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ProfileLa guerra in Medio Oriente, 10 marzo 2024 - Le capitali occidentali non considerano Israele come uno Stato, un attore politico capace di massacrare bambini, ma piuttosto come una causa sacra. Quindi qualsiasi critica è una bestemmia (a sinistra, una vignetta di Vauro)     

 

Middle East Eye, 7 marzo 2024 (trad.ossin)
 
Le accuse di antisemitismo sono uno scudo per il genocidio di Gaza
Jonathan Cook (*)
 
Le capitali occidentali non considerano Israele come uno Stato, un attore politico capace di massacrare bambini, ma piuttosto come una causa sacra. Quindi qualsiasi critica è una bestemmia
 
 
 
 
Se leggete i media dell’establishment, sembra quasi che Israele e i suoi più ardenti sostenitori siano oggi soprattutto impegnati a contrastare un’apparente nuova ondata di antisemitismo in Occidente.
 
Articolo dopo articolo, ci viene detto come Israele e i leader ebraici occidentali sollecitino la nostra attenzione e la nostra indignazione per l’aumento degli episodi di odio antiebraico. Organizzazioni come il Community Security Trust nel Regno Unito e l’Anti-Defamation League negli Stati Uniti producono lunghi rapporti sull’incessante aumento dell’antisemitismo, soprattutto a partire dal 7 ottobre, e avvertono che è urgentemente necessaria un’azione.
 
Indubbiamente esiste una minaccia reale di antisemitismo e, come sempre, proviene in gran parte dall’estrema destra. I comportamenti di Israele – e la sua falsa pretesa di rappresentare tutti gli ebrei – contribuiscono solo ad alimentarlo.
 
Questo panico morale è palesemente egocentrico. Tende a distogliere l’attenzione dalle prove pressanti e fin troppo concrete che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza – un genocidio che ha finora portato al massacro e alla mutilazione di molte decine di migliaia di innocenti. 
 
E pretende di reindirizzare invece la nostra attenzione verso il dubbio emergere di un’ondata di antisemitismo, i cui effetti tangibili appaiono limitati e le cui prove sono fin troppo chiaramente esagerate. 
 
Dopotutto, un aumento dell’“odio verso gli ebrei” è quasi inevitabile se si ridefinisce l’antisemitismo, come hanno recentemente fatto i funzionari occidentali attraverso la nuova definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance, per includervi anche la semplice antipatia verso Israele – e nel momento in cui Israele appare, anche agli occhi della Corte Internazionale, come autore di un genocidio.
 
La logica di Israele e dei suoi sostenitori è più o meno la seguente:
 
Molte più persone del solito esprimono odio verso Israele, lo Stato autoproclamato dal popolo ebraico. Non c’è motivo di odiare Israele a meno che non si odi ciò che rappresenta, ovvero gli ebrei. Pertanto, l’antisemitismo è in aumento.
 
Questo argomento ha un senso per la maggior parte degli israeliani, per i suoi partigiani e per la stragrande maggioranza dei politici occidentali e dei giornalisti dell’establishment che intendono far carriera. Vale a dire, per quelle stesse persone che travisano la richiesta di parità di diritti all’interno della Palestina storica – “dal fiume al mare” – come volontà di cacciare gli ebrei.
 
La cantante Charlotte Church, ad esempio, è stata accusata di antisemitismo da tutti i media dell'establishment dopo aver partecipato ad un “coro filo-palestinese” per raccogliere fondi per i bambini di Gaza che muoiono di fame a causa del blocco degli aiuti israeliano. La canzone incriminata conteneva le parole “Dal fiume al mare”, e chiedeva la liberazione dei Palestinesi da decenni di oppressione israeliana. 
 
Nel fine settimana, il cancelliere Jeremy Hunt ha nuovamente sostenuto che le manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco sono antisemite perché presumibilmente “minacciano” gli ebrei. In realtà moltissimi ebrei partecipano a quelle manifestazioni. Doveva piuttosto riferirsi ai sionisti che giustificano il massacro di Gaza. 
 
 
 
 
Allo stesso modo, sulla scia della schiacciante vittoria elettorale di George Galloway “per Gaza” a Rochdale la scorsa settimana, un giornalista della BBC ha rimproverato l'ex deputato laburista Chris Williamson per aver definito “genocidio” l’azione di Israele a Gaza. 
 
Il giornalista era preoccupato che il termine “potesse offendere alcune persone”, nonostante la Corte Internazionale abbia ritenuto plausibile l’accusa di genocidio. 
 
