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Oumma, 7 dicembre 2017 (trad.ossin)
 
Subalternità di Washington allo Stato colono
Bruno Guigue
 
Donald Trump ha appena annunciato che gli USA riconoscono Gerusalemme come la capitale di Israele, affermando che lo Stato ebraico, in quanto Stato sovrano, “ha il diritto di stabilire qual è la sua capitale”. Una simile decisione è un affronto inflitto al diritto internazionale dalla prima Potenza mondiale. Colonizzata e annessa da Israele, Gerusalemme est viene considerata dai Palestinesi come la capitale del loro Stato futuro. Per l’ONU, si tratta di un territorio occupato in violazione della legalità internazionale, come hanno già affermato le risoluzione 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza.
 
Il presidente Donald Trump
 
Ma questa decisione è davvero una sorpresa? Essa risale alla campagna presidenziale del 2016, e Donald Trump non ne ha mai fatto mistero. Ignorato da Wall Street che gli preferiva Hillary Clinton, il candidato repubblicano cercava a ogni costo un diversivo per recuperare il distacco. Gli servivano degli appoggi nella lobbie sionista, altrimenti la vittoria rischiava di sfuggirgli. Fiutando il pericolo, Donald Trump si è affidato alla sua mossa preferita: ha rilanciato per avere la meglio su Hillary Clinton.
 
Invitato all’assemblea annuale dell’AIPAC, il 21 marzo 2016, Donald Trump ha fatto l’impossibile per far dimenticare le sue precedenti dichiarazioni. In precedenza, infatti, non aveva voluto prendere posizione sulla questione palestinese finché non fosse entrato alla Casa Bianca. Aveva esitato a dire se gli Stati Uniti dovessero riconoscere o meno Gerusalemme come capitale di Israele. Aveva detto che lo Stato ebraico avrebbe dovuto pagare l’aiuto militare fornitogli dagli Stati Uniti. Davanti all’AIPAC tutto è cambiato. In venti minuti, ha detto al suo uditorio quello che voleva sentire e ha ottenuto salve di applausi. In piedi, una “standing ovation”.
 
Ha affermato di essere un “sostenitore da lunga data e un autentico amico di Israele”. Con lui alla presidenza degli Stati Uniti, Israele non sarebbe stata più trattata “come un cittadino di seconda categoria”! Intervistato lo stesso giorno dalla CNN, ha dichiarato di essere pronto a spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme. Manifestamente deciso a fare meglio di Clinton, ha accusato l’Iran di essere “il più grande sponsor del terrorismo mondiale”, di avere aperto in Siria un nuovo fronte nel Golan contro Israele, di fornire armi sofisticate a Hezbollah libanese, e di sostenere Hamas e il Jihad islamico.
 
Ma questo discorso compiacente non è bastato. Trascurato dai suoi, Trump si rendeva conto di non godere dell’appoggio dei donatori ebrei del partito repubblicano. Questi finanziatori all’antica, sponsor tradizionali del partito conservatore, non apprezzavano la retorica di un candidato ostile al libero scambio e allergico al “sistema”. Preferivano orientarsi verso una candidata che non era mai stata avara nel suo appoggio a Israele e al complesso militar-industriale. Dopo tutto, l’importante è il business. Per Donald Trump, di colpo, il compito si faceva difficile. Bisognava fare assolutamente qualcosa per invertire la tendenza.
 
Nove settimane prima dello scrutinio, il candidato repubblicano si è risolto a giocare la sua ultima carta. Sperando che potesse consentirgli di sorpassare Hillary Clinton, di prenderla in contropiede sul suo stesso terreno. E’ stato allora che ha incontrato pubblicamente Benjamin Netanyahu, il 26 settembre 2016. All’esito di questo incontro, Trump ha promesso che avrebbe riconosciuto Gerusalemme come “la capitale indivisibile di Israele” e che vi avrebbe trasferito l’ambasciata statunitense se fosse stato eletto alla presidenza. Favoloso regalo allo Stato di Israele, violazione del diritto internazionale,  questa concessione all’occupante era gravida di conseguenze. Ma era difficile fare di meglio per sedurre la lobbie.
 
A fine settembre 2016, la “futura capitale dello Stato palestinese” è dunque caduta nel dimenticatoio. La “soluzione a due Stati” ha fatto le spese di una competizione senza esclusione di colpi tra due candidati che gareggiavano in immaginazione per ingraziarsi la lobbie. Abili burattinai, gli amici di Netanyahu hanno manovrato le due marionette che si disputavano un potere fantoccio. Risultato vincitore di questa competizione accanita, Trump ha deciso di spazzar via le illusioni che animavano i sui predecessori sul ruolo degli USA. Ha vinto la partita l’8 novembre 2016. Siamo al 6 dicembre 2017. Ci ha messo un anno a pagare il conto.
 
Riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, e trasferendovi la loro ambasciata, gli USA offrono al progetto di Stato palestinese un funerale di prima classe. Infliggono essi stessi il colpo di grazia ad un “processo di pace” di cui furono i padrini. “L’ora è giunta”, ha dichiarato  Donald Trump davanti alle telecamere il 6 dicembre. L’ora è dunque giunta, per Washington, di spazzar via ogni speranza di pace. Pubblicamente, il presidente statunitense ha appena dichiarato che la partita è finita. A rischio di screditare i suoi alleati arabi, ha proclamato che il fatto compiuto coloniale in Palestina è irreversibile.
 
Compromettendo in anticipo ogni prospettiva di negoziato, questo gesto spettacolare tradisce la subalternità di Washington agli interessi dello Stato colono. A cosa serve più negoziare se la posta in gioco (la possibilità di uno Stato palestinese con Gerusalemme est per capitale) è stata distrutta da Washington ? Paradossalmente, quest’ultima resa statunitense alle esigenze israeliane è il tocco di campana a morto per una illusione cui le altre potenze, occidentali o arabe, fanno finta di credere ancora. Donald Trump ha appena somministrato loro una doccia fredda, ricordando chi è il leader del “mondo libero”.
 
Ma c’è di più. Convalidando la retorica israeliana su “Gerusalemme riunificata”, il presidente statunitense ripristina anche la primazia del teologico sul politico. Le pretese sioniste sulla Città santa si fondano sul testo biblico. Accreditandole, Trump reintroduce il sacro in un conflitto essenzialmente profano. Percuote il diritto internazionale col diritto divino. Crea una cortina fumogena che mette in secondo piano lo scontro che oppone l’occupante all’occupato. Questa concessione alla mitologia sionista occulta la lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese. In un’epoca in cui la manipolazione del “religioso” è al servizio dell’imperialismo, non è una cosa innocente.