. Al di là del disastro umanitario, spesso strumentalizzato, e delle calamità climatiche - raramente prese in considerazione – la prova di forza in questa provincia sinistrata del Darfur, e altrove, rischia di fare andare in frantumi più di un paese nel continente nero.

 

I veri belligeranti ed i loro obiettivi

 

di Marc Yared

 

Eritrea, l’alleato di ieri
Le dimensioni dell’Eritrea, la sua collocazione ed il ricordo della sua liberazione, nella seconda meta’ del XX secolo, possono indurre in errore. Questo paese non dovrebbe essere il più inoffensivo, il più amichevole tra i vicini prossimi al Sudan, il meno coinvolto nel Darfur? L’Eritrea é in effetti il più piccolo (126.000 Km quadrati), il più giovane (é nato ufficialmente il 24 maggio 1993) e tra i meno popolati (5 milioni d’anime) dei nuovi Stati limitrofi del Sudan. Tra l’altro gli Eritrei – e soprattutto il loro assai autoritario capo supremo, l’attuale presidente Issayas Afeworki – devono gratitudine al Sudan che é servito come base alle forze indipendentiste durante tutto il periodo del terribile braccio di ferro con l’occupnate etiope (dal 1961 al 1991). Non fosse stato per il santuario sudanese, attraverso il quale erano convogliate le armi fornite da paesi arabi come l’Iraq e la Syria, i guerriglieri eritrei sarebbero stati annientati, alla fine degli anni ’70, nel loro ultimo rifugio di Naqfa, schiacciati da un esercito etiope pletorico, sostenuto dal Blocco socialista.
Tuttavia, della stessa origine della maggior parte dei suoi collaboratori di piu’ alto rango, tra i quali predominano i cristiani di cultura tigrinya, Issayas Afeworki, dopo aver preso il comando del suo paese nel 1991, comincia a percepire l’immenso Sudan, il suo regime islamista - ed il mondo arabo in generale che circonda l’Eritrea a nord, a est e al sud – come una minaccia almeno equivalente a quella che viene dalla potente Etiopia.
Dal momento che, dal 1991 al 1994, i commandos di un misterioso Jihad islamico eritreo infiltratosi dal Sudan cercano di minare le strade eritree nella zona di frontiera. Altre organizzazioni eritree, rivali del Fronte popolare per la democrazia e la giustizia  (FPDJ) che monopolizza il potere ad Asmara, hanno dei beni al sole a Khartoum. E’ l’epoca in cui, sotto l’influenza di cheikh Hassan al-Tourabi, Khartoum ambisce  a soggiogare i suoi vicini e a diventare la Mecca dell’islam politico sui cinque continenti.

 

...diventato l’implacabile nemico
Temibile tattico, stratega minuzioso che ha studiato l’arte della guerra in Cina, ai tempi di Mao Zedong, prima di mettere su uno degli eserciti più coriacei del terzo mondo, il presidente Afeworki fa scattare la “risposta” fin dal 1993. L’Eritrea rifiuta prima di tutto di aderire alla Lega araba e di restituire alla lingua araba lo status di seconda lingua ufficiale (riconosciuta negli anni ’50 quando era federata con l’impero etiopico). Poi il presidente Afeworki si reca platealmente in Israele, paese che, con l’Eritrea, é il solo paese rivierasco non arabo del mar Rosso. Abile nello sfruttare le contraddizioni ideologiche, etniche e tribali del campo avverso, il capo di Stato eritreo tesse la sua tela con dissidenti sudanesi venuti dalle più diverse latitudini. Asmara assicura loro una base di retroguardia, campi di addestramento, armi, appoggio logistico, sostegno politico e qualche volta diplomatico.
Si può certificare: senza l’Eritrea, mai l’opposizione alle autorità di Khartoum avrebbe trovato un minimo di coesione. Mai il Movimento popolare di liberazione del Sudan (MPLS), rimasto orfano dopo la caduta del suo ispiratore etiope, Mengistu Haile Mariam nel 1991, avrebbe potuto imporre la questione del diritto all’autodeterminazione del Sud Sudan, all’esito di una estenuante guerriglia. E mai i ribelli del Darfur avrebbero potuto sollevarsi nel 2003 e allargare le loro azioni in una provincia cosi vasta...
In breve, che Asmara abbia riaperto la sua frontiera con Khartoum nel 2006 non é veramente significativo. A torto o a ragione, l’Eritrea di Afeworki vede la sua sicurezza condizionata alla divisione – o almeno ad un decentramento molto spinto – del Sudan (e dell’Etiopia). Asmara persegue questo obiettivo oggi più discretamente di ieri, ma senza pausa: dopo il Sud Sudan e il Darfur, il Kordofan? Ma quanti anni ancora l’Eritrea può sostenere uno sforzo di guerra sovrumano che la costringe a tenere sotto le armi il 7% della sua popolazione?