 
Un fenomeno macabro
 
Ma l’ambizione di questi fanatici israeliani non si limita a distogliere l’attenzione dalla realtà del genocidio. I leader di Israele e la maggior parte dei suoi cittadini non si vergognano del loro genocidio, a quanto pare, e nemmeno i loro sostenitori esteri. 
 
Se i miei feed sui social media sono di qualche indicazione, il massacro di Gaza non sconcerta questi apologeti, né li fa riflettere. Sembrano gioire del loro sostegno a Israele mentre il mondo guarda con orrore. 
 
 
 
 
Il corpo insanguinato di ogni bambino palestinese e l'indignazione che provoca negli spettatori alimentano la loro ipocrisia. Si trincerano, non si ritirano. 
 
Sembra che trovino una strana rassicurazione – addirittura conforto – nella rabbia e nell'indignazione del pubblico più ampio per l'estinzione di così tante giovani vite.
 
Ciò corrisponde molto precisamente a quella che è stata la reazione dei funzionari israeliani al verdetto della Corte internazionale di giustizia secondo cui è plausibile sostenere che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza. 
 
Molti osservatori si aspettavano che Israele avrebbe cercato di placare i giudici e l’opinione mondiale attenuando le sue atrocità. Si sbagliavano di grosso. Sfidando la Corte, Israele è diventato ancora più sfacciato, come testimonia il terribile attacco contro l’ospedale Nasser il mese scorso e l’attacco letale contro i Palestinesi che si affollavano per ricevere gli aiuti alimentari la settimana scorsa. 
 
I crimini di guerra di Israele – trasmessi su ogni piattaforma di social media, anche dai suoi stessi soldati – sono ancora più evidenti ai nostri occhi di quanto lo fossero prima dell’ordinanza della Corte Internazionale.
 
 
 
 
Questo fenomeno ha bisogno di essere spiegato. Ha aspetti macabri. Ma possiede una logica interna che fa luce sul motivo per cui Israele è diventato un sostegno emotivo per molti ebrei, sia all’interno del paese che all’estero, così come per altri. 
 
Non è solo il fatto che gli ebrei e i non ebrei che aderiscono fortemente all’ideologia del sionismo si identificano con Israele. È qualcosa di ancora più profondo. Essi sono totalmente dipendenti da una visione del mondo – a lungo coltivata in loro da Israele e dai leader delle loro stesse comunità, così come dalle istituzioni occidentali accaparratrici di petrolio – che pone Israele al centro dell’universo morale. 
 
Sono diventati qualcosa che assomiglia molto ad una setta – e per di più molto pericolosa, come stanno rivelando gli orrori di Gaza.
 
 
Cespuglio, non rifugio
 
L’idea che hanno interiorizzato – che Israele sia un rifugio necessario a causa degli impulsi genocidi che sembrano essere innati nei non ebrei – avrebbe dovuto crollare loro in testa negli ultimi cinque mesi. 
 
Se il prezzo di una simile rassicurazione – di avere un rifugio “per ogni evenienza” – è il massacro e la mutilazione di molte decine di migliaia di bambini palestinesi, e la lenta morte per fame di altre centinaia di migliaia, allora non vale la pena difendere quel rifugio. 
 
Non è un rifugio; è un cespuglio. È una macchia. Deve scomparire, per essere sostituito da qualcosa di meglio per gli ebrei e i palestinesi della regione – “dal fiume al mare”. 
 
Allora perché questi partigiani israeliani non capiscono ciò che è moralmente evidente per tutti gli altri – o almeno per coloro che non si sono sottomessi agli interessi delle istituzioni occidentali? 
 
Perché, come ogni membro di una setta, i sionisti più accaniti sono immuni  all’autoriflessione. Non solo, ma il loro ragionamento è completamente autoreferenziale. 
 
Israele, la creatura del sionismo, non è minimamente interessato a fornire una soluzione all’antisemitismo, come sostiene. Al contrario. Si nutre di antisemitismo e ne ha bisogno. 
 
L'antisemitismo è la sua linfa vitale, la ragione stessa dell'esistenza di Israele. Senza l’antisemitismo, Israele sarebbe superfluo, non ci sarebbe bisogno di un rifugio. 
 
Il culto finirebbe, così come gli infiniti aiuti militari, lo status commerciale speciale con l’Occidente, i posti di lavoro, l’accaparramento di terre, i privilegi e il senso di importanza e il vittimismo estremo che consente la disumanizzazione degli altri, non ultimi il Palestinesi. 
 
Come tutti i veri credenti, i partigiani israeliani all’estero – che si definiscono orgogliosamente “sionisti” ma che ora stanno facendo pressioni sulle piattaforme dei social media affinché bandiscano il termine in quanto antisemita, dato che diventano più leggibili i veri obiettivi di quel movimento – non possono permettersi dubbi su se stessi e sulla comunità.
 
