Stampa
 
Oumma, 20 dicembre 2017 (trad.ossin)
 
La farsa della soluzione « a due Stati »
Bruno Guigue
 
In vendita nelle verine dei negozi occidentali dal 1993, la “soluzione a due Stati” è un prodotto adulterato, un raggiro acclarato. La capitolazione dell’OLP ha offerto all’occupante, su di un vassoio, l’insperata opportunità di accelerare la colonizzazione. Il disarmo unilaterale della resistenza ha gettato la Palestina in pasto agli appetiti sionisti. Catastrofe politica, il processo di Oslo ha corrotto l’élite palestinese e sprofondato questo movimento di liberazione, che era un tempo l’orgoglio del mondo arabo, nella piaga delle divisioni.
 
 
Con la complicità dei dirigenti di Fatah, la colonizzazione sionista ha polverizzato Gerusalemme est e la Cisgiordania, uccidendo sul nascere la possibilità concreta di uno Stato palestinese. Come si può costruire uno Stato vitale con frammenti sparsi di un territorio dimezzato ? Piena di colonie, la Palestina è stata cancellata dal rullo compressore dell’occupazione, eliminata dalla carta dalla conquista sionista. La Palestina di Oslo non è neppure un embrione di Stato. E’ una menzogna cui si aggrappa una Autorità palestinese moribonda e screditata.
 
E’ colpa degli “opposti estremismi”, talvolta si dice. Ma da quando il colonialismo è moderato? E dove si è mai visto un popolo colonizzato rimettersi alla generosità del colonizzatore per ottenere giustizia? E’ un comodo artificio quello di equiparare occupante e occupato, come se la responsabilità dovesse ripartirsi tra di loro. Permette alla coscienza occidentale di cavarsela a buon mercato, affermando che è tutta colpa di Hamas e di Netanyahu.
 
La realtà del conflitto, invece, va molto oltre questi due protagonisti. Il sionismo non è un nazionalismo ordinario, è una impresa di sradicamento. L’idea che due Stati possano coesistere sul territorio della Palestina storica non ha alcun senso. Colonialisti lucidi, i sionisti lo sanno bene. Icona del “processo di pace”, il primo ministro Itzhak Rabin dichiarò alla Knesset, nel 1995, che non era proprio in questione la creazione di uno Stato palestinese, nemmeno un embrione di Stato, né oggi né mai.
 
Ovviamente si può fare come gli struzzi e sognare un sionismo immaginario, ma il sionismo che esiste veramente ha scarsa propensione per una condivisione territoriale insieme a degli autoctoni recalcitranti. Quel che vuole, è tutta la Palestina, “una Palestina ebraica come l’Inghilterra è inglese”, secondo l’espressione usata dal presidente dell’Organizzazione sionista mondiale Haïm Weizmann, indirizzandosi alle potenze occidentali nel 1919.  La spoliazione territoriale, l’appropriazione coloniale della Palestina non è un accidente del sionismo, è la sua stessa essenza.
 
Anche i Palestinesi lo sanno, e non hanno atteso il fiasco del sedicente “processo di pace” per rendersene conto. Nel settembre 1993, un “Fronte del rifiuto” nacque dal rigetto immediato degli accordi di Oslo. Riuniti nel campo di Yarmouk, in Siria, dieci movimenti palestinesi costituirono “l’Alleanza delle forze palestinesi”. Organizzazioni filo siriane, islamiste o marxiste, denunciando l’imbroglio del “processo di pace” e condannando la politica della corrente maggioritaria dell’OLP. Quel che vogliono, è la fine del sionismo, e uno Stato unico in Palestina.
 
Questa opposizione a Oslo è stata sistematicamente occultata, soprattutto dalle associazioni occidentali di sostegno alla Palestina, generalmente allineate sulla strategia collaborazionista della corrente maggioritaria di Fatah. Questa coalizione di forze di opposizione era peraltro molto più rappresentativa dell’opinione palestinese, dei futuri dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese. E alle elezioni del 25 gennaio 2006 nei Territori, i risultati elettorali di Hamas (42,6%) e del FPLP (4,1%), manifesti oppositori del “processo di pace”, superarono ampiamente quelli di Fatah (39,6%).
 
Se si tenga anche conto dell’opposizione altrettanto categorica delle organizzazioni operanti in Siria e in Libano, i cui simpatizzanti non potevano partecipare allo scrutinio, risulta evidente che i Palestinesi erano maggioritariamente ostili a ciò che percepivano con lucidità come una vera e propria frode. L’avere omesso di consultare i Palestinesi della diaspora, in ogni caso, ha compromesso la legittimità di un processo per cui solo i dirigenti dell’OLP e una borghesia palestinese che abita nei territori avevano buone ragioni per provare qualche interesse.
 
Al popolo palestinese, per contro, gli accordi di Oslo hanno solo portato frutti marci. Questi trattati ineguali hanno accentuato le divisioni fratricide in seno al movimento di liberazione. Hanno offerto all’occupante un mezzo di pressione permanente sui Palestinesi, oramai prigionieri di istituzioni di paccottiglia. Lungi dal consentire l’emergere della Palestina, Oslo l’ha anestetizzata. Il meglio che possa augurarsi per i Palestinesi, è che pongano fine a questa farsa, che rompano tutte le relazioni con l’occupante e riprendano la lotta per uno Stato unico e democratico in Palestina.