 

Neutralità vigilante dell’Etiopia
Da quando le truppe di Meles Zenawi hanno conquistato Addis Abeba nel 1991, l’Etiopia non ha mai rinunciato ad una certa neutralità nei confronti di tutti i protagonisti del conflitto sudanese, soprattutto in Darfur. Questa politica contrasta con l’interventismo negli affari sudanesi praticato dai precedenti regimi etiopi. Certamente Addis non ha gradito il tentativo di assassinare il presidente Hosni Moubarak nella capitale etiope, perpetrato nel 1995 da islamisti egiziani con la probabile complicità di servizi speciali sudanesi.
D’altronde una divisione del Sudan – o un cambiamento del suo regime a profitto di élite politiche non arabe – non sarebbe necessariamente sgradita ad Addis Abeba, se provocasse una revisione del trattato sudanese-egiziano di divisione delle acque del Nilo... Un trattato che l’Etiopia giudica “esageratamente” favorevole all’Egitto.
In tutti i casi la non ingerenza di Addis negli affari sudanesi, da tre lustri, ha per contropartita la non ingerenza di Khartoum in Etiopia, sia a sostegno dell’opposizione nazionale anti-Zenawi, sia dei movimenti armati islamisti e autonomisti (oromos, somalis...). Il Sudan si é anche astenuto dall’appoggiare i Tribunali islamici somali nella loro recente prova di forza con l’Etiopia. Spiegazione: Addis e Khartoum restano solidali e vigilanti nei confronti dell’Eritrea, che le due capitali considerano come il loro avversario piu’ pericoloso.

 

Il coinvolgimento del Tchad
Dividendo 1360 km di frontiera col Sudan – e nella misura in cui il presidente Idriss Deby é lui stesso originario dell’etnia zaghawa, molto presente in Darfur – il Tchad é sospettato di sostenere la ribellione. Eppure la storia di Idriss Deby viene da lontano... E’ grazie al sostegno del regime islamico di Khartoum – e dopo avere utilizzato il Sudan come rampa di lancio per le sue colonne armate – che è riuscito a conquistare il potere a N’djamena nel 1990, dopo averne scacciato il presidente Hissein Habré. Fino al 2003, il presidente Deby é stato il capo di Stato più assiduo a Khartoum. Quali argomenti questa improbabile compagnia costituita da Lybia, Eritrea e Stati Uniti avr° usato per convincere N’djamena ad incoraggiare un sollevamento nel Darfur?
Ma l’ingerenza del Tchad ha avuto un effetto boomerang. Siccome i militari sudanesi e i loro ausiliari (janjawid ed altri) hanno risposto brutalmente alle offensive dei ribelli, realizzando anche crudeli rappresaglie contro i civili, il Tchad si trova in una situazione critica, con decine di migliaia di rifugiati del Darfur sul suo territorio.
Impopolare, minacciato da complotti – orditi perfino all’interno della sua guardia pretoriana zaghawa – bersaglio di raid lanciati occasionalmente lanciati da oppositori teleguidati da Khartoum, Idriss Deby deve la sua salvezza solo all’aviazione francese, che dispone di basi in Tchad. Un’altra boccata di ossigeno viene offerto a N’djamena dal prossimo sbarco nel suo paese di un corpo di spedizione europeo.