Essi intendono che la lotta contro l’antisemitismo deve avere priorità assoluta, anche rispetto al genocidio. Il che, a sua volta, significa che non può essere riconosciuto alcun male più grande dell’antisemitismo, nemmeno l’omicidio in massa di bambini. Non si può permettere che ci si preoccupi di una minaccia più grande, per quanto pressante, per quanto urgente.
 
E per tenere a bada il dubbio, è necessario generare più antisemitismo – più presunte minacce esistenziali. 
 
 
Il razzismo in una nuova veste
 
Negli ultimi anni, la più grande difficoltà affrontata dal sionismo è stata che i veri razzisti – di destra, spesso al potere nelle capitali occidentali – sono stati anche i più forti alleati di Israele. Hanno rivestito le loro tradizionali ideologie razziste – che un tempo alimentavano l’antisemitismo, e potrebbero ancora farlo – con un nuovo abito: l’islamofobia. 
 
In Europa e negli Stati Uniti i musulmani sono i nuovi ebrei. 
 
Il che è l’ideale per Israele e i suoi partigiani. Una presunta “guerra globale e di civiltà” – copertura ideologica per giustificare la prosecuzione del dominio occidentale sul Medio Oriente ricco di petrolio – pone sempre Israele, il cane da attacco regionale, dalla parte degli angeli, saldamente al fianco dei nazionalisti bianchi.  
 
Giacché Israele e i suoi apologeti non possono smascherare i veri razzisti e antisemiti al potere, devono crearne di nuovi. E ciò ha richiesto di modificare la definizione di antisemitismo rendendola irriconoscibile, per riferirsi a coloro che si oppongono al progetto di dominazione coloniale in cui Israele è profondamente integrato.
 
In questa visione del mondo capovolta, che prevale non solo tra i partigiani israeliani ma anche nelle capitali occidentali, siamo arrivati a una sciocchezza: opporsi all’oppressione dei Palestinesi da parte di Israele – e ora anche al loro genocidio – significa rivelarsi antisemiti.
 
 
Palestinesi disumanizzati
 
Questa è stata esattamente la posizione in cui si è trovata il mese scorso Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, dopo aver criticato il presidente francese Emmanuel Macron
 
Israele ha, di conseguenza, dichiarato che le vieterà l'ingresso nei territori occupati per documentare le violazioni dei diritti umani che vi si registrano. 
 
Ma nella pratica, come ha sottolineato Albanese, non è cambiato nulla. Israele ha espulso tutti i relatori delle Nazioni Unite dai territori occupati negli ultimi 16 anni, durante l'assedio di Gaza, in modo che non possano essere testimoni dei crimini che hanno causato l'attacco del 7 ottobre.
 
Il mese scorso Macron ha rilasciato una dichiarazione palesemente assurda, sebbene promossa da Israele e trattata seriamente dai media occidentali. Ha descritto l'attacco di Hamas contro Israele come il “più grande massacro antisemita del nostro secolo” – cioè, ha affermato che è stato provocato dall'odio verso gli ebrei.
 
Si può criticare Hamas per il modo in cui ha portato a termine il suo attacco, come ha fatto Albanese: senza dubbio, quel giorno i suoi combattenti hanno commesso numerose violazioni del diritto internazionale, uccidendo civili e prendendoli in ostaggio. 
 
Dovremmo però notare per amore di verità che si tratta esattamente dello stesso tipo di violazioni che Israele ha commesso giorno dopo giorno per decenni contro i Palestinesi costretti a vivere sotto la sua occupazione militare.
 
I prigionieri palestinesi, sequestrati dall’esercito occupante israeliano nel cuore della notte, tenuti in carceri militari e a cui è stato negato un processo adeguato, non sono meno ostaggi di quelli prelevati da Hamas. 
 
Ma individuare l’antisemitismo come la motivazione di Hamas significa cancellare questi decenni di oppressione. Cancella gli stessi abusi subiti dai Palestinesi contro cui Hamas e le altre fazioni militanti palestinesi sono state costituite per resistere. 
 
Il diritto di resistenza all’occupazione militare aggressiva è sancito dal diritto internazionale, anche se l’Occidente raramente lo riconosce. 
 
O come ha detto Albanese: “Le vittime del massacro del 7 ottobre non furono uccise a causa del loro ebraismo, ma in risposta all’oppressione israeliana”.
 
La ridicola affermazione di Macron ha anche cancellato gli ultimi 17 anni di assedio di Gaza – un genocidio al rallentatore che Israele ha ora irrobustito. 
 