 
Gli atout di Gheddafi
La cintura saharaiana che lega la Mauritania al Sudan costituisce il campo di manovra privilegiato della “Guida” libica, Mouammar al-Kadhafi. Perché questo ventre molle dell’Africa oppone una minore resistenza alle sue ambizioni geopolitiche... Dopo avere avuto per lungo tempo come obiettivo il Tchad, e avere agitato di quando in quando il Mali ed il Niger settentrionale attraverso i dissidenti touareg, toubbous o arabi, la Jamahiriya punta oramai con priorità sul nord-ovest del Sudan. Il regime di Khartoum é, questo é vero, guardato con sospetto da Tripoli per i supposti agganci con gli islamisti libici e per le sue cordiali relazioni con l’Arabia Saudita, bestia nera della Guida.
Il coinvolgimento libico in Sudan non é una novità. Per opporsi all’Egitto, che storicamente sostiene il Partito democratico unionista (PDU), Tripoli ha stabilito rapporti con l’altro grande partito della opposizione sudanese, l’Oumma di Sadq al-Mahadi. D’altro canto il nord-ovest del Darfur é stato spesso percorso da pattuglie libiche e serve da vivaio per il reclutamento della famosa Legione islamica di Gheddafi. Nel 1990 Tripoli e Khartoum hanno insieme incoraggiato Idriss Derby a lanciarsi alla conquista del Tchad, partendo dal Darfur. Oggi cambio di scena: sono Tripoli  e N’djamena ad armare e sostenere i ribelli del Darfur, come i gruppi arabi del Kordofan. Si tratta di strappare al potere centrale sudanese due province ricchissime di petrolio. Precisiamo che la Lybia é in sintonia con l’Eritrea in Darfur e nel Corno d’Africa: entrambe vogliono ostacolare un rafforzamento di Khartoum e di Addis Abeba.
Assai teso, il braccio di ferro libyo-sudanese non si ritrova nei media. Si viene a sapere cosi, senza ulteriore commento, che nel giugno scorso i consoli dei due paesi sono stati reciprocamente espulsi. Khartoum non vuole – almeno non ancora – rompere i ponti con la Lybia. E’ che decine di migliaia di Sudanesi lavorano in Jamahiriya. E poi il Sudan spera che Tripoli finirà col convincere i “suoi” ribelli del Darfur ad accettare una soluzione negoziale.

 

Solidarieta’ obbligata con l’Egitto
L’Egitto é la sola potenza che ha un interesse fortissimo a mantenere l’integrità del Sudan, ed é quindi allergica a tutti i movimenti centrifughi che affliggono il grande “fratello” meridionale: il Sud Sudan, il Darfur o altro. E’ che il trattato di divisione delle acque del Nilo, molto vantaggioso per il Cairo, lega l’Egitto a tutte le autorità sudanesi che si succedono, tutte di origine nordista. Se un’altra classe dirigente si imponesse a Khartoum – o strappasse a Khartoum il controllo di una parte del paese – il trattato sarebbe rimesso in discussione, l’Egitto potrebbe essere “prosciugato”, minacciato dalla fame.
C’é stato un tempo in cui qualcosa aveva diminuito questo interesse egiziano all’intengibilità del Sudan: sotto l’influenza della sua eminenza grigia – il fortemenete anti-egiziano cheikh Hassan al-Tourabi –, il governo islamista di Khartoum aveva moltiplicato, negli anni ’90, le provocazioni contro il Cairo. Cosi c’è stata la riattivazione di una contesa di frontiera tra i due paesi nella zona semidesertica di Haleyeb (sud-est dell’Egitto), e l’attentato mancato contro il presidente Moubarak.
Che ha rivelato complicità sudanesi – e questo ha spinto Il Cairo a prestare attenzione al raggruppamento dell’opposizione sudanese. Questo e’ formalmente diretto dal Partito democratico unionista (PDU) di Mohamed Othman al-Mirghani, filoegiziano; ma la sua punta di diamante é il MPLS sud-sudanese. In breve, il rischio di rottura del cordone ombelicale egitto-sudanese ha finito col preoccupare, a Khartoum, il presidente Omar Hassan al-Bachir... Dopo che cheikh Tourabi e’ stato, nel 2000, silurato, Il Cairo e Khartoum si sono ritrovate sulla stessa lunghezza d’onda. Tuttavia si impone una precisazione: malgrado i suoi giuramenti in favore dell’unità del Sudan, Il Cairo ha perduto di molto la sua capacità di difendere l’integrità del paese “fratello”. Perché in Egitto sono gli Stati Uniti a tenere i cordoni della borsa (più di un miliardo di dollari di siuti ogni anno). E’ dunque Washington che batte il tempo...

 

L’obiettivo degli Stati Uniti: spezzettare il Sudan

Gli Stati Uniti, che hanno sostituito il Regno Unito come potenza dominante in Medio Oriente ed in Corno d’Africa, sono ai ferri corti col Sudan, dalla presa del potere da parte del regime islamista nel 1989. L’ambizione di federare i movimenti islamisti del pianeta – nutrita dall’ideologo del regime Hassan al-Tourabi e dal Congresso popolare arabo-islamico – le velleità di alleanza con l’Iran, la concessione di asilo a Oussama Ben Laden, così come i tentativi di destabilizzazione dell’Egitto, nella prima meta’ degli anni ’90, hanno reso Khartoum un obiettivo primario per Washington. Ne è prova la distruzione della fabbrica farmaceutica al-Chifa con missili nordamericani nel 1998, dopo gli attentati contro due ambasciate nordamericane in Africa dell’est.
L’allontanamento di Tourabi da parte del presidente Bachir e la fine dell’avventurismo panislamista, a partire dalla fine del 2000, non hanno intaccato l’ostilità degli Stati Uniti: questi rimproverano al Sudan la non approvazione dei fatti compiuti israeliani in Palestina e la sua capacità di resistenza ai desiderata occidentali, come testimoniano i contratti petroliferi che legano oramai Khartoum esclusivamente alla Cina e ad altri paesi del sud (Malaisia, India). Il conflitto del Sud Sudan e poi quello del Darfur permettono a Washington di accentuare il boicottaggio internazionale imposto al governo di Bachir e, soprattutto, di tentare di sottrarre all’autorità di Khartoum vaste distese di territorio sudanese, molto ricco di petrolio. E’ in questo contesto che si iscrive il sostegno diretto o indiretto degli Stati Uniti agli autonomisti ed ai separatisti del MPLS e del Movimento di liberazione del Sudan.

 

Strategia israeliana di aggiramento
Il blocco decretato qualche settimana fa da Tel Aviv nei confronti dei rifugiati provenienti dal Darfur consente almeno di fare piazza pulita di una leggenda compiacentemente alimentata. E’ oramai chiaro che la campagna contro il “genocidio perpetrato dalle Autorità di Khartoum” – orchestrato dallo Stato ebraico e dalle sue strutture, come il Museo dell’Olocausto negli Stati Uniti – é tutto tranne che motivato da ragioni umanitarie... Israele persegue con costanza, da mezzo secolo, una strategia di aggiramento che consiste nell’allacciare rapporti militari con gli Stati limitrofi del mondo arabo – Turchia, Iran (imperiale), Etiopia, Uganda, Zaire, etc – e con i movimenti indipendentisti che operano all’interno degli Stati arabi: Curdi dell’Iraq e della Syria, ribelli del Sud Sudan... In quest’ultimo paese, il sostegno militare dello Stato ebraico ai guerriglieri risale agli anni ’50.
Ma questo non é ancora tutto. Avendo neutralizzato l’Egitto col trattato di Camp David (1978), Tel Aviv é impegnata dall’inizio degli anni 2000 a ridimensionare i tre altri paesi arabi o islamici del Medio Oriente, che dispongono di forti potenzialità, sia demografiche, che di acqua ed energetiche: vale a dire l’Iraq, l’Iran ed il Sudan. Per lo Stato ebraico, le dissidenze del Sud Sudan e del Darfur sono grasso che cola. Alcuni giornali precisano che l’invio di armi israeliane agli insorgenti del Darfur é coordinato da un ex capo dei Servizi (Mossad)... Agli occhi di Tel Aviv, la presenza di contingenti dell’ONU o europei in Sudan può accelerare lo smembramento di questo paese, mentre il martello nordamericano porta a termine lo smembramento dell’Iraq.

 

Il sarkozysmo alla prova del Darfur

Fin dalla elezione alla presidenza, sia Nicolas Sarkozy, che il capo della sua diplomazia, Bernard Kouchner, hanno preso posizione sul Darfur. La loro fretta di occuparsi del dramma umanitario – sotto il profilo della protezione dei civili e del rimpatrio dei rifugiati – é certamente per loro vantaggiosa, in termini di popolarità sulla scena politica francese. Ma vi sono due altri considerazioni che motivano il numero uno dell’Esagono e il French Doctor. La loro professione di fede filo-israeliana e le loro multiple concertazioni con gli Stati Uniti l’attestano: tutti e due si iscrivono – piu’ risolutamente di qualsiasi altro predecessore della V° Repubblica – in un approccio atlantista e filo-israeliano. Bisogna dunque, nella loro ottica, ostacolare la capacità di influenza regionale del Sudan, grande paese dotato di un governo colpevole di accogliere gli uffici di Hamas e della Jihad islamica palestinese. La Francia poi é in prima linea, sotto l’ombrello dell’Europa, nell’ambito del corpo di spedizione che si installerà in Tchad. Cosi facendo, l’equipe Sarkozy bada anche – come i precedenti – a proteggere il Tchad ed il Centrafrica, due paesi della riserva di caccia francofona, contro i ribelli venuti dal Sudan.
Nel suo triplo approccio, umanitario, atlantista e protezionista, l’esecutivo francese ha ottenuto abilmente il rinforzo della Lybia, dopo la visita della coppia Sarkozy a Tripoli e la liberazione degli ostaggi bulgari. Parigi e la Jamahiriya coordinano (momentaneamente?) la loro politica, come dimostrano le pressioni esercitate su di un capo ribelle del Darfur rifugiato a Parigi, per convincerlo a partecipare ai negoziati patrocinati a Syrte dalla Guida Lybica.

 

Pechino, un amico a geometria variabile

Anche se la presenza cinese in Sudan é antica – il palazzo dei congressi della capitale é stato edificato negli anni ’70 –, Pechino non ha però contratto con Khartoum un matrimonio indissolubile. Certamente la sete di energia dell’Impero di mezzo ed il considerevole potenziale petrolifero del Sudan – le sue riserve certe si sono piu’ che raddoppiate dal 2001 al 2006, passando da 262 milioni di barili a 563 milioni di barili – rendono questo paese un partner privilegiato della cooperazione cinese. Anche mentre gli Stati Uniti e l’Europa, spinti dalla potente lobby filo-israeliana, si impegnano ad isolare Khartoum. Per riassumere, la Cina si é vista concedere la maggior parte dei contratti di esplorazione, di produzione e di esportazione del greggio sudanese, insieme a numerosi progetti di infrastrutture. Pechino contribuisce, da allora, allo sviluppo accelerato del Sudan (la crescita ha raggiunto l’8,6% nel 2005) e si impegna a frenare, nelle istanze dell’ONU, gli ardori di boicottaggio ed intervenzionisti dell’occidente.
La Cina, nel trattare il dossier sudanese, manifesta tuttavia una flessibilità maggiore di quanto non sembri. E’ lei che, per migliorare la sua immagine in occidente all’avvio dei giochi olimpici di Pechino (2008), ha convinto Khartoum ad accettare una presenza armata “ibrida” ONU-Unione africana in Darfur. “L’amicizia” di Pechino col Sudan, per decisiva che sia, é lungi dall’essere esclusiva. Così i contratti cinesi col Tchad, un paese anche lui petrolifero, che intrattiene relazioni esecrabili con Khartoum, si moltiplicano dopo che N’djamena ha rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan. Pechino riuscirà bene a farsi affidare lo sfruttamento dell’oro nero in Darfur, chiunque sia il vincitore del duello sudanese-Tchadiano attuale. Altro esempio di pragmatismo disinvolto di cui la Cina dà prova: prevedendo l’approdo del Sud Sudan all’indipendenza – all’esito del referendum di autodeterminazione fissato per il 2011 – Pechino negozia gia’ con la Kenya Pipeline Corporation la costruzione di un oleodotto che conduca i giacimenti sud sudanesi al porto di Lamu. Questo oleodotto rimpiazzerà l’oleodotto attuale, controllato da Khartoum, che sbocca a Port-Soudan?

 

L’enigmatico vicepresidente Taha
Il presidente sudanese Omar Hassan al-Bachir ed il suo secondo vice-presidente, Ali Othman Mohamed Taha, parlano una stessa voce? Si può dubitarne, anche se i due giurano di sì. In almeno due occasioni – a proposito di questioni decisive – i due uomini forti del regime hanno reagito in modo diverso alle formidabili pressioni straniere esercitate sul Sudan. Mentre il presidente Bachir si ribellava, Taha ha accettato di concludere, nel 2005, l’accordo di Naivasha, che ha aperto apparentemente la strada alla separazione del Sud Sudan; poi il vice-presidente ha approvato nel 2006 – contraraiamente al capo dello Stato – lo stanziamento nel Darfur di forze ONU. Scambio di ruoli o divergenze di fondo che possano essere il preludio di un divorzio? Una cosa é sicura: Taha, durante tutta la sua carriera di militante e poi si dirigente – é riuscito a salire astutamente tutti i gradini: adottando una linea intransigente negli anni ’90, quando appariva come il fedele secondo di cheick Tourabi, il leader del Fronte nazionale islamico; poi incarnando il ruolo di dirigente pragmatico e aperto, alla fine degli anni ’90. Considerato dal popolino della capitale e dalla truppa come un mussulmano onesto e patriota, il presidente Bachir si é alla fine allineato alle posizioni del suo collaboratore. Il Darfur ed il Sud Sudan sono tuttavia in definitiva perdute per Khartoum? Nulla può confermarlo. All’interno del regime islamista, nell’esercito e  servizi segreti, numerosi sono i dirigenti che, temporeggiando, sfruttando gli antagonismi tra dirigenti sudisti e leaders del Darfur, oltre alle ambiguità degli accordi conclusi  – rinviano alle calende greche il trasferimento dei territori e della sovranità.

 

L’impasse sud-sudanese
Qualche mese dopo la conclusione, nel gennaio 2005, del trattato di Naivasha che mette fine a più di due decenni di conflitto nel Sud Sudan, lo storico capo della ribellione, John Garang, é sparito in un incidente. Il suo elicottero prestato dal presidente ugandese Yoweri Museveni, partito dall’Uganda, si é schiantato in territorio sud-sudanese... Garang s’era sempre pronunciato in favore di un Sudan unito e federale. Salva Kiir, il capo militare che gli é successo alla testa del MPLS, non nasconde la sua preferenza per un Sud Sudan indipendente, mano mano che ci si avvicina al referendum di autodeterminazione di questa regione, previsto per il 2011. Kiir – nominato primo vice-presidente del Sudan e capo dell’amministrazione del sud durante il periodo transitorio – rifiuta di condannare la ribellione in Darfur. Corrono voci sulla consegna di armi nell’ovest sudanese, attraverso il sud.
Kiir rimprovera al potere centrale di ritardare l’evacuazione del Sud e di non cedere a questa regione la parte di spettanza delle rimesse petrolifere provenienti dai giacimenti di Abiyei, la cui appartenenza resta controversa. Il leader sudista si prepara a sospendere la partecipazione dei ministri MPLS al governo di coalizione a Khartoum. Alcuni agitano lo spauracchio di una ripresa della guerra nel sud... Dal canto suo, Khartoum conserva una certa potenzialità nociva, grazie alle milizie sudiste pro-governative che rifiutano di riconciliarsi col MPLS. Senza contare i guerriglieri ugandesi dell’Esercito del Signore rifugiatisi nel Sud Sudan, che detestano il MPLS. Perfino delle figure di primo piano dell’ex ribellione sudista – come Lam Akol, diventato capo della diplomazia nel governo di coalizione di Khartoum – esitano ad accettare uno stato Sud-Sudanese che sarebbe dominato dall’etnia dinka (alla quale si collega Kiir).
In breve, l’immensa partita di scacchi che si gioca nel paese più vasto dell’Africa e del mondo é lontano dall’essere terminata.