E lo ha fatto perché gli interessi coloniali occidentali – proprio come gli interessi di Israele – devono dare una parvenza di razionalità alla disumanizzazione dei Palestinesi e dei loro sostenitori, bollandoli come razzisti e barbari, nella ricerca del dominio e del controllo all’antica delle risorse da parte dell’Occidente in Medio Oriente. 
 
Ma è Albanese, non Macron, che ora lotta per salvare la propria reputazione. È lei che viene diffamata come razzista e antisemita. Da chi? Da Israele e dai leader europei che sostengono il genocidio.
 
 
Causa sacra
 
Israele ha bisogno dell’antisemitismo. E, armato di una ridicola ridefinizione adottata dagli alleati occidentali che classifica come odio ebraico qualsiasi opposizione ai suoi crimini – qualsiasi opposizione alle sue false pretese di “autodifesa” mentre schiaccia la resistenza alla sua occupazione e all’oppressione dei Palestinesi – Israele ha ogni incentivo commettere più crimini. 
 
Ogni atrocità produce più indignazione, più risentimento, più “antisemitismo”. E quanto maggiore è il risentimento, l’indignazione, l’“antisemitismo”, tanto più Israele e i suoi sostenitori possono presentare l’autoproclamato Stato ebraico come un rifugio da quell’“antisemitismo”. 
 
Israele non viene considerato come uno Stato, come un attore politico capace di commettere crimini e massacrare bambini, ma come un dogma di fede. Si trasforma in un sistema di credo, immune alla critica o al controllo. Trascende la politica per diventare una causa sacra. E ogni opposizione deve essere dannata come malvagia, come blasfemia.
 
Questo è propriamente lo Stato cui è devoluta la politica occidentale. 
 
Questa battaglia contro l’“antisemitismo” – o meglio, la battaglia intrapresa da Israele e dai suoi partigiani – consiste nel capovolgere il significato delle parole e i valori che rappresentano. È una lotta per schiacciare la solidarietà con il popolo palestinese e lasciarlo senza amici e nudo di fronte alla campagna di genocidio di Israele. 
 
È un dovere morale sconfiggere questi guerrieri dell’”antisemitismo” e affermare la nostra comune umanità – e il diritto di tutti a vivere in pace e dignità – prima che Israele e i suoi apologeti aprano la strada a un massacro ancora più grande. 
 
 
 
(*) Jonathan Cook è un pluripremiato giornalista britannico. Ha vissuto a Nazareth, in Israele, per 20 anni. È tornato nel Regno Unito nel 2021.
È autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha anche contribuito con capitoli e saggi a diversi volumi su Israele-Palestina.
Nel 2011 Jonathan ha ricevuto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. La citazione dei giudici recita: “Il lavoro di Jonathan Cook su Palestina e Israele, in particolare la sua decodificazione della propaganda ufficiale e la sua eccezionale analisi di eventi spesso offuscati dal mainstream, lo hanno reso uno degli affidabili rivelatori di verità in Medio Oriente. "
Lo stesso anno, Project Censored ha giudicato un reportage di Jonathan come una delle storie più importanti censurate nel 2009-2010.
Reportage e commenti di Jonathan sono apparsi sul the Guardian, the Observer, the Times e the New Statesman (London); The International Herald Tribune e Le Monde diplomatique (Paris); Al-Ahram Weekly (Cairo); The National (Abu Dhabi); The Daily Star (Beirut); The Middle East Report e Washington Report on Middle East Affairs (Washington); e The Irish Times (Dublin). Ha contribuito a molti siti online, come Middle East Eye, CounterPunch, Al-Jazeera e Electronic Intifada.
È stato consulente senior e autore principale di due importanti rapporti dell'International Crisis Group, un importante think tank con sede a Washington e Bruxelles che si occupa di risoluzione dei conflitti.
Oggi fornisce regolarmente commenti e analisi sul Medio Oriente e scrive blog su media, propaganda, illeciti aziendali, ambiente e politica globale.  
 
Esperienza e qualifiche
Jonathan si è laureato in filosofia e politica all'Università di Southampton nel 1987, e ha poi conseguito un diploma post-laurea in giornalismo presso l'Università di Cardiff nel 1989. Ha conseguito un master in studi mediorientali, con lode, presso la School of Oriental and African Studies, Università di Londra, nel 2000.
Ha lavorato per giornali regionali prima di diventare giornalista presso il Guardian nel 1994. Successivamente è entrato a far parte del quotidiano Observer. Dal 2001 è giornalista indipendente.
 
 
